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Prima o poi tutti hanno la voce che vogliono

Una conversazione con Alessandra Illuminati e Giangiacomo Gallo su Sedna, album prodotto da DIACRONIE Media

Geschrieben von Giulio Pecci il 17 April 2025
Aggiornato il 18 April 2025

Basta sbattere le palpebre perché la panchina sia improvvisamente occupata. È uno dei sortilegi di Piazza Testaccio, il luogo che abbiamo scelto con Alessandra Illuminati e Giangiacomo Gallo per parlare dell’album di debutto di Alessandra: „Sedna“prodotto da DIACRONIE Media, costola della creatura multiforme Diacronie, fondata da Edoardo Maria Bellucci e lo stesso Giangiacomo.

Un album creativo, che tiene i piedi in mondi diversi con intelligenza, grazie al filo rosso della scrittura di Alessandra, poetica senza avere la testa tra le nuvole. Tra cantautorato, folk, elettronica ed esperimenti sonori si compone una storia precisa, ispirata a una leggenda nativo americana: Sedna è infatti una dea marina che nutre il popolo Inuit ma lo punisce quando pesca più del necessario.

Un’ambiguità restituita dalla tavolozza sonora. Le accordature aperte della chitarra acustica incontrano le manipolazioni elettroniche e gli effetti orchestrati da Giangiacomo oltre alle linee di basso di Giorgio Figà Talamanca. Si compone così un orizzonte musicale stratificato, tutto da scoprire, in cui la voce di Alessandra si muove con l’autorevole delicatezza di una lucciola in mezzo a una foresta di effetti e suoni.

 

Schivando le pallonate dei bambini della Piazza ci siamo buttati nella storia del disco.

 

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Partiamo dal disco: come, quando, perché?

Alessandra Illuminati: È stato un processo molto lungo, ho iniziato a scrivere questi pezzi durante il COVID. Sono stati portati avanti per un po‘ e poi abbiamo iniziato a produrli insieme, con Giangiacomo e Giorgio Figà Talamanca che suona il basso. Era un racconto che avevo in testa da tanto tempo: all’università ho studiato Storia dell’Arte e tra i vari esami ne ho fatto uno sull’antropologia del Nord America. Lì ho incontrato il mito della dea Sedna. In tutti questi anni è un tema che mi è rimasto dentro, evidentemente questa storia aveva smosso qualcosa. Per cui a un certo punto l’ho semplicemente riorganizzata per capitoli, così come è diviso il disco, con qualche inserzione più personale. È proprio una storia precisa che viene raccontata.

Se volessimo usare una terminologia anni Settanta lo definiremmo un concept album

AI: In qualche modo sì. Non intenzionalmente ma più come pretesto.

Giangiacomo Gallo: Ma tu mi avevi detto che i testi comunque sono delle rielaborazioni.

AI: Quello che intendevo è che i testi del disco ricostruiscono una rielaborazione della storia di Sedna, che viene fuori dalla commistione di chiavi di lettura più personali – e a tratti autobiografici – ed elementi presi in prestito dal folklore Inuit. Poesia, la prima traccia, ad esempio è una traduzione e adattamento di una poesia tradizionale Inuit; Sedna invece, la traccia che dà il nome all’album, prende in prestito il tema di una ninna nanna Inuit che ho ascoltato in una raccolta di musica tradizionale realizzata da un antropologo francese negli anni Cinquanta.

Come mai questa fascinazione per il folklore Nord-Americano?

AI: In realtà non lo so, ho scelto quell’esame opzionale all’Università e ho avuto una docente brillante, quindi credo semplicemente di aver raccolto la fascinazione che lei stessa provava per la materia. Era un esame molto generico, con tanti clan diversi, tante tribù diverse, però mi ricordo che gli Inuit in particolare mi avevano affascinato. In più l’arte Inuit mi piace molto, proprio dal punto di vista della produzione visiva e plastica, semplicemente credo per risonanza di gusto. Tant’è che anche la copertina del disco è di un artista Inuit – Papiara Tukiki. I suoi quadri me li guardavo da anni, nella speranza di poterli acquistare. Lei è morta due o tre anni fa in tarda età, è stato molto bello avere il permesso di usare quel quadro come copertina, mi ha reso molto felice.

Ovviamente è un disco che parte da ispirazioni musicali ma mi sembra di capire che l’arte figurativa ricopra un ruolo importante

AI: Sì, però in realtà non è una cosa consequenziale per me. Tante cose con cui sono entrata in contatto, non per forza nel tema specifico dell’antropologia, hanno contribuito alla nascita del disco. Musicalmente parlando, ad esempio, tolto il tema di quella ninna nanna non c’è altro di Inuit.

Leggendo i testi mi ha colpito una doppia qualità materica e metafisica nel modo in cui scrivi. Ti ci ritrovi?

AI: Un po‘ sì però secondo me è più figlio del fatto che comunque per me era importante raccontare delle cose precise, che non fossero semplicemente evocative. C’è una storia a tutti gli effetti, con degli eventi che accadono, quindi effettivamente è molto concreto il racconto da quel punto di vista. Poi magari per una mia predisposizione o gusto alla scrittura dei testi, poi mi piace non essere proprio…

…Didascalica

AI: Esatto. Una caratteristica che penso di aver preso altrove, in altri ascolti che ho fatto, in altri cantanti che apprezzo molto.

Quali ascolti e quali cantanti?

AI: Sicuramente il cantautorato americano, prima tra tutte Ani DiFranco, che per me è un’autrice eccellente. Il suo modo di scrivere mi ha influenzato molto, proprio rispetto a quello di cui parlavamo prima: mostrare molto ma dire poco. Parlo dell’approccio del “show, not tell”: provare a tradurre in scene e immagini ciò che accade, senza dover spiegare i vari momenti della narrazione. E poi sicuramente ci sono cantautori italiani che amo profondamente, tra tutti Fabrizio De Andrè, che secondo me ha in qualche modo le stesse caratteristiche: anche se è sempre un racconto perfettamente seguibile, non è mai uno “spiegone“. Certo, evoca sempre qualcosa, ma lo fa mostrandotelo, non ti dice quello che succede.

I pezzi quindi, in pieno stile cantautorale, li hai composti tutti chitarra e voce?

AI: Sì tutti, infatti non avrei mai immaginato il risultato finale a cui siamo arrivati. Con Giangiacomo e Giorgio ci conosciamo da tanti anni, era da tempo che ci dicevamo di fare qualcosa insieme, senza un’intenzionalità musicale specifica. È bello che le nostre tre teste, con background completamente diversi e motivazioni eterogenee, abbiano funzionato insieme. Per me il risultato è inaspettato. Ora lo sento come se non avesse potuto avere altra forma che questa, ma il processo è stato sorprendente. Dal mio punto di vista posso solo dire che non avevo paletti di genere anche perché al netto della lavorazione, che è arrivata dopo, i pezzi del disco erano esattamente questi e anche l’ordine.

Giangiacomo per te come è stato quindi approcciarti a un disco che era già in qualche modo “finito”?

GG: A livello di scrittura e struttura non è cambiato nulla. Quello su cui ho voluto lavorare è stato il suono, cercando di aprirlo a qualcosa di più attuale, più in dialogo con quello che abbiamo oggi intorno. Il cantautorato a volte tende a suonare sempre uguale, anche a distanza di decenni, e oggi abbiamo mille strumenti e influenze diverse. L’idea era proprio quella: provare a portarlo fuori da certi schemi sonori troppo classici.

Alessandra: Io credo, se non ricordo male, che l’idea originale era di fare una cosa un po‘ diversa da quello che è uscito.

Giangiacomo: Sì, è vero. Qualcosa di più noise, più intimo forse, no?

Più intimo rispetto a come è uscito?

GG: Esatto. Un po‘ meno ingombrante. Perché nel risultato finale la produzione elettronica è abbastanza ingombrante. C’è una chitarra acustica che suona, però è una chitarra che non si apprezza quasi mai per le sue qualità strettamente acustiche. Tutti i suoni che senti nascono dalla chitarra, dagli effetti applicati e dalla manipolazione del tutto. Il primo approccio infatti è stato effettare la chitarra e trovare le giuste modalità per cui lo strumento, suonando quello che già era stato scritto, potesse creare altre stratificazioni sonore. Una bella sfida.

Mi viene naturale chiedervi questo processo come si traduce dal vivo.

GG: Anche dal vivo la chitarra svolgerà il ruolo principale, entrerà nel computer e verrà effettata. Poi capiremo cosa tenere e a cosa rinunciare, ci sarà sicuramente un lavoro di scrematura, alcune cose sono utili solo in fase di produzione mentre per l’ascolto dal vivo non servono.

Chiedevo perché mi sembra un processo molto complesso: in studio si possono fare tante cose: sovraincisioni e trattamenti vari che dal vivo è impossibile ricreare…

GG: L’arrangiamento comprende samples, drum machine e suoni di sintesi, ma l’ambiente sonoro dei brani è stato costruito tutto sugli effetti della chitarra. Per come abbiamo lavorato in studio il segnale della chitarra è uno solo. Senza sovraincisioni o altro.

Ah wow, ascoltando tutte le stratificazioni sonore che ci sono avevo dato per scontato che fossero diversi livelli, segnali, manipolazioni!

GG: Ci sono vari livelli, ma la maggior parte e i più significativi a livello compositivo sono quelli creati dal singolo segnale della chitarra. Il punto è stato proprio il disegno degli effetti, fare un design dell’effettistica tale che rendesse la chitarra uno strumento più organico di quello che è, quasi orchestrale. La chitarra è un organismo complesso, ha già di suo un sacco di variabili, con gli effetti ne aggiungi ancora. È tutto reattivo e riferito alla gestualità. Il lavoro più grosso è stato quello e la successiva rifinitura.

Alessandra: Decisamente la rifinitura, gli effetti a volte si sono trovati in modo quasi fortunato. Mi ricordo benissimo che quello che c’è sulla chitarra della prima traccia, delle specie di campanelle, l’abbiamo trovato una notte in Grecia, tentativo di dieci minuti di lavoro.

Giangiacomo: Probabilmente quella catena di effetti trovata la notte in Grecia è stata un po’ il prototipo sonoro per tutto sì.

Alessandra: Trovata e registrata a cicale addormentate.

E per te Alesssandra questo è appunto un approccio nuovo?

AI: Completamente. Prima di questo disco non avevo mai approcciato gli effetti. Sempre solo chitarra e voce proprio per tutto il mio interesse verso il folk. Poi alcune cose di elettronica mi piacciono molto da fruitrice, quindi non è stato strano ascoltare il risultato finale, però mi sono dovuta abituare a suonare e cercare in quel modo, sto imparando a trovare l’efficacia al massimo sul sentire come lo strumento reagisce quando hai tutta una serie di variabili in più.

Giangiacomo, nel percorso come etichetta che avete iniziato con Diacronie questo è il primo disco cantato.

GG: L’idea di pubblicarlo con Diacronie è nata in modo molto naturale, quasi come se fosse la cosa più ovvia da fare, anche se è arrivato a produzione praticamente ultimata. Io personalmente ci credevo tantissimo, altrimenti non ci avrei passato tutto il tempo che ci ho passato. Mi stimolava l’idea di fare una cosa del genere. Mi piace produrre le idee degli altri, anche quando hanno già una forma, una struttura e mi piace trovare soluzioni in mondi che non mi appartengono come quello del cantautorato. In questo caso sicuramente ha aiutato il conoscersi da una vita.

Per te invece Alessandra buttarti nel “mondo” Diacronie com’è stato?

AI: Io mi sento una privilegiata assoluta, penso di essere stata trattata con i guanti bianchi. C’è stata massima comunicazione e comprensione da tutte le parti. L’amicizia e la fiducia che abbiamo ci ha permesso di affrontare le difficoltà che chiaramente sono state molte, visto il percorso così lungo. È stata una bolla naturale e fortunata.

Alessandra sei di Roma, quindi vorrei chiederti che rapporto hai con la città e che rapporto pensi possa nascere tra Roma e “Sedna”

AI: È una domanda complessa e sfumata. Non credo di avere una risposta precisa. Quello che mi auguro in generale (al di là del mio disco) è che si crei un tessuto sempre meno chiuso in bolle diverse, che si possa essere più interconnessi. Questo disco si trova un po‘ in una terra di mezzo perché non è cantautorato ma non è neanche elettronica sperimentale, prende da entrambi i mondi. Quindi è un lavoro, questo come tanti altri, che trova il suo posto nel mondo in un contesto che sia curioso e vitale. Certo sappiamo qual è la città in cui viviamo, quindi non è facilissimo immaginare tutto ciò a partire dagli spazi e dai mezzi che ci sono. Forse si riduce alla curiosità delle persone. Alla gente deve piacere ascoltare la musica, poi ognuno può preferire una cosa all’altra, però dovrebbe partire tutto da una spinta personale nel cercare la musica. Io questo lo dico perché penso di essere dipendente dai concerti, vado a tutti quelli che mi sembrano interessanti.

Come ascoltatrice romana, sempre riferendoci a quello che succede qua, come e dove ti muovi?

AI: In tutte le direzioni, veramente, ma perché per me è una cosa bella. Vado a tanti concerti alla cieca, è proprio un aspetto della vita che mi nutre, a cui non posso rinunciare. La sensazione di andare in un posto e tornare a casa arricchita da un nuovo ascolto che mi è piaciuto.

Ti è capitato qualcosa di questo tipo ultimamente?

AI: Sì, proprio di recente. Cristiano del Klang organizzava una serata al Circo dei Cerchi e c’era quest’artista che si chiama Miedo Total, un ragazzo italo-gallese. Non sapevo chi fosse sono andata sulla fiducia perché seguo sempre le attività di Cristiano. Sono rimasta piacevolmente sorpresa, anzi l’abbiamo conosciuto anche dopo, ha fatto uno show molto convincente musicalmente ma anche come performance molto scenico e potente.

Il concerto di presentazione di “Sedna” sarà in una cappella sconsacrata. Cosa significa per te suonare in un luogo “alternativo”, dalla forte potenza simbolica?

AI: Guarda, io sono un po‘ esteta nella mia personalità, quindi tendenzialmente mi muove il fatto di avere qualcosa intorno che sia evocativo. Sarà sicuramente qualcosa che aggiungerà all’esperienza suonare in un posto suggestivo, che mi piace molto. Ma poteva essere anche un parcheggio, se avessi trovato quel parcheggio evocativo per qualche motivo.

Musicalmente come si sta a Testaccio? A parte incrociare Niccolò Fabio ogni tre per due.

AI: Ma lo sai che me lo dicono tutti e io invece non l’ho mai beccato? Forse non lo riconoscerei neanche pure sapendo benissimo chi è. Proprio l’altro giorno me lo ridiceva una mia allieva…

Insegni canto?

AI: Sì e mi piace molto. Poi in realtà io insegno una cosa abbastanza specifica rispetto all’utilizzo della voce, perché ho studiato con Lisa Paglin e Marianna Brilla al “New Voice Studio”. Il metodo che loro hanno creato, che è quello che io utilizzo quando insegno è stato fondamentale per me come cantante perché toglie tutta una serie di sovrastrutture a quello che immaginiamo debba essere l’uso della voce. Ti confronti con la natura vera dello strumento. Poi capisci quello che ci vuoi fare, cercando di mantenere anche la salute. Io già cantavo prima di conoscerle, ma non era così soddisfacente come lo è adesso. Come credo accada a tantissime persone che usano la voce abbiamo talmente tanti riferimenti timbrici nella mente, in relazione magari a dei generi specifici o un’esigenza espressiva di un certo tipo, che io stessa mi ritrovavo magari a proporre delle cose che non erano necessariamente nelle mie corde, nella mia voce, però mi sembravano esteticamente musicalmente necessarie. Invece mi hanno fatto capire che non era così e che avrei potuto avere tutta una tavolozza di colori personale. Chiaramente anche meno identificabile e meno rassicurante in qualche modo, perché è più fragile, come è più fragile la natura delle persone.

Ricongiungere la proprio voce con la propria essenza piuttosto che con quello che ci circonda

AI: Esatto anche perché è inevitabile imitare. È una cosa che un po‘ tutti tendenzialmente facciamo. Invece con loro io penso di aver imparato a non farlo, poi sicuramente dei riferimenti nella mia testa ce l’ho. Ma devo dire che adesso magari i miei cantanti di riferimento non lo sono tanto per la musica che fanno o per quello che fanno con la voce, ma più per come sono dei performer, per lo spirito con cui performano, che non è ego riferito, che è molto generoso…

Ad esempio?

AI: Ma guarda tipo Aretha Franklin stessa, perché ha quell’aspetto come performer, è generosa. Ma come ti posso dire di nuovo Ani DiFranco. Lei quando canta inizia il suo discorso e non te la perdi mai, si tratta di generosità che uno deve, dovrebbe, avere verso il pubblico. Io non so se ci riuscirò, anche perché io ho pure l’ansia di mio, però spero di riuscire a fare quello: una cosa bella e godibile per le persone. È quello che io provo quando vado ad ascoltare i concerti, dove non è più importante chi è che sta suonando, che vita ha fatto, perché ha scritto quel testo, se ha dei traumi nella vita che hanno portato a quella scrittura, no. È quel momento, quello che racconta in quel momento, con il tono, con l’intenzione che c’è, che deve essere per forza per l’altro, altrimenti non è…

Quando ti confronti con le tue alunne e i tuoi alunni cosa ti torna indietro di tutto ciò?

AI: Mi sento molto fortunata anche per questo. Quando hai la fortuna di avere qualcuno che viene incuriosito e si presta a fare dei tentativi, quello che ti torna quando vedi che gli altri si riconoscono in quello che fanno è veramente potente. Ho un rapporto molto stretto con i miei allievi, loro hanno sentito il mio disco prima che uscisse chiaramente, vengono con me ai concerti, li mando tutti gli eventi a cui secondo dovrebbero andare.

L'insegnante che tutti avremmo voluto!

AI: Però effettivamente è andata così: dai concerti dei No Hay Banda, alle serate di Diacronie, agli Xiu Xiu al Monk poco tempo fa. Io ci metto del mio ma loro ci mettono del loro, perché non è scontato che siano sempre pronti a ricevere queste informazioni. Sono super innamorata di loro, lo faccio veramente con sincerità e con piacere. Anche perché devo dire che se si usa la voce in un certo modo tutti lo riconoscono. Mi ricordo che nei miei momenti di frustrazione totale dello studio, una di queste due americane, Lisa, a un certo punto per rassicurarmi ha detto: “Alessandra non ti preoccupare, prima o poi tutti hanno la voce che vogliono”. Per me non aveva alcun senso questa frase, perché io avrei voluto una voce diversa dalla mia più potente, più scura. Il senso l’ho capito anni dopo: quando tu senti così tua la voce, non ti serve cercare altro, l’accetti anche con i limiti che ha.

Sì, che in effetti prevarica la musica come discorso.

AI Assolutamente sì, verissimo.

Durante il lavoro c’è stato un momento o dei momenti epifanici, che ricordate tutti e due?

AI: Questo disco aveva sei tracce, ora ce ne ha sette perché in realtà poco dopo abbiamo deciso di inserire un’altra traccia che però non era nemmeno completamente finita e siamo andati tre giorni… Dov’è che siamo andati? A Monteleone Sabino?

GG: Sì. Diciamo che questo disco ha avuto diversi ritiri.

Alessandra: Ah sì, certo. L’abbiamo iniziato in Grecia, io, Giangiacomo e Giorgio su un’isoletta dello Ionio. L’ultimo l’abbiamo registrato lì a Monteleone Sabino in cui c’erano anche degli amici e ci avevamo portati tutta l’attrezzatura per suonare. In quei tre giorni io posso fare entrare sia i momenti più brutti che i momenti migliori di questa esperienza. Però a posteriori riascoltando gli export di quello che avevamo registrato è stato il momento in cui mi sono proprio detta “ok, ho fatto quello che dovevo fare”.

GG: Esatto, quello è il momento in cui tutto è finito, avevamo tutto e mancavano poi solo gli aggiustamenti finali.