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talpah

Una mappatura virtuale dei suoi dungeon audio

Geschrieben von Luigi Monteanni il 28 März 2023
Aggiornato il 29 März 2023

talpah, ventitré anni, per gli amici Christian Gravante, è in arrivo con due nuovi dischi e una serie di collaborazioni dopo aver sovraccaricato i nostri earpods con contributi su CLAM, Opal Tapes, Denied Area e A Flooded Need che sembrano più delle bombe carta piene di chiodi in realtà aumentata che la classica club music. La sua musica si trova a un incrocio bizzarro ma estremamente contemporaneo in cui la circolazione dei file e degli stem sui social network si succede in modo non consecutivo alle vibrazioni e gli scricchiolii delle membrane dei soundsystem. Il mondo di talpah è quello delle playlist introvabili su YouTube, dei forum pieni di ossessioni, delle autoproduzioni e zine che solitamente nascondi a tua madre:

un mondo dove il termine underground è ancora estremamente valido.

Dopo esserci conosciuti grazie a passioni comuni verso il consumo di contenuti che definire edgy sarebbe decisamente troppo gentile, ci siamo incontrati nel suo e mio posto preferito, Internet, per parlare di dungeon virtuali, estetiche estreme e distopie pop in occasione del suo live A/V per Opposites United, tentando di scoprire finalmente cosa c’è al fondo di questo rabbit hole di sample.

Luigi Monteanni: Come è iniziata la tua relazione con la musica?

talpah: Mi è sempre piaciuta e ne ho sempre ascoltata. Nel mio paesino, Portico di Caserta, c’è una tradizione che si chiama “la festa di Sant’Antuono” in cui fanno dei carri e su questi suonano delle tinozze di legno e delle botti con delle falci. È una roba ritmica, quasi “anti melodica” che ho visto sin da quand’ero piccolo, la quale mi ha dato un impulso che mi ha portato a suonare la batteria quando avevo dieci anni, anche se poi l’ho abbandonata scaricando FL Studio a tredici. Quando sono diventato più bravo ho cominciato a produrre e poi è stata un’evoluzione costante fino a che sono finito a fare quello che faccio adesso. Non ho mai studiato musica né sound design né nient’altro. Il mio primo imprinting è stato ritmico. Ad un certo punto nella mia vita era importantissima la trap. Le prime tracce della Dark Polo Gang erano importanti per me perché avevano una sezione ritmica che qua in italia non avevo mai sentito.

LM: E le prime produzioni targate talpah?

t: Le prime produzioni talpah sono uscite nel 2014/15, ma sono cose che ormai sono molto distanti da quello che faccio ora. Ma ascoltandole senti che ci sono delle cose simili alla mia produzione attuale: piccoli giochi di editing o come curo i campioni, anche se l’intenzione è diversa. Le mie influenze primarie sono le stesse, se ne aggiungono di nuove ma quelle vecchie non scompaiono. Il mio percorso comincia con le quattro tracce di “Scorsi” su Denied Area, un’etichetta di Santa Maria Capua Vetere, dove vivo adesso. È stato forse il primo approccio con cose più sperimentali e ambient, anche perché i ragazzi di quell’etichetta sono più grandi di me e mi fecero ascoltare cose come “Mono No Aware” (PAN) o le robe di ZULI. Quando ho cominciato a produrre, le prime cose che mi interessavano erano robe tipo Cashmere Cat e Rustie; ero in fissa col jersey club, il canale YouTube Majestic Casual (lol) e Activia Benz l’etichetta di Slugabed: ero molto legato a suoni ironici, alla cultura dei meme e poi mi sono andato ad inscurire. Al contempo ci sono sempre delle cose che fanno un po’ ridere in ciò che faccio; dei sample messi in un certo modo, poi ci sono state influenze come la trap, il bouncy harsh di CLAM. In passato le cose più ambient erano sempre separate dalle produzioni bass; per esempio il disco con Ciro Vitiello, Lost in the Colloid – Opal Tapes, è astratto e non ha ritmi, mentre quello su CLAM, HOW DID I SURVIVE?, è un insieme di bangers. L’obiettivo dei nuovi lavori, un disco con Deepho e un altro su un’altra etichetta è mettere insieme questi due approcci con un nuovo interesse che ho per le voci.

LM: Come nasce il nome talpah?

t: Il nome talpah era il mio soprannome perché sono estremamente miope. Non l’ho mai cambiato anche perché quando ascoltavo la dubstep mi sembrava simile a quei nomi corti tipo Caspa o Mala. Rimandava alla bass music. La h l’ho messa perché così potevo essere trovato online.

LM: So per certo che tu nutri un fortissimo interesse per le estetiche estreme, i manga e gli anime. Dopotutto ci siamo conosciuti per le nostre letture comuni. Quanto e quali di queste estetiche ti interessano e influenzano il tuo lavoro?

t: Tutto quello che ho fatto negli ultimi anni è stato influenzato dagli anime e dai manga. I due lavori che usciranno e quello che è uscito su CLAM sono pieni di sample di anime. Durante il disco su CLAM leggevo molti anime apocalittici come Eden e Blame! Il discorso era: come suonerebbero se provassi a sonorizzarli? Volevo creare tracce che fossero ambienti in cui entravi. Chi ascoltava doveva sentirsi all’interno di questa scena di questo manga. Successivamente mi sono spostato su cose come Suheiro Maruo e poi ho scoperto Too Negative, Trevor Brown, Tsurisaki Kiyotaka e riviste giapponesi uscite tra gli anni novanta e duemila con estetiche maggiormente estreme.

 

LM: Secondo te come mai molte delle produzioni elettroniche e dei nuovi generi nati su internet sono così influenzate da queste estetiche relative agli anime?

t: Sono estetiche molto catchy che si sono impossessate di Internet. Alla fine Internet secondo me per molti generi di musica elettronica, magari che ci sono nati dentro, come l’hyperpop, è stato fondamentale. E su internet c’è una forte influenza sia della cultura memetica che di quella anime: sono indissolubili. Poi alcuni generi di musica elettronica sono molto affini al mondo dell’animazione giapponese. Pensiamo all’impatto che hanno avuto le estetiche di anime e film Ghost in the Shell, Akira, Evangelion, ma anche a XXXTentacion e ai fanvid di Naruto con tonnellate di visualizzazioni. È un mondo che funziona perché da un lato hai le battles e dall’altro i momenti sentimentali.

LM: Ti senti parte di queste influenze e subculture?

t: Mi sento parte di questo movimento. È musica che nasce su Internet, grazie a Internet. Ho conosciuto tantissimi artisti e ci nascono tutte le mie collaborazioni, come Ciro e Giancarlo – Kuthi Jin. La mia è Internet music perché si sviluppa lì.

LM: Visto che è musica largamente strumentale, c’è qualche tipo di immaginario o set di sensazioni che tieni a comunicare?

t: Generalmente produco e penso solo dopo all’impressione che la mia musica può generare. Quello che mi interessa comunicare è una narrazione. Ultimamente penso alle mie produzioni come una sorta di “dungeon music”, la sensazione di camminare in un dungeon dove dietro ogni angolo potrebbe trovarsi un mostro. Come se fossi intrappolato e costretto a sentire la mia musica senza sapere cosa succede dopo.

LM: Come lavori ai tuoi pezzi? Qual è il tuo metodo e setup?

t: Ho sempre lavorato solo col computer: ho pochissimi plug-in e lavoro tantissimo con i campioni. Registro in giro dei foley sounds o scarico video che poi ricampiono; magari poi li passo in un vocoder e estraggo una melodia. Quando raramente registro dei synth, congelo la traccia e poi la riesporto per utilizzarla come sample. È il modo più veloce per me. Chiaramente questa cosa ha dei malus, ad esempio questi campioni suoneranno sempre peggio di un synth, e un synth interno suonerà peggio di uno esterno. Nonostante ciò non sento l’esigenza di comprare strumenti, anzi vorrei imparare di più a gestire quello che uso. Se i campioni non sono puliti, imparare a pulirli maggiormente e usarli bene. Certo, se un domani dovessi produrre per artisti pop su una major, mi servirebbero cento giga di librerie di Kontakt e dei synth.

LM: Che rapporto hai con le tecnologie? Pensi siano importanti per i musicisti oggi?

t: Le tecnologie sono fondamentali, ma a me non interessa come è prodotto un disco. Se funziona, funziona. In altri casi ci sono processi creativi che rendono un disco interessante, e allora mi concentro sulla performatività, sul come e perché suona così. Sicuramente la tecnologia oggi è importante per la musica e per le estetiche e arti visive contemporanee. Io non so se avrò mai l’occasione di sfruttare tecnologie matte ma sono affascinato da chi lo fa, perché è difficile e devi focalizzarti solo su quello. C’è un mio amico, Nesso, che lavora con il live coding. Fa cose molto dancy in realtà, è molto interessante. Sta un’ora dietro al computer con i codici proiettati dietro che scorrono. Al contrario, il mio modo di fare musica è molto banale. A volte mi piacerebbe sperimentare con altre cose, ma credo che ciò che faccio io sarebbe difficile fuori dallo strumento che uso. Per quanto mi riguarda la tecnologia si lega anche al fatto che su Internet consumo suoni e immagini che raccolgo e riporto in quello che faccio.

LM: Recentemente si parla molto del concetto di futuro e distopia nell’elettronica. Tu cosa ne pensi?

t: Non mi interessano molto questi concetti. Voglio solo fare cose estreme che mi facciano swaggare e che siano divertenti. Prima ero più fissato sul fare cose che suonassero futuristiche. Ora mi dico che non ho niente di futuristico, faccio qualcosa di fuori e basta. Se avessi voluto fare cose futuristiche avrei fatto altro. La distopia fa parte della mia narrativa ma è una “distopia pop”, legata al mondo del manga o dei film che guardo. Non è legata alla mia esperienza quotidiana, è una piccola forma di escapismo.

 

LM: Per ZERO presenterai un Live A/V. In cosa consiste?

t: I visual li fa Nic Paranoia. Abbiamo un rapporto di amicizia e anche lui è affascinato dalle stesse mie estetiche. Ci scambiamo molto materiale. Avevamo fatto un esperimento a Roma, a Panetteria Atomica: non venne nessuno perché pioveva, eravamo letteralmente io e lui in questa cava cementata. Sparai il volume del mixer al massimo, era tutto in rosso. Lui mandava ogni sorta di clip raccolte da YouTube. Con lui condivido l’approccio che ho con i sample: trovare contenuti bizzarri e usarli. Giriamo assieme YouTube e scegliamo cosa usare scavando online. Poi lui sceglie una serie di tecniche di post-produzione e effetti. A me piacerebbe che la gente ascoltasse il live mentre guarda e si creasse una narrativa, quell’effetto dungeon music che sto cercando: vorrei che i video raccontassero le tracce. Mi piacerebbe farne di più in futuro perché quando suono non vorrei mai essere al centro del live. Sto solo davanti al pc quasi immobile e ascolto la musica. Preferisco che piuttosto ci sia il buio e che la gente ballasse vivendosi il set visto che in quel momento non sto facendo nulla. Penso sempre: sto davanti al pc, non farmi le stories, falle agli altri che si muovono e ballano. Con i visual io e Nic potremmo metterci dietro un telone a suonare nascosti e generare questo effetto di proiezione audio/video.

LM: Ti senti di appartenere a qualche scena specifica sia in senso nazionale che transnazionale?

t: Non ritengo di appartenere a nessuna scena, nonostante credo profondamente che CLAM sia stata una piattaforma di lancio per me. Attorno a CLAM c’era un bel giro tra Kuthi Jin, Voronhil, Tony Perez, Jennn, SINERAW ma tolto quello non mi sento affine a nient’altro. Nel mio disco ci saranno una serie di featuring che sono tutti diversi e appartengono a scene molto differenti. Forse l’unica macroscena di cui mi sento parte è quella della musica club sperimentale. Aspetto anzi di vedere come verrà percepito il mio nuovo lavoro, quello mi aiuterà a capire forse verso che scena sto andando.

 

LM: Ad oggi vediamo sempre più microgeneri palesemente inventati dai musicisti che li praticano. Una cosa che CLAM e realtà simili conoscono molto bene. Tu che ne pensi?

t: Mi piace. È un fare molto divertente. Quando sei su internet chi ti nega di creare un nuovo tag? Tanto i generi a che servono? La gente guarda l’etichetta o i feat. per capire se la musica può essere affine a quello che ascolta. Secondo me nella musica elettronica sperimentale non esistono i generi. Se devo ascoltare del grindcore ha un senso, ma in queste cose nuove no. Può avere senso se hai un processo creativo specifico, ma nel mio caso non è utilissimo.

LM: Che ne pensi dell’underground? Esiste?

t: L’underground è destinato a morire. Magari sei underground ma di nascosto sei costretto a vendere il culo per altri lavori. È difficile viverci. Lo devi vedere semplicemente come qualcosa in cui credere e in cui dare spazio a più persone e non per puntare a monetizzare per sostentartici. Io non sono famoso e suono poco, ma per quel che suono, ho capito che per fare certe cose non ci sono molti spazi.