Sonia è una dj, scrive di musica ed è la founder della piattaforma SAYRI. Ma un cappelletto introduttivo così non basta, ecco. Perché nella ricerca e nell’espressione musicale Sonia ha lavorato sulla propria identità, ci ha dato battaglia insomma, scavando tra i temi dell’appartenenza e dell’appropriazione culturale. Tra mix, musica da club, urbana e tradizionale, si capisce anche che ballare e fare musica, ascoltarla per strada o in radio, è affare eminentemente politico. E abita a NoLo, ma che ve lo dico a fare.
Noi ti conosciamo, ma partiamo con un classico: raccontati.
Io sono peruviana, italiana di seconda generazione (mettiamolo tra mille virgolette), e questa identità è sempre rimasta in ombra, mai emersa, almeno fintanto che abitavo ad Arezzo. Lì c’erano poche persone non bianche, nelle scuole ero sempre l’unica bambina figlia di genitori immigrati. Quel contesto mi ha portato a rinnegare un pezzo importante della mia identità. A considerarmi italiana in tutto, e, nello specifico, bianca. Quando ho deciso di prendere in mano la questione della mia identità l’ho fatto attraverso la musica. Lavorare sull’alienazione che ho subito, disimpararla e perdonarla, non è stato – né è tutt’ora – un processo pacifico, anzi. È doloroso. Avevo interiorizzato così tanto colonialismo, razzismo, al punto da rinnegare la mia discendenza non solo peruviana, ma indigena, e realizzarlo ha fatto molto male. Pensa che da piccola sono cresciuta in una casa dove ascoltavamo solo huayno, cumbia, e molta altra musica tradizionale andina e io la odiavo, me ne vergognavo.
Come hai cominciato ad approcciarti alla musica con questa prospettiva?
È stato solo scrivendone e seguendo alcuni artisti per lavoro che mi sono resa conto che lì, in un certo tipo di musica, c’era qualcosa da affrontare. Ho conosciuto il lavoro di collettivi come HiedraH, Salviatek, NAAFI, o artiste come Elysia Crampton, e altre label in America Latina. Progetti, insomma, legati a un clubbing politicizzato, decoloniale, in cui la musica è veicolo di rivendicazione identitaria, quindi di liberazione – come nel caso di Elysia Crampton. Era un modo per contrastare attraverso la musica quel meccanismo di alienazione che avevo subito anche io. Una forma di resistenza.
All’inizio, quando ho cominciato a suonare, non sapevo da dove partire, era la prima volta che suonavo e non scrivevo. Un rapporto completamente diverso, che ho preso come una seconda forma di linguaggio e che aveva qualcosa a che fare con chi ero, con chi sono. Sono cresciuta molto anche con radio Raheem, che mi ha stimolato a trasformare quelle ricerche in mix. Nel 2018 mi hanno offerto una slot, e da lì ho cominciato a esplorare attraverso la musica nozioni come latinidad e appartenenza.
Qual è stato il ruolo di Milano in questo percorso?
Per certi versi questa città mi ha salvata, assieme alla musica. Mi ha posto di fronte a uno spazio più ampio, dove ho potuto confrontarmi con la mia identità, che chissà, se non fossi venuta magari avrei continuato a negare. Certo, è stato un percorso. I primi anni avevo ancora addosso tanta alienazione, ero molto assimilata alla finzione bianca, eteronormata di italianità che mi portavo dietro da Arezzo. Solo dal 2014/15 ho cominciato a relazionarmi alla musica in modo più intimo, di riscatto… In quel periodo si sono congiunte molte cose.
Più che la Milano degli eventi, delle serate e così via, è stata proprio una questione di composizione demografica, di comunità.
Ecco, tu abiti qui a NoLo, dove la comunità latina è piuttosto radicata. Da tempo. Ha avuto qualche impatto sul tuo approccio alla musica?
Il momento in cui sono arrivata nel quartiere coincideva con il pieno della sua gentrificazione, a fine 2016, ed era proprio un momento in cui stavo ragionando sul mio rapporto tra identità e musica. Mi stavo avvicinando alla musica urbana e al reggaeton, mi piaceva sentire Ozuna o Bad Bunny, che all’epoca stavano cominciando ad esplodere, sparati a palla in giro. Tra 2016 e 2017 ho viaggiato in Perù ed Ecuador: non tornavo in Sudamerica da 10 e passa anni, ed è stato tutto molto intenso. Al rientro a Milano, ho iniziato a riconoscermi in molto di quello che vedevo e sentivo nel quartiere. Mi sentivo identificata, e, in qualche modo parte di una comunità – anche se dire che la rappresento non è corretto, dato che siamo in tanti e tutti con esperienze super diverse. Stare qua a NoLo (non sono una fan di questo nome) in quel periodo è stato sicuramente importante per la crescita personale che ho avuto. Detto ciò, abbracciare le proprie radici senza riconoscere e questionare i processi che storicamente hanno tentato di eliminarle, significa cadere nello stesso oblio alla base dell’ipocrisia che è il multiculturalismo. E “NoLo” piace proprio perché “multiculturale”, “multietnico.”
Sorvoliamo ora sul fatto che se si parla di “multietnico” 4 su 5 attaccano a parlare di ceviche e si fermano lì. Tu che impressioni hai?
Te la racconto così: quando arrivai qua a NoLo, nei primi mesi mia mamma veniva a trovarmi. E rimase colpita, felicemente, di vedere tante persone latine, peruviane, come noi. Ha pure conosciuto Lucho, il signore del Cholobuster, che vende salchipapa e salchibroaster su ruote davanti a Pasteur. Ho visto cambiare moltissimo in questi anni la sua clientela: ci sono molti più italiani rispetto a prima. È sicuramente un bene per lui perché vende di più, ma in più ampia scala è proprio parte di processo di gentrificazione che estetizza, feticizza, e infine deumanizza.
Locali come il peruviano, dove si mangia il ceviche appunto, solo qualche anno fa non erano di interesse. Ricordo che quando arrivai qui, rimasi colpita che alla gelateria peruviana in viale Monza si vendeva questa bevanda calda, fatta con quinua e polpa di mela, che è tipicamente peruviana. Supernutriente, poi. Ma ci rimasi perché era cara, ed era l’esatta colazione che mia mamma mi faceva quando andavo a scuola, ogni giorno. E io la odiavo, a partire dall’odio interiorizzato che avevo verso le mie origini. Volevo il cornetto, i biscotti come gli altri. Adesso, anni dopo, quella stessa colazione la vendono qui, a NoLo, ed è pure carissima.
Beh, la gentrificazione è sicuramente molto sentita qui. E molti, volenti o nolenti, ci contribuiscono. Tu hai affrontato la questione della tua identità confrontandoti con la musica, vedi qualche percorso simile nel quartiere?
Per come siamo messi ora, la gentrificazione è tanto condannabile quanto inevitabile. In parte io stessa sono partecipe di questo processo, portando qua e là amici e conoscenti, o probabilmente anche avendo questa conversazione ora. Esserne coscienti non basta ad arginarne gli effetti. Mi sembra che tante di quelle cose che mi hanno causato crisi esistenziali da piccola, oggi, e soprattutto in quartieri come questo, siano di moda. La gente se ne appropria, consuma, si strafoga con l’esperienza più piacevole e comoda, dopodiché la getta via e torna a vivere la sua vita. Agli italiani piace mangiare peruviano, ma non avere a che fare con peruviani. Né sapere cosa succede in Perù. Manca una consapevolezza del potere e dei privilegi che detengono i corpi, specie se normativi, egemonici in termini di razza, classe e genere. Quante volte ho assistito a italiani bianchi muoversi in spazi/ambienti di comunità non bianche, come se fosse un parco giochi, un’attrazione turistica.
Con la comunità latina, migrante, non bianca di NoLo, condivido lo spirito di preservazione e sopravvivenza, che quindi mi porta a ripudiare ogni forma di whitewashing e gentrificazione dentro e fuori il quartiere. La chiave sta sempre nel collettivo, e non nell’individuale. In questo senso, è bene essere coscienti collettivamente dei rapporti di potere che intercorrono tra chi gentrifica e chi è gentrificato. E, questo sì, mai assimilarsi.