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Muta Imago

Un nuovo spettacolo in programma per l'edizione 2018 di Short Theatre, oltre dieci anni di lavoro da raccontare. Abbiamo intervistato Muta Imago.

Geschrieben von Nicola Gerundino il 29 August 2018
Aggiornato il 19 Juni 2024

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Compagnia Teatrale

A cavallo tra i Novanta e i Duemila, Roma ha conosciuto un fermento creativo unico, sperimentale e assolutamente aperto a contaminazioni e nuove tecnologie. Questo slancio ha riguardato in pieno anche il teatro, con molte compagnie che sono nate in quegli anni e sono riuscite nel tempo ad affermarsi a livello nazionale e Internazionale. Muta Imago – ovvero Claudia Sorace e Riccardo Fazi – è una di queste e da oltre dieci anni ha arricchito teatri e palchi di Roma con i propri lavori. In questo ultimo scorcio di 2018 presenteranno una nuova opera, Combattimento, all’interno di Short Theatre (in programma dal 5 al 15 settembre, mentre Combattimento sarà in cartellone il 13 e il 14). In questa lunga intervista abbiamo parlato di spettacoli passati e futuri e di quello slancio che ora Roma sembra aver esaurito, a meno che…. (Foto di: Laura Arlotti, Luigi Angelucci, Chiara Fazi, Maria Elena Fusacchia)
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ZERO: Quando nasce Muta Imago e chi ne fa parte?
Muta Imago: Muta Imago nasce ufficialmente nel 2006. Come spesso accadde in questi casi, la necessità di fondare una compagnia nasce dal desiderio di creare le condizioni per realizzare uno spettacolo con altre persone. A partire dal nostro primo lavoro, l’evoluzione poi è stata piuttosto veloce: i collaboratori si sono selezionati di spettacolo in spettacolo, passando per (a+b)3 (2007), Lev (2008) e Madeleine (2009), abbiamo incontrato Glen Blackhall, Chiara Caimmi, Massimo Troncanetti, Fiamma Benvignati con alcuni di loro che sono tuttora fondamentali compagni di viaggio. Il nucleo artistico di Muta Imago è sempre stato composto da me, Riccardo Fazi, e da Claudia Sorace. Io mi occupo della drammaturgia e del disegno sonoro, Claudia è la regista della compagnia e si occupa anche delle scene e delle luci degli spettacoli. Da alcuni anni collaboriamo felicemente con Maria Elena Fusacchia, che si occupa della direzione tecnica e della realizzazione dei video, mentre Martina Merico, producer e organizzatrice, permette che tutto possa accadere sempre nel modo migliore. Nella storia della compagnia avvengono in continuazione importanti incontri professionali e artistici, il nostro è un DNA meticcio che cresce e si sviluppa proprio a partire dal continuo confronto con nuove professionalità, che possano arricchire il lavoro e spostare i punti di vista. Chiaramente, entrare in dialogo con nuovi collaboratori richiede tempo e cura, è sempre un percorso lungo, ma è anche una delle ragioni principali per cui abbiamo scelto questa professione. La possibilità e la necessità di incontrare sempre nuove persone, sempre nuovi professionisti assieme ai quali crescere: per una vita, per cinque anni, o anche soltanto per uno spettacolo.

Come vi siete conosciuti?
Ho conosciuto Claudia durante un laboratorio di teatro all’inizio dei 2000. Poi lei è partita per Milano, per studiare regia alla Paolo Grassi. Durante quei tre anni di lontananza mi sono messo assieme ad alcuni amici a realizzare performance e installazioni nei locali di via di Libetta o nei centri sociali di cui Roma era piena; nel frattempo mi laureavo in Lettere, mentre facevo l’assistente di Caden Manson del Big Art Group a New York e in giro per l’Europa. Poi, nel 2005, lei tornò da Milano, e decidemmo che era giunto il momento di realizzare il nostro primo spettacolo importante. Si chiamava Hong Kong al quarantesimo chilometro, era un mio testo che raccontava la storia di tre persone che si incontrano per caso durante un gigantesco black out e decidono di fondare un nuovo tipo di società, basata sulla loro produzione indipendente di energia. Ci lavorammo sei mesi, lo mettemmo in scena all‘Angelo Mai, il primo, quello che stava a Monti. Fu un disastro: tre repliche, trenta spettatori e la consapevolezza di aver sbagliato qualcosa di molto importante. Fortunatamente, nemmeno un mese dopo, un mio amico ci chiese se volevamo realizzare un lavoro per i festeggiamenti organizzati dal Comune di Roma per la Giornata Mondiale dell’Acqua: ci chiudemmo nel sotterraneo di una ex sede del Pci e in una settimana realizzammo comeacqua, che è stato il nostro primo lavoro a ricevere degli applausi convinti. Senza sapere come, per la prima volta sentimmo che stavamo iniziando a immaginare e costruire un linguaggio che ci sembrava solo nostro.

comeacqua.
comeacqua.

Poi è arrivato (a+b)3 e siete diventati adulti.
Malgrado ci fossero stati prima Hong Kong e comeacqua, ho sempre considerato (a+b)3 come primo spettacolo di Muta Imago. Forse perché era il primo interamente creato da me e Claudia, forse perché eravamo in scena insieme per la prima volta, forse perché è stato il nostro primo spettacolo a varcare la soglia del Raccordo Anulare, forse perché continuiamo a replicarlo ancora oggi, undici anni dopo, e non abbiamo mai smesso di farlo (le prossime repliche saranno a Torino a novembre, a Cubo Teatro). Siamo io e Claudia dentro a un cubo di legno di due metri per due che raccontiamo attraverso suoni, immagini, ombre e movimento, una storia universale di amore e guerra.

Cosa avete provato prima e cosa dopo essere saliti sul palco per questo spettacolo?
Non dimenticherò mai lo stupore che provavo le prime volte che andavamo in scena con (a+b)3, quando guardavo gli sguardi felici degli spettatori durante gli applausi e per la prima volta avevo la conferma che avevamo fatto qualcosa che sembrava piacere anche agli altri almeno tanto quanto era piaciuto farlo a noi. Non so, ero sconvolto. Quasi non ci credevo, mi dicevo: «Devono sbagliarsi, non può piacergli così tanto». La sensazione che ciò che è più importante per te contempli lo spazio per il piacere dell’altro è la più bella che si possa provare. Ci avevamo lavorato un anno intero, è stato faticosissimo. Stare in scena, però, non è mai stato un nostro desiderio forte: dopo (a+b)3 ci siamo tornati solo sei anni dopo, con Pictures from Gihan. In generale lo facciamo solo quando abbiamo voglia di sperimentare delle possibilità linguistiche nuove direttamente sulla nostra pelle. Fin da subito abbiamo percepito che il nostro desiderio era di rimanere dietro le quinte e che, se volevamo evolvere come compagnia, dovevamo lasciare la scena a professionisti che potessero dialogare con le nostre idee e dargli corpo e voce in maniere che noi non avremmo mai nemmeno potuto immaginare. Abbiamo imparato tantissimo dalle attrici, dagli attori, dai performer, dai danzatori e dalle danzatrici con le quali e con i quali abbiamo collaborato. Muta Imago è così: è guidata da me e Claudia, ma cambia forma e direzioni in relazione a tutte le persone che nel tempo ci accompagnano.

Pictures from Gihan.
Pictures from Gihan.

È sempre interessante conoscere la formazione di un gruppo teatrale e a noi interessa molto sapere come la città diventi un’entità formativa. Parliamo di Roma, quindi. Ci sono stati dei luoghi che sono stati decisivi per il vostro percorso teatrale?
I miei luoghi del cuore sono due: il Teatro India e il Teatro Palladium. Dell‘India ricordo la prima volta che lo vidi, appena aperto da Mario Martone, allora direttore del Teatro di Roma, credo fosse il 2001. Mi ero appena iscritto all’università, e mi ritrovai immerso in quel luogo incredibile che in quei giorni era abitato dalla comunità dell‘Odin Teatret e da quel loro mondo sghembo che faceva stare insieme pomeriggi passati a stirare teli, cene di gruppo su tavolacci di legno e poesie infinite lette ad alta voce alla luna. Quell’esperienza mi colpì indelebilmente, in modi che ancora oggi credo di non aver compreso fino in fondo. Sempre al Teatro India, una sera del 2003 vidi Flicker, uno spettacolo del Big Art Group, gruppo di post-avanguardia newyorchese che veniva per la prima volta a Roma, portato da Natalia di Iorio e dal Festival Vie. Fu una folgorazione. Dopo quello spettacolo mi dissi due cose: voglio farlo con loro e poi voglio farlo anche io. Gli anni successivi li passai a cercare di realizzare entrambi i sogni.

E poi il Palladium, il primo „vero“ teatro dove abbiamo presentato un nostro lavoro, Lev, nel 2008, prima all’interno della rassegna ZTL e poi al Romaeuropa Festival. Ricordo che passammo la notte in attesa che aprissero i giornalai perché sapevamo che sarebbe uscita una recensione del lavoro su Repubblica. La nostra prima recensione: ci sentivamo come i Beatles! Fa tristezza pensare che oggi entrambi questi luoghi abbiano perso la forza e l’identità che li contraddistingueva allora. Eppure, sono sempre lì, pronti ad accoglierti: ogni volta che li vedo o che mi capita di lavorarci, mi ricordano che è possibile sempre e comunque fare bene, ma anche che tutto passa. È un po‘ il problema di Roma, delle sue rovine che ci ricordano costantemente quanto poco contino tutti gli sforzi che facciamo, ma anche quanto sia importante non smettere mai di provare a lasciare dietro di sé tracce di bellezza. Ma i luoghi formativi sono stati tanti: il Teatro Valle, con la stagione organizzata dall‘ETI, l’Ente Teatrale Italiano, e gli incontri di scrittura gestiti da Antonio Audino e Andrea Porcheddu. Al Valle ho visto per la prima volta uno spettacolo della Societas Raffaello Sanzio, il Giulio Cesare, me lo ricordo ancora oggi, ogni singolo minuto. Il Teatro Ateneo dell’Università di Roma, dove ho fatto i miei primi laboratori; il festival Enzimi; il Kollatino Underground che ha ospitato le nostre prove per anni; l‘Angelo Mai, luogo unico oggi a Roma, centro di produzione e condivisione di pensiero e di pratiche fondamentali. Teatro Valle, Eti, Teatro Ateneo, Enzimi e Kollatino Underground oggi sono tutte realtà che non esistono più: sembra un secolo fa e invece non sono nemmeno dieci anni. Roma è una città che si ostina a non voler capitalizzare le proprie risorse.

Lev.
Lev.

Stessa domanda, ma riferita alle persone. Figure e compagnie di Roma che sono state fondamentali per il vostro percorso?
Per quanto riguarda le compagnie, sicuramente i Santasangre, soprattutto Luca Brinchi e Roberta Zanardo. Sono stati i primi artisti romani ad accogliere il nostro lavoro, ospitandolo all’interno della rassegna che organizzavano in quegli anni al Kollatino Underground. Non scorderò mai la prima volta che sono entrato al Kollatino, che a inizio 2000 era uno dei centri culturali del contemporaneo a Roma: un universo che mescolava tutto, dal teatro, al video, alla danza, alla club culture, e che fino a quel momento avevamo solo guardato da lontano. Per quanto riguarda le persone, sono veramente troppe per essere nominate tutte: nel nostro lavoro ogni incontro è importante e da ogni persona, da ogni percorso, c’è sempre qualcosa da imparare.

Ancora la formazione, ma riguardante gli eventi.
Sicuramente il Romaeuropa Festival. Fabrizio Grifasi, il direttore artistico, è una persona sempre attenta a percepire il potenziale contenuto nei percorsi di ricerca che incontra. La Fondazione è stata la prima struttura che ha creduto nel nostro lavoro: nel 2008 ospitò Lev, il nostro terzo spettacolo, e da allora ci ha sempre sostenuto con continuità e grande rispetto nei confronti della nostra proposta artistica. Short Theatre svolge un ruolo fondamentale di sostegno, diffusione e creazione di pensiero in relazione all’ultra-contemporaneo, a quello che ancora quasi nemmeno si riesce a nominare e che riesce ad arrivare a Roma grazie all’incredibile lavoro di ricerca e osservazione che Francesca Corona fa in giro per l’Europa. Ma il nostro percorso è stato segnato da tutti i festival romani che abbiamo attraversato con il nostro lavoro: Teatri di Vetro, Enzimi, ZTL, Istantanee.

Lo stato attuale di Roma per il teatro qual è a vostro giudizio?
Pessimo. E lo dico io che sono ottimista per natura. Al di là degli esempi citati, mi sembra ci sia un preoccupante, generale vuoto di pensiero e di progettualità in relazione al senso, al significato del fare teatro e performance oggi, e alla possibile portata utopica che questo potrebbe avere, se solo gli si lasciasse spazio e tempo. Una possibilità artistica, e quindi inevitabilmente politica, che viene continuamente frustrata in nome di dinamiche di potere, di relazioni, di interessi che con l’arte hanno veramente poco a che fare.

Cosa manca e cosa invece ha a suo favore Roma, sempre rispetto a quest’ambito?
Come dicevo, credo che il settore culturale sia estremamente logorato da anni di fatica legati alla strutturale mancanza di fondi e alla continua mediazione – non in senso positivo – con la politica: non è facile trovare persone preparate e valide e spesso negli anni queste persone hanno dovuto combattere, nel vero senso della parola, per aprire degli spazi o delle possibilità per il proprio lavoro. L’impressione è che, mai come oggi, la tendenza principale sia quella di mantenere lo stato esistente delle cose; manca quella leggerezza necessaria alla sperimentazione, la consapevolezza che anche se ti prendi il rischio e sbagli il mondo non crolla, che ci puoi sempre riprovare. Senza dubbio si tratta di un lavoro molto faticoso che per prevedere il rischio al suo interno dovrebbe essere supportato da una seria e programmatica strategia culturale a livello territoriale e nazionale. E mi colpisce molto anche la mancanza di una nuova generazione artistica nelle arti performative: paradossalmente noi continuiamo ad essere considerati giovani, anche se da un punto di vista di esperienza e di anagrafica chiaramente non lo siamo più, né vogliamo esserlo. Sembra mancare quel fermento e quell’urgenza che all’inizio del 2000 ha permesso di far nascere a Roma tante esperienze, seppur nella difficoltà. Mi chiedo dove stiano convergendo le energie artistiche, che sicuramente ci sono, dei giovani e perché noi non le vediamo. Esistono nuove singole realtà di eccellenza, come Industria Indipendente o Salvo Lombardo, ma si fatica davvero a intuire la possibilità di una „scena“ o di uno spirito comune. Quello che sicuramente non manca a Roma, almeno potenzialmente, è il pubblico. E un’altra potenzialità, che ho sentito emergere soprattutto negli ultimi mesi, è rappresentata da alcuni timidi accenni di “ribellione” degli artisti romani della nostra generazione rispetto a questa situazione di stallo: stiamo cercando di organizzarci per capire in quali maniere inedite collaborare, per capire insieme cosa manca davvero e cosa sarebbe necessario ci fosse. La cosa positiva dello stato attuale di Roma è che ci sono sempre più vuoti che possono essere riempiti in modalità inedite. Mi incuriosisce il progetto Asilo al Macro, e la nomina di Cesare Pietroiusti a presidente di Palaexpo mi fa ben sperare per il futuro di alcuni luoghi che da troppo tempo hanno perso la loro identità.

Industria Indipendente: Erika Z.Galli e Martina Ruggeri.
Industria Indipendente: Erika Z.Galli e Martina Ruggeri.

Ci sono altre città d’Italia che ritenete particolarmente rilevanti per il teatro attualmente?
Credo che in questo momento, e non solo per quanto riguarda la performance e la danza, Milano sia uno dei centri di produzione più interessanti. Nell’ultimo anno, ogni volta che siamo passati per da quelle parti, l’impressione è stata quella di trovarsi in un luogo di grande energia, dove si stanno compiendo passi che, nel bene e nel male, stanno veramente avvicinando la città ai famosi standard culturali europei che qui a Roma continuiamo a sognare. Poi, chissà, vista da dentro anche Milano sarà tutta un’altra cosa. Le città sono come le persone, hanno i loro momenti. Roma è troppo arrabbiata, nervosa e stanca in questo momento per immaginare possibilità alternative. Dovrebbe fermarsi un attimo a riposare, dovrebbe guardarsi bene negli occhi e abbracciare una volta per tutte la sua vera natura di prima città del Sud, piuttosto che continuare a lottare per essere l’ultima città del Nord. Roma come Tangeri, non come Copenhagen. Allora sì che cominceremmo a divertirci davvero, valorizzando appieno ciò che appartiene solo a noi e che fa di questa città, malgrado tutto, un posto incredibile.

Facciamo un salto nel presente: a cosa avete lavorato in questo 2018?
Quest’anno abbiamo lavorato a diversi progetti. In primavera abbiamo iniziato a indagare la questione del tempo in relazione alla performance, sia da un punto di vista teorico, sviluppando dei laboratori che ho portato al DASS della Sapienza di Roma e al DAMS di Lecce, sia da un punto di vista scenico con la realizzazione di Timeless, andato in scena al Teatro India lo scorso maggio, spettacolo-esito del percorso di formazione con gli attori della Scuola di perfezionamento del Teatro di Roma. L’estate l’abbiamo passata insieme ad Annamaria Ajmone e Sara Leghissa, con le quali abbiamo appunto realizzato Combattimento, che presenteremo a Short Theatre (13 e 14 settembre) e il 29 settembre al Festival Contemporanea a Prato.

Timeless.
Timeless.

Che lavoro è Combattimento?
Combattimento è una danza sfrenata, un contest animale, un sacco di colori e di musica, è il tentativo di mettere in forma e in movimento il gioioso stato del desiderio, della seduzione e della conquista. Rispetto alla complessità che di solito caratterizza i nostri lavori, è di una semplicità bella e disarmante: tutto ruota intorno ai corpi delle due performer in scena e alla relazione che queste instaurano nel tempo della performance: l’obiettivo è quello di condividere con il pubblico l’esperienza di due persone che cercano di uscire da loro stesse, di trasformarsi per arrivare a incontrare l’altra, attraverso il gesto della danza. Lavorare al Combattimento per noi è stata una gioia. Una gioia lavorare con Annamaria e Sara; una gioia abbracciare appieno e liberamente tutte le questioni che avevamo iniziato a indagare lo scorso anno lavorando ai Canti Guerrieri. In questo momento sentivamo il bisogno di corpi gentili, rifiutati e respinti, e di corpi politici ributtanti, di riaffermare la bellezza e la serena libertà del corpo di ognuno, nel suo movimento più libero, animale e desiderante.

Combattimento.
Combattimento.

Al di là del riferimento comune all’immaginario della lotta e del conflitto, che legame c’è tra Combattimento e Canti Guerrieri, il vostro lavoro del 2017?
In Canti Guerrieri, realizzato lo scorso anno per il Romaeuropa Festival e la Sagra Musicale Malatestiana, le due performer in scena erano Annamaria Ajmone e Sara Leghissa. Ci siamo trovati così bene a lavorare insieme che abbiamo deciso di continuare il percorso di conoscenza reciproco iniziato allora, dandoci spazio e tempo ulteriore per approfondire una domanda che era già contenuta in nuce nei Canti: come restituire attraverso un lavoro coreografico e sul movimento uno studio sul concetto di combattimento d’amore? Detto questo, a parte la loro presenza in scena, e i costumi utilizzati, i due lavori hanno in comune solo lo spunto di ricerca: gli esiti sono felicemente e radicalmente diversi.

In entrambI i lavori avete riproposto il madrigale. Quando e come avete riscoperto questo tipo di musica e qual è stata la chiave per riuscirlo a inserire nella vostra visione teatrale?
L’incontro con il madrigale come forma musicale è avvenuto per la prima volta lo scorso anno, proprio in occasione della produzione dei Canti. Come era successo negli anni precedenti con la neue musiek di Maderna (Hyperion, 2015) e la musica contemporanea di Vittorio Montalti (per L’arte e la maniera…, 2016), queste commissioni ci hanno presentato ogni volta delle sfide interessantissime, fertili di conseguenze, di scoperte e di incredibili fatiche. In ognuna di queste occasioni si è trattato di capire in che modo le specificità di universi linguistici così lontani potesse dialogare con il nostro percorso di indagine, in modo da far sì che questo percorso nel teatro musicale potesse integrarsi pienamente nel nostro percorso di ricerca, dialogando con i temi e le questioni urgenti per noi al presente e allo stesso tempo facendoci ispirare dai nuovi universi incontrati. È la ragione per cui dopo i Canti Guerrieri abbiamo deciso di fare Combattimento: sentivamo che la rigida struttura musicale dei madrigali non ci aveva permesso fino in fondo di abbandonarci a una dimensione circolare, estatica, libera dell’esperienza performativa che invece sentivamo di voler indagare a fondo. Abbiamo preso gli elementi che componevano i Canti Guerrieri e ci abbiamo giocato come fossimo bambini: ad esempio, per quanto riguarda il suono, ho svolto un lavoro di ricerca musicale che muove dall’immaginario monteverdiano, e dal modo in cui il compositore mette in musica il concetto di combattimento d’amore per arrivare a costruire una drammaturgia sonora che attraversa Morricone, la cumbia e la new wave sintetica francese degli anni 80.

Canti Guerrieri.
Canti Guerrieri.

Nel classificare i vostri lavori li suddividete in teatro/performance e opera/teatro musicale. Mi sembra quindi di capire che per voi la musica sia un elemento importante, a tal punto da generare un tipo di lavoro che ritenete diverso dal teatro in sé.
La musica e l’elemento sonoro sono sempre stati fondamentali nel nostro percorso di ricerca. Ogni nostro spettacolo viene costruito nei termini di una partitura drammaturgica, sonora e musicale, dove il lavoro sul suono, sull’ambiente sonoro e sulle musiche struttura, assieme alla drammaturgia, lo sviluppo del tutto. Forse è per questa ragione che negli ultimi tre anni abbiamo lavorato molto nel campo dell’opera e del teatro musicale, grazie a una serie di commissioni da parte di strutture come la Sagra Musicale Malatestiana, I Teatri di Reggio Emilia o la Fondazione Lirica Sperimentale di Spoleto: ci è sembrato uno degli esiti più naturali del nostro percorso di ricerca. Chiaramente il teatro musicale e l’opera sono linguaggi che hanno una loro tradizione fortissima, ma che, ultimamente, molto più del teatro classico, si sta aprendo al nuovo e a percorsi di ricerca contemporanei, attivando un dialogo incredibilmente fertile tra materiali e tradizioni del passato e sensibilità ed estetiche contemporanee.

Vi cito altre tre parole chiave e per ognuna mi piacerebbe sapere cosa rappresenta per voi e come si relaziona ai vostri lavori. La prima è „corteggiamento“.
Un insegnante che Claudia ha avuto alla Paolo Grassi ripeteva sempre che un buon attore o una buona attrice si riconoscono quando, guardandoli in scena, ti fanno venire voglia di fare sesso con loro. L’arte è corteggiamento reciproco.

„Corpo“.
Nelle arti performative è tutto. Per noi è tutto. Tutto ruota intorno al corpo di chi è in scena e al modo in cui questo si relaziona allo spazio e agli altri corpi che lo circondano. Ogni nostro spettacolo, ogni nostra immaginazione, per diventare forma ha bisogno, a un certo punto, di sognare un corpo specifico. C’è bisogno, ogni volta, di un corpo e di uno soltanto: ogni persona, ogni corpo racconta la propria storia ed è proprio quella che cerchiamo di fare entrare in relazione con l’universo da noi soltanto immaginato.

„Danza“.
Oggi mi sembra riesca a dialogare con il presente in maniere molto più aderenti e con risultati molto più sorprendenti di quanto riesca a fare il teatro.

Combattimento.
Combattimento.

Per questo spettacolo avete studiato anche qualche corteggiamento animale? Se sì, quale?
Sì quello di un piccolissimo animale, nemmeno tanto attraente: il babbler israeliano, un uccellino grigio e paffuto. Se non altro perché intorno alle sue pratiche di mating e corteggiamento ruota gran parte della ricerca alla base di un testo bellissimo: Il principio dell’handicap. I due autori iraniani del testo, Amotz e Avishag Zahavi, ci raccontano come nel mondo animale (noi compresi) tutta la questione della seduzione passa per la messa in crisi della propria safety zone e per la creazione ad hoc di handicap del movimento e del corpo che ci costringono a performare in situazioni estreme, mettendoci in pericolo per l’altro.

Dal corteggiamento animale al twerking: come ci si arriva?!
Ah, il passo è molto più breve di quello che sembra: basta confrontare i video delle danze di corteggiamento di alcuni esemplari di galli forcelli e l’ultimo video di Nicki Minaj!

Tornando a Short Theatre, che rapporto avete con questo festival?
Short Theatre è come la casa al mare. Un luogo che frequenti solo due settimane l’anno, ma che è incredibilmente familiare, e dove non vedi l’ora di tornare. Un luogo che ti rigenera, sia da spettatore che da partecipante. Dove si è sempre, inevitabilmente, sia spettatori sia da partecipanti. Sempre più negli ultimi anni i festival stanno indagando la propria natura e la propria necessarietà: non sono più semplici luoghi di presentazione di lavori in anteprima, ma veri e propri centri di produzione di pensiero, di immaginario, che pongono alla base della loro ragion d’essere la questione non solo del cosa presentare, ma anche, e soprattutto, del come. Quali forme, oggi, ha senso investigare? Quale comunità può immaginarsi all’interno della cornice di un festival? Come può un festival di arti performative aprirsi alla città che lo ospita, attivare istanze e sollevare questioni che possano abbracciare ed essere abbracciate da chiunque lo voglia?

Ricordate la vostra prima partecipazione? Che esperienza è stata?
La prima volta che siamo stati a Short è stato tre anni fa, abbiamo portato un piccolo lavoro nato all’interno del progetto di drammaturgia europea Fabula Mundi. Si chiamava Polices! ed era un testo di una drammaturga francese composto di materiale documentario che affrontava la questione della violenza delle forze dell’ordine in Francia. Per noi è stato molto bello, se non altro perché in quell’occasione abbiamo lavorato assieme alla grandissima Monica Demuru, con cui abbiamo dei progetti per il futuro. Ne venne fuori una specie di concerto live per voce e loop station di grande forza, forse troppa, visto che i francesi presenti in sala ne uscirono scandalizzati per l’immagine che avevamo dato delle loro forze di polizia…

Polices.
Polices!.

C’è qualche altra compagnia in cartellone quest’anno che siete curiosi di vedere?
Personalmente sono curioso di vedere il lavoro di Bogdan Georgescu, che lavora sull’immaginario televisivo degli anni 90 visto attraverso gli occhi delle donne rumene trasferitesi da noi in quegli anni. E mi incuriosisce molto anche Juan Dominguez. Ma assolutamente da non perdere sono le danze di Annamaria Ajmone e di Jacopo Jenna, lo spettacolo di Sarah Vanhee e l’esperimento sulla fine di Strasse. E Jérôme Bel, bien sûr. Insomma, io mi vedrei tutto, sapendo che non riuscirò a vedere proprio nulla, perché saremo in giro per lavoro proprio in quei giorni.

Dopo Combattimento su cosa lavorerete?
Stiamo lavorando a un progetto sul tempo, che ha già avuto come esito lo spettacolo Timeless, con gli attori diplomati del Corso di Perfezionamento del Teatro di Roma, e che vedrà la realizzazione di due percorsi paralleli, uno spettacolo, Here, e una performance esperienzale, Hic et Nunc. Quali sono le possibilità immaginative che il teatro può attuare per attivare una riflessione sul tempo, per estendere e confondere le sue direzioni? Come costruire una drammaturgia che parta dal presupposto che il tempo non esiste, come ci dice la fisica quantistica? Come riuscire a comunicare e far fare esperienza di un mondo senza tempo? Queste le domande alla base dei nostri prossimi progetti.

Muta Imago.
Muta Imago.