In occasione del nuovo spazio temporaneo che la galleria Zero… ha appena inaugurato in via Stilicone 12, all’interno della storica sede di Fonderia Artistica Battaglia, luogo di sperimentazione dai primi del novecento a Milano, abbiamo chiacchierato con Paolo Zani, fondatore della galleria e curatore dei quattro progetti che verranno sviluppati nel corso di due anni. Ogni progetto ha come punto di partenza un artista scelto della galleria, che dialogherà con “colleghi” di diverse generazioni e provenienze. La matrice di partenza è il bronzo e il filo conduttore sarà ogni volta legato a una poetica diversa. Paolo, partendo da questo ultimo, sperimentale progetto, racconta la sua storia: da quando era assistente di galleria da Massimo De Carlo, all’apertura di Zero… nel 2000, fino agli ultimi sentori e urgenze del mondo dell’arte e degli artisti che da anni segue con una passione non comune. Uno scambio di pensieri che, in un momento non semplice, può essere un traino speranzoso all’interno di un sistema complesso come quello del contemporaneo.
ZERO: Partiamo dall’ultimo progetto che avete appena inaugurato. Perché questa necessità, o voglia, di allargarsi, di avere un altro luogo dove far esporre gli artisti, e come funziona?
Paolo Zani: Lo spazio è all’interno della Fonderia Battaglia in via Stilicone 12. Lo utilizzeremo per due anni precisi: un periodo con una tempistica definita e temporanea. L’ho sempre trovato molto interessante per la sua architettura e condizione generale.
Tu avevi già interagito con la Fonderia per la collettiva dell’anno scorso durante miart 2017, giusto?
Esatto. The act of drinking a Coke by yourself is the lowest form of art, mostra collettiva, è servita per testare lo spazio. Ma il programma reale inizia da adesso. Si tratta di sviluppare quattro mostre, fino all’agosto 2019, che avranno come punto di partenza l’invito che abbiamo rivolto a quattro dei nostri artisti i quali, interessati a dialogare con un materiale di una certa tipologia quale è il bronzo, realizzeranno delle opere in collaborazione con la Fonderia stessa. Non è una regola fissa, ma è un auspicio: che l’opera possa essere costruita in collaborazione con l’esperienza e la conoscenza di questo luogo. Il primo artista a cui abbiamo rivolto questo invito è stato Gavin Kenyon che ha pensato a una scultura che ha realizzato in due mesi. Gavin ha lavorato alacremente dalla fine di settembre fino alla scorsa settimana. Questo è il punto di partenza, anche in rapporto al titolo dell’opera, che è diventato il titolo della collettiva, che viene poi sviluppata secondo una mia idea.
Dunque Zero… ha aperto con The Absent Faun, la collettiva di cui Gavin Kenyon è il perno centrale?
Esatto, The Absent Faun – il fauno assente – è il titolo dell’opera di Gavin. Questa dinamica verrà applicata per le altre tre mostre che avranno una durata piuttosto ampia, questa durerà fino a febbraio, ad esempio.
Per miart ne realizzerete un’altra?
No, ma Giorgio Andreotta Calò lavorerà in Fonderia per sviluppare un progetto che sarà il punto di partenza della seconda mostra che inaugurerà alla fine di aprile. Gli altri artisti che verranno ospitati nei prossimi mesi saranno Neïl Beloufa in settembre e poi, l’ultimo passaggio, sarà con João Maria Gusmão e Pedro Paiva.
E gli artisti che inviti a interagire con quello di partenza lavorano tutti per la galleria?
No, assolutamente no. Per esempio in questo group show, che è legato al tema dell’assenza – da qui il titolo – ci saranno Giuseppe Gabellone con un vecchio lavoro; Michael E. Smith con dei nuovi lavori video; Maurizio Cattelan con la ripresa di un’opera importante e un artista con cui abbiamo iniziato a lavorare recentemente: Gideon Zammer.
Quindi le opere non sono necessariamente nuove?
No infatti: scelgo le opere in base al concetto e alla giusta composizione della mostra.
Che opera c’è di Maurizio?
Re-installiamo Torno subito, l’opera storica di una collezione privata che presentò nel 1989 alla galleria Neon di Bologna. Questo è il primo lavoro che Maurizio fece nella direzione in cui voleva scardinare il rapporto artista/gallerista in maniera provocatoria. Aveva mandato l’invito al pubblico che, una volta arrivato, trovò la galleria chiusa con il cartoncino “torno subito”. Fu spiazzante. L’ho trovata un’opera pertinente rispetto all‘ atmosfera di The Absent Faun.
E per le prossime mostre?
Ci sto lavorando. La galleria di viale Premuda rimarrà il nostro spazio principale. Mentre Stilicone rimarca quella nostra caratteristica di instabilità spaziale, del fatto che cambiamo spesso e dell’essere un po’ nomadi. Qui ci siamo dal 2014, ma credo che in un tempo relativamente breve faremo ancora un cambio. La programmazione va avanti: tenderemo ad avere mostre che durano più dei tempi canonici. Il primo febbraio inauguriamo la mostra di un artista nuovo con cui lavoriamo e a cui tengo molto, che e sia chiama Adam Gordon, e poi, quella successiva, sempre qui, sarà di Cally Spooner.
Quindi vi alternate tra un progetto a tempo, in Stilicone, e qui con la vostra classica programmazione.
Vero. Diciamo che in Fondazione mi sono trovato bene per le caratteristiche dello spazio e gli artisti hanno trovato stimolante l’aspetto di creare un’opera in questo contesto un po’ più sperimentale, da officina.
Ho sempre visto la tua figura di gallerista/amico/compagno dei tuoi artisti. E mi ricordo che tempo fa mi raccontavi che cambiavi lo spazio proprio per dare nuove possibilità agli artisti. Se ci pensi anche De Carlo cambierà spazio, proprio per dare nuovi stimoli ai loro artisti, che non si confronteranno più solo col “white cube” di via Ventura, oltre allo spazio di Belgioioso.
Lo spazio di Viale Premuda è paradossalmente difficile proprio per la sua regolarità che diventa un impegno. Già chiedere una seconda mostra allo stesso artista può essere ripetitivo. Certo, ci sono stati degli highlights, penso alla mostra strepitosa di Michael E. Smith; la prossima immagino non potrà più essere qui.
Anche Neïl Beloufa aveva ribaltato lo spazio.
Esatto. E anche Eddy Current di Micol Assaël aveva un dialogo particolare con lo spazio. Comunque adesso ci stiamo concentrando su via Stilicone e poi l’anno prossimo cambieremo ancora.
Paolo, raccontami quindi i passaggi della galleria: sei partito da via Tadino.
In via Tadino sono stato dal 2010 al 2014, poi ci siamo spostati qui. Era, tanti anni prima, un magazzino che utilizzava Giorgio Marconi, e poi a noi è subentrato Giò.
Diciamo che c’è una sorta di scambio tra galleristi: penso anche alla Fonderia, luogo storico di Milano dove sono passati tanti grandi artisti, che, al piano di sopra era stata la sede di Peep Hole.
Direi di si. E poi c’è davvero quella fascinazione del luogo quasi arcaico, dove si possa sperimentare un materiale antico come il bronzo, importante per l’artista. La dimensione sperimentale e di ricerca è sempre molto importante per noi. Specialmente in un periodo come questo dove c’è una certa stanchezza generale dovuta, spesso, a tematiche un po’ noiose legate al denaro, alla politica e al potere. Dunque, al di là di questo scenario in cui ci muoviamo, ci deve essere sempre il cuore pulsante della ricerca che noi cerchiamo di trovare con nuove motivazioni.
È tangibile dalla ricerca che fanno gli artisti con cui lavori.
Diciamo che questo è un momento cruciale. Come in tanti momenti di fisiologica stanchezza sento che questo è importante: che sta succedendo qualcosa.
Pensi che sia un mood condiviso nel mondo dell’arte a Milano? Penso al fatto che si siano chiusi, negli ultimi anni, alcuni capitoli importanti e aperti degli altri, come quelli giovani – alcuni artist run spaces o luoghi indipendenti – che restituiscono quel segnale del “non fermiamoci mai, andiamo avanti, sperimentiamo” appunto. Magari una galleria come Zero… può fare un po’ da traino.
Sicuramente, penso a Fantaspazio, tra gli altri, che viene portato avanti da un team di lavoro dove due terzi sono stati miei collaboratori: Gloria De Risi è direttore da cinque anni, Alberto Zenere ha finito da poco in galleria, dopo cinque anni di esperienza. Ho incontrato persone con cui ho collaborato e che poi sono andate avanti con ambizione come Jennifer Chert, Alice Conconi, arrivando fino a Gloria, sono persone che hanno impostato la loro vita su questo mestiere. Per me è stato uno stimolo forte aver lavorato con loro.
Come hai fatto tu del resto dopo la “scuola” da un maestro come De Carlo, con il quale avevi punti in contatto, tra cui la vostra formazione.
Con Massimo De Carlo in effetti c’erano delle coincidenze, come il fatto che io facessi il paramedico quando l’ho conosciuto, e lui era stato farmacista prima dei tempi della galleria. Ho lavorato per Massimo come assistente dal 1997 al 2000. Ho cominciato come piccolissimo collezionista, appassionato e piuttosto slegato da obiettivi di investimento. Massimo nel ruolo di gallerista, come Maurizio Cattelan in quello di artista, era un mio punto di riferimento. Ti parlo del ‘95/’96. Siccome il “richiamo della foresta” era forte ho deciso di lasciare il mondo della medicina e di avvicinarmi a quello dell’arte. Diventava una positiva ossessione. Allora un giorno chiamai De Carlo per fissare un incontro, in quanto collezionista, in galleria. Abbiamo speso ore insieme a parlare. Alla sera sono uscito come suo assistente. Da li ho lavorato un po’ sia da Massimo che in ospedale, e, dopo qualche mese, ho lasciato l’altro lavoro. Eravamo in tre, con noi c’era anche Natalie Brambilla. Un team particolare. Io vivevo nel magazzino delle opere. Ed ero l’assistente/tutto fare dell’artista di turno.
Con chi hai lavorato, a parte Cattelan?
Dunque: con Cattelan quando appese al muro Massimo. La prima in cui ero nell’organico era quella dei Cento Cinesi con Paola Pivi, nel 1998: sono accaduti aneddoti divertenti lavorando con Paola. La prima mostra in assoluto è stata in via Bocconi con John Armedler. Poi nello spazio di via Corsica c’è stata la mostra di Gregor Schneider, Carsten Höller…
Quanti anni avevi?
Nel ’97 avevo 26 anni.
E da lì hai deciso di aprire una tua galleria?
Diciamo che l’idea c’era già.
E quale è stata la prima tua mostra? E perché “Zero…” con i puntini?
Diciamo che il nome della galleria coi puntini è nato perché ho lasciato accumulare degli elementi un po’casualmente: il primo logo della galleria era “Zero” con tre pallini bianchi rossi e verdi. La gente ha iniziato a scrivere il nome coi pallini e quindi li ho lasciati. Non c’è nessun puntino di “sospensione”, critica o disincanto. “Zero” nasce perché cercavo un nome che potesse funzionare anche da un punto di vista internazionale. Ero a Londra con Francesco Gennari e mi è venuto questo nome: funziona perché non ha alcuna autoreferenzialità, è neutro. Volevo un nome semplice, che poi di fatto è già stato utilizzato nel mondo dell’arte. Poi si sono aggiunti significati che hanno trovato una certa puntualità nei confronti delle mie sensibilità. La prima mostra di Pietro Roccasalva, ad esempio, nello spazio in via Ventura, era una coincidenza con rimandi ad elementi della cultura persiana, con riferimento allo “0”. Tutte cose che si sono via via aggiunte. Un nome riconoscibile e internazionale. Senza speculazioni di tipo filosofico.
E hai sempre lavorato con Claudia Ciaccio, tua moglie, nella galleria?
No, è entrata dopo tre anni. La sua personalità ha dato un contributo significativo al progetto. Io sono la parte un po’ più creativa: cerco gli artisti, seguo una mia visione curatoriale che poi diventa anche la parte probabilmente più semplice.
Ma ci vogliono talento e una certa capacità di vedere le cose.
E un po’ di follia anche. Però oggettivamente oggi la parte commerciale è sicuramente la parte più complessa.
Certo, una galleria di questo livello come può sopravvivere altrimenti? Voi poi, da sempre, avete fatto anche le grandi fiere. Penso al primo Art Basel della mia vita, nel 2006, voi c’eravate già.
Esattamente. Abbiamo cominciato proprio nel 2006, da subito. E da subito abbiamo avuto un buon feeling con il mondo di Basel. Abbiamo aperto la galleria nel 2000 e nel 2002 abbiamo partecipato per la prima volta a Liste. Siamo riusciti a entrare subito in questo luogo mitico. Abbiamo fatto i canonici quattro anni lì e nel 2006 siamo andati ad Art Basel. Quell’anno siamo stati fortunati, nella sezione “Statement”, per la prima volta, avevano selezionato otto gallerie da Liste della mia generazione, dando loro la possibilità di presentare in fiera tutto il lavoro della galleria, non un solo artista. Questo ha dato alla possibilità a me, a Maccarone, Reena Spaulings e altri di presentare il nostro lavoro con una certa attenzione da parte del pubblico.
Tra l’altro con la fierezza di essere una galleria italiana.
Certo. E l’anno dopo ci hanno preso nella sezione “Features” dove si mettevano in dialogo due artisti. Noi avevamo Cezary Bodzianowski e Christian Frosi. Bodzianowski fece un’opera strepitosa. Dal 2008 siamo entrati nella sezione “Galleries” lavorando in modo più canonico.
Raccontami del lavoro che fai con gli artisti storici – penso alla mostra dell’anno scorso con Enzo Cucchi, o ad Artissima con le fotografie di Vincenzo Agnetti ad esempio –. Quando hai iniziato?
Non da tanto tempo. Mi piacciono quegli anni. In quel periodo storico c’era meno cinismo, c’era meno disincanto e orizzonti più freschi. Gli artisti oggi risentono di queste problematiche. Non c’era questa quantità mostruosa di immagini, gli artisti potevano essere più originali dal punto di vista della visione.
Mi parlavi infatti di “cuore pulsante”, avete un momento di particolare energia?
Si, sto sentendo degli elementi interessanti che possono consolidare un buon discorso teorico, di ricerca e sperimentazione. Per Zero… è un momento interessante in cui stiamo facendo nuove valutazioni: la nostra fragilità dal punto di vista economico paradossalmente ci da la libertà di poter sperimentare.
Quando si dice, non a caso di fatto, che dalle grandi crisi nascono i nuovi progetti. L’arte è l’esempio totale di questo rimettere tutto in discussione.
Infatti è importante cercare di convogliare e incanalare le capacità dell’uomo da quel punto di vista, senza seguire un discorso meramente mercantile come accade oggi. Le cose non sono immutabili: c’è sempre questa necessità dell’uomo del crearsi delle alternative. In questo senso penso che, nonostante l’habitat e lo scenario in cui ci si muove sia quello delle gallerie, delle aste, degli investimenti, in realtà permanga sempre accesa una fiammella.
Magari coperta da un po’ di cenere. Ma è viva. C’è sempre un antagonismo poetico e un po‘ a-funzionale rispetto a uno status quo sociopolitico. Dico questo perché per le strutture commerciali che hanno la necessità di rimanere in piedi e diventare sempre più forti, diventa difficile concentrarsi sul tema e sulla ricerca artistica. Diventa tutto un discorso di marketing ed è evidente che lo scenario contemporaneo in cui si muove l’arte sia questo.
Non ci lamentiamo, anzi, ma vogliamo credere di essere concentrati sui temi della ricerca e poetica dell’artista. Noi diamo ancora la possibilità di pensare a questa cosa: è un privilegio e anche un rischio. Non è semplice, e funziona sempre con un passaggio di testimone. Sento che questo è un momento molto buono: ci sono nuovi artisti con cui collaboriamo e nuove forme a cui pensare per mutare proprio il concetto “galleria”.
È un ruolo importante.
Si, perché gli artisti devono fare cose sempre più importanti. Penso a Yuri Ancarani che l’anno prossimo farà la mostra alla Kunsthalle Basel, come anche Michael E. Smith. E penso a nuovi artisti entrati nel team.
Credo di averti sezionato abbastanza. Adesso veniamo allaparte frivola di ZERO. Dove vai quando esci? O dove porti gli artisti che non affidi a Gloria per uscire? Per esempio siete vicino al Nottingham Forest, super anni 80 intramontabile qui accanto. Poi tu sei piacentino, ti piacerà mangiare!
Ahah questo in effetti è vero. Fammi pensare, ultimamente mi piace molto l’Hotel Diana. Mi piace fare l’aperitivo là. Poi mi piace questo bar bellissimo, dove sono stato poche volte, la Belle Aurore in via Eustachi. Molti artisti mi danno appuntamento li. Un altro posto dove andiamo sempre molto carino, gestito da due ragazzi, Lile, è qui dietro in via Guicciardini.
E a vedere le mostre nei luoghi istituzionali ci vai? Per esempio hai visto la mostra straordinaria di Sol Lewitt a Fondazione Carriero che ha da poco inaugurato?
No, non sono ancora stato. Mi hanno detto che è bella. Mi piace molto l’Hangar Bicocca. Mi piace la sua struttura architettonica e il team di lavoro. Poi è una realtà con cui si può collaborare, più che con realtà come la Fondazione Prada che è più distante da quello che è il mondo delle gallerie. Sto guardando quello che fa la Triennale. C’è però una dimensione politica un po’ particolare.
Basta Paolo. Ti ho chiesto tanto. Grazie per la chiacchierata “positiva” che, credo, metterà un po’ di buon umore chi conosce questo sistema e ci lavora.
Grazie a te.