Da ragazzini spesso si gioca ad indovinare i versi degli animali e i suoni prodotti dagli oggetti. Da adulti ci si può chiedere se è possibile creare un’opera d’arte (sonora) a partire dal movimento in acqua di un pesce o dall’elettricità che passa attraverso una lampadina. Per Fabio e Bernardo, in arte Quiet Ensemble, la risposta è sempre sì: i suoni sono ovunque così come esiste un modo per trasformarli in qualcosa che un pubblico può vedere, sentire e apprezzare. Il prossimo 28 novembre, al Macro Testaccio, saranno ospiti del Romaeuropa con un’orchestra di luci, neon e fari: The Enlightenment. Ci siamo fatti raccontare come funziona un spettacolo del genere e già che c’eravamo, li abbiamo intervistati.
Zero: Iniziamo dalle presentazionii
Bernardo: Bernardo, nato 32 anni fa a Volterra, un piccolo paese medievale dove ci sono praticamente tre cose: il carcere, l’ospedale psichiatrico e il teatro.
Fabio: Fabio, Napoli, 1985 d.C.
Vi ricordate quando vi siete conosciuti e quando avete deciso di lavorare assieme?
B: Ci siamo conosciuti il giorno stesso in cui abbiamo cominciato a lavorare insieme, non lo abbiamo veramente „scelto“… Ci siamo ritrovati a far parte in un collettivo da cui successivamente ci siamo staccati.
F: Ci siamo conosciuti un anno prima di cominciare il progetto Quiet, eravamo in un teatro e con altre persone abbiamo provato a lavorare su alcuni progetti. Entrambi arrivavamo da esperienze formative intense, ed era il momento giusto per iniziare un nuovo percorso personale, mettendo in campo le nozioni apprese, sperimentando e cercando un nostro linguaggio. Durante quel periodo sono nate le radici del progetto Quiet che ha preso forma l’anno successivo. Stiamo quindi iniziando il nostro settimo anno di attività insieme e incredibilmente ancora ci sopportiamo.
Qual’è stato il primo lavoro a nome Quiet Ensemble? Lo avete riproposto negli anni o è rimasto nel cassetto?
B: Il primo lavoro è stato Quintetto. Era il momento in cui ci stavamo staccando dalla precedente associazione, con cui abbiamo prodotto il lavoro. Ci trovavamo a Berlino in occasione del Celeste Prize e avevamo assoluto bisogno di trovare un nome da mettere sotto l’opera e da stampare sui biglietti da visita. Quindi, ipotizzando varie possibilità, tra cui alcune veramente imbarazzanti, ci siamo trovati d’accordo sul Quiet Ensemble.
F: Quintetto è nato in maniera totalmente spontanea e dopo averlo presentato abbiamo sentito di svilupparne la poetica ed esplorarne le potenzialità. È nata così la ricerca tra tecnologia e natura, tra caos e controllo, tra visibile e invisibile, udibile e inaudibile. L’opera è composta da 5 acquari che contengono 5 pesciolini rossi. Ad ogni pesciolino rosso abbiamo attribuito un suono, che viene modificato dal suo movimento. È stata l’inizio della nostra ricerca. Abbiamo riproposto l’opera in numerosi festival internazionali e tutt’oggi rimane ancora una delle nostre preferite. Proprio di recente l’abbiamo sviluppata e ne abbiamo realizzato una versione con 10 vasche. L’opera nacque durante il nostro primo periodo di attività e l’abbiamo sviluppata in collaborazione con l‘Aesop Studio.
L’ultimo a cui state lavorando?
B: Si tratta di uno spettacolo dove il riflesso è il protagonista, il riflesso della luce e del suono. Siamo ancora in fase embrionale, abbiamo diversi spunti, ma non vogliamo forzare il processo di produzione. Un altro tema che probabilmente sarà parte fondamentale del lavoro è l’idea di creazione come conseguenza di un evento distruttivo: il caos che genera uno schema ben definito, la frana che lasciandosi cadere sommerge e genera vita.
F: In questi ultimi mesi ci stiamo anche concentrando sulla presentazione dei nostri progetti, in particolare The Enlightenment, con cui stiamo partecipando a diversi festival internazionali. Stiamo lavorando a una nuova performance. Abbiamo già trascorso due settimane di residenza a Den Haag, in Olanda, nei prossimi mesi ne abbiamo altre in programma durante le quali continueremo la ricerca. Speriamo di riuscire a completare il progetto e presentarlo durante il 2016.
Parliamo di The Enlightenment allora, ce lo potete raccontare?
B: In The Enlightenment il pubblico è spettatore del processo di montaggio di un set up orchestrale da parte di due „tecnici-ombre“. L’orchestra è composta da un centinaio di corpi illuminanti, fari teatrali, tubi al neon lampade stroboscopiche, lampadine agli ioduri metallici etc. Questi oggetti, inizialmente inanimati, sono disposti nello spazio in fase di stasi, posati casualmente ai due lati dello spazio come fosse uno storage room o uno sgabuzzino. Dal momento in cui le due figure umane in controluce cominciano a posizionare gli elementi in disposizione orchestrale gli oggetti diventano soggetti, con ogni corpo illuminante che sostituisce uno strumento musicale dell’orchestra. Attraverso delle bobine di rame viene captata la „voce“ degli oggetti che uno dopo l’altro prendono vita „cantando di luce“, donando agli spettatori un concerto elettrico caldo e accecante.
F: The Enlightenment è un’orchestra di luci. Seguendo la nostra poetica di dare voce all’inaudibile e di mostrare l’invisibile, abbiamo sviluppato un’orchestra con dei musicisti particolari, delle luci. Abbiamo in scena fari teatrali, lampade agli ioduri metallici, tubi neon e luci stroboscopiche, che diventano strumenti musicali attraverso l’utilizzo di bobine di rame, che ne permettono di catturarne le sonorità, trasformando in impulsi elettrici, e quindi sonori, i campi elettromagnetici presenti intorno ai flussi elettrici della luce stessa. I suoni che ne risultano sono dei flussi noise, che cambiano a seconda del tipo di luce e quindi del tipo di impulso elettrico/luminoso. In alcuni momenti della performance interveniamo dal vivo modificando i suoni in modo da ottenere anche alcuni passaggi più armonici e strutturati.
Si può dire che arrivare a sonorizzare la luce è un po‘ l’apice dell’idea di „dare suono alle cose“, che è presente in moltissime vostre opere?
B: Non so se possiamo parlare di apice in questo caso, certamente è stata una scoperta che ci ha molto stimolati. L’inudibile presente nel Mondo è un campo di ricerca veramente vasto, continuiamo a osservare e ad ascoltare l’invisibile, cercando sempre di immaginare un percorso senza fine e senza ipotizzare un punto d’arrivo.
F: Non credo sia l’apice, ma è un tipo di sonorizzazione sicuramente intuitiva e spettacolare.
Qual’è la cosa che siete riusciti a sonorizzare con maggiore difficoltà?
B: Non riesco ad abbassare il pitch della mia voce…
F: Credo proprio l’essere umano… Nel progetto Allegoria abbiamo utilizzato dei mioelettrodi per sonorizzare i muscoli di musicisti di un quartetto d’archi. La performance comincia con l’ascolto „classico“ degli strumenti, che poi lentamente viene soffuso dal suono stridente dei muscoli dei musicisti. I muscoli generano delle tensioni elettriche nelle contrazioni ed è possibile ascoltarle attraverso l’uso dei mioelettrodi, speciali sensori medici. Al suono dei muscoli si aggiungeva il suono dei battiti cardiaci e dello scricchiolio delle sedie.
Quella che ha prodotto il suono più bello?
B: Il ronzio grasso del calabrone e il suo sbattere delicato sul vetro della lampadina.
F: Ricordo con grande stupore uno dei primi esperimenti. Microfonammo con dei piezolettrici centinaia di di cimici che camminavano su una sottile e fitta rete metallica.
Tra i tanti lavori che avete proposto, ce n’è uno preferito o comunque uno che vi rappresenta maggiormente?
B: Personalmente Orienta mi emoziona ogni volta. La lentezza, il disegno inconsapevole, l’inizio e la fine di un percorso.
F: Personalmente ho un forte legame con Quintetto, la prima opera che abbiamo sviluppato, ma per me è difficile guardare le singole opere. Di recente, in occasione del Transart Festival, abbiamo presentato la nostra prima mostra personale, esibendo le nostre opere più rappresentative: è stata la prima volta che abbiamo potuto assistere a tutti i nostri progetti contemporaneamente, ed è stato emozionante vedere concretamente il nostro percorso, con le varie tappe di questi anni di attività.
Curiosità legata agli animali che spesso sono i protagonisti delle installazioni: dove li tenete nel momento in cui la progettate e fate le “prove”? A casa? Penso soprattutto agli insetti di “Solin Vario”.
B: Nel nostro studio, Il Pagliaio. Abbiamo infatti avuto molte fughe da parte di animali, praticamente stiamo ripopolando l’area di Casalotti Boccea…. Per la gioia dei nostri vicini.
F: Sì, ci sono stati periodi in cui il nostro studio somigliava più a uno zoo… Generando ovviamente grande felicità per tutto il vicinato, soprattutto durante le classiche fughe degli animali che, ovviamente, ci scappano sempre. A oggi è ancora possibile osservare i bombi impollinare il giardino del nostro studio, o ascoltare delle cicale nei prati lungo via Selva Candida.
La cosa che prima o poi sonorizzerete?
B: Alcune melodie sono toccanti purché rimangano inascoltate. Immaginare il suono di un sorriso o delle lacrime potrebbe essere struggente e romantico, ma probabilmente con un microfono molto potente si rivelerebbe il suono appiccicaticcio della fenditura dell’occhio che si allarga e secerne liquido. Meglio immaginarne la splendida canzone, ipotizzandone l’irraggiungibile bellezza.
F: Attualmente stiamo lavorando alla sonorizzazione di superfici di vetro e specchi. Ma siamo a una fase embrionale del progetto e chissà in che direzione andrà.
Il vostro artista preferito?
B: Non ho un artista preferito. Mi colpiscono dei lavori specifici, come per esempio Solace di Nicky Assmann, alcuni lavori di Olafur Eliasson o gli spettacoli dei Pathosformel.
F: Domanda difficile, ma se penso alle opere che più mi sono rimaste impresse di recente direi I sette palazzi celesti di Anselm Kiefer, ma anche The Visitor di Ragnar Kjartansson. Mentre i Pathosformel hanno sempre un posto speciale nel mio cuore.
Il vostro musicista preferito?
B: Mi piace molto la musica, ma con i musicisti e artisti in generale ho serie difficoltà: di un‘ intera discografia spesso mi colpisce un unico brano. Ultimamente ho due brani preferiti: Memory di YoggyOne, e Electric Eel River di Greg Gives Peter Space.
F: Four Tet è un musicista che mi ha accompagnato nel corso degli anni, ma la traccia Ulysses di Dan Friel dell’album Total Folklore l’ho trovata una summa della musica d’avanguardia degli ultimi anni. Riesce a descrivere le sperimentazioni degli anni 2000, diventando una sorta di Sister Ray contemporanea. Pazzesca.
Negli anni avete partecipato a diverse rassegne in Italia, quali sono quelle che vi hanno maggiormente colpito e che possono diventare dei punti di riferimento?
B: Il FRAC potrebbe diventare un punto di riferimento, mentre Digital Life direi che è sempre imperdibile.
F: Centrale Fies a Dro è un luogo in cui si respira un aria internazionale salutare, il festival che organizzano andrebbe visto ogni anno. Il roBOt di Bologna è davvero speciale, riesce ad avere una anima sperimentale e di ricerca sulle arti contemporanee, offrendo allo stesso tempo nelle programmazioni anche artisti mainstream. L‘Hangar Bicocca di Milano è uno dei miei luoghi preferiti, ogni esibizione non delude mai, speriamo presto di poter collaborare. Il CRAC di Lamezia è un luogo giovane che ha tutte le potenzialità per decentralizzare la cultura contemporanea italiana e portare ventate di novità anche nel profondo Sud.
Allargando un po‘ la lente e passando a Roma, città in cui fate base, a che punto è per manifestazioni e spazi che possano ospitare lavori come i vostri: in ritardo e indietro come per tante altre attività?
B: Mi sono sentito comodo nel contesto Romaeuropa, ma ci sentiremmo a nostro agio anche al San Calisto.
F: Roma ha festival all’avanguardia, come il Romaeuropa, che con la sua programmazione è un appuntamento tra i più importanti in Europa. Sento che c’è una trasformazione in atto molto potente, che sta portando a sviluppare un interesse sempre più forte verso contaminazioni artistiche all’avanguardia. Anzi, direi che opere più sperimentali stanno trovando sempre più spazio in festival e mostre più „pop“, soprattutto grazie al crescente interesse del pubblico, che sembra oramai sempre più preparato ad assistere a concerti o performance contemporanee.
Una scena legate alle arti (audio)visive c’è e lo testimoniano anche le collaborazioni che sono annotate nei vostri lavori. Manca la rete, il sostegno delle istituzioni in questa città o che altro?
B: Il processo di ricerca non è sovvenzionato quindi c’è l’impossibilità pratica di sviluppare un’idea e di concretizzarla. I brand e le istituzioni commerciali concedono budget consistenti, ma obbligano a un approccio spesso molto rigido, si tende a produrre „fuochi d’artificio“ o „carte da parati“ e di conseguenza la sperimentazione e l’immersione artistica praticamente si perdono. Inoltre, percepisco una forte paura dell’errore, ci si stacca difficilmente dalle sicurezze e da quel che „funziona“, la tendenza è di rimanere protetti nelle certezze senza rischiare troppo.
F: Ciò che manca è un supporto adeguato delle istituzioni che non facilitano questa tendenza naturale verso l’innovazione artistica e continuano a dare maggior supporto a iniziative ridondanti, ma credo che è un ciclo che si ripete da sempre, in fondo ogni epoca ha avuto la sua avanguardia che ha combattuto per abbattere stereotipi e preconcetti che ne ostacolavano la diffusione.
Chi sono gli artisti di Roma che più vi hanno colpito negli ultimi anni?
B: Quayola e Mattia Casalegno.
F: Il lavoro dei Santasangre fu una felice scoperta anni fa, ma anche Quayola e i Muta Imago sono degli artisti che hanno saputo rinnovarsi e hanno sempre saputo soddisfare le aspettative attorno alle loro opere.
La mostra – o anche la singola opera – più bella che avete visto a Roma ultimamente?
B: L’opera che più mi ha colpito e che ho visto a Roma Ondulation, di Thomas Mcintosh con Mikko Hynninen, 2010, in occasione di Digital Life alla Pelanda.
F: In questo momento è imprendibile Digital Life – Luminaria al Macro Testaccio, ma ho un ottimo ricordo della mostra di Ettore Spalletti, Un giorno così bianco, così bianco, vista al Maxxi l’anno scorso.
Il concerto più bello a cui siete andati ultimamente?
B: Ultimamente… Due anni fa, mi è piaciuto molto il live dei Le Verdouble, al festival Interstice in Francia. Un duo che utilizza due ghironde, strumento medievale a corde strofinate da un disco.
F: I D.a.P. visti al Verme qualche settimana fa. Due ragazzi romani ventenni che hanno tenuto il palco come pochi, bravissimi. Non c’è nulla in rete su di loro, ma credo che si esibiranno di nuovo al Fanfulla il 18 dicembre… Imperdibile.
Un bar e un ristorante di Roma dove vi piace andare quando non siete impegnati con il lavoro?
B: Spesso i bar di Roma sono i nostri uffici, dal Pigneto a San Lorenzo, quando hanno connessione wi-fi sono uffici a quattro stelle, quando poi dispongono di una presa di corrente schuko possiamo assegnargliene cinque.
F: Ma anche il Fanfulla, il Monk, il Verme, poi in realtà ci sono numerosi bar con wi-fi in cui ci incontriamo per eseguire il classico lavoro da computer. Abbiamo una mappa dettagliata della città con centinaia di posti…
Il suono che secondo voi, nel bene e nel male, è rappresentativo della città?
B: La prima cosa che mi viene in mente è il suono di un luogo comune, il traffico.
F: Vivendo vicino a un deposito di tram, il suono metallico delle ruote che sfregano sui binari, sta cominciando anche a piacermi. Ma anche il suono del fiume, delle campane delle chiese, del mercatino sotto casa, degli stormi di uccelli che invadono la città.
Potendo scegliere un luogo, sempre di Roma, dove realizzare una performance o dove collocare una vostra installazione, quale sarebbe?
B: I sotterranei: tunnel e cunicoli nascosti sotto la città.
F: La sopraelevata del quartiere Prenestino è talmente brutta che è affascinante. Immagino sarebbe di un impatto enorme.
Avendo la possibilità di sonorizzare, invece, una qualsiasi dimensione di Roma – un luogo, una persona o anche un momento – quale sarebbe la vostra scelta?
B: La domenica mattina e il letto del fiume.
F: Mi piacerebbe ascoltare il suono della risonanza di alcune statue in città, ma probabilmente alcune si distruggerebbero… Quindi meglio di no.