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Tecno-tumulti: Francesca Cornacchini

Intervista all'artista romana classe '91 in occasione di Natural Disaster, la sua prossima personale ospitata negli spazi di Divario

Geschrieben von Nicola Gerundino il 8 Februar 2024
Aggiornato il 9 Februar 2024

Foto di Chiara Cor

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Nella titanica futura lotta tra le grandi corporazioni vampiresche, desiderose di ricavare denaro da ogni risorsa materiale e immateriale della terra, e un’altrettanto agguerrita resistenza autorganizzata, noi immaginiamo Francesca Cornacchini in testa ai battaglioni dell’avanguardia, mentre lancia la carica con un fumogeno tra le mani e una daga nell’altra. Seppure nelle sue opere aleggino sempre gli spettri della contemporaneità internettiana, è la gioia della moltitudine a risplendere con maggiore nitore. Che si tratti di reminiscenze sportive (lo stadio), di fascinazione per le sottoculture musicali, di rivendicazioni politiche o dell’adrenalina da arcade in sala giochi. Guarda il techno-pessimismo dall’altra barricata, assaporando l’epica dello scontro. Ritroverete tutto questo anche nella sua prossima personale ospitata da Divario, „Natural Disaster“, dal 15 febbraio al 12 aprile 2024. Un’occasione per fare due chiacchiere e parlare anche di quello che sta accadendo nel panorama romano dell’arte contemporanea, a partire dalla pratica emancipatrice dei tanti artist-run space comparsi in città negli ultimi mesi.

 

Come ti sei avvicinata all'arte contemporanea?

Volendo iniziare veramente dal principio, mi sono avvicinata concretamente in accademia, a Roma. La mia adolescenza si è svolta principalmente a Ostia, una delle tante periferie italiane in cui l’arte moderna è l’ultimo traguardo della formazione scolastica pubblica, figuriamoci l’arte contemporanea!

Quando hai deciso che quello dell'arte era il tuo linguaggio? Con che media e materiali hai iniziato a lavorare?

Sono brava nel disegno e questo mi aiutava al liceo per illustrare argomenti che mi erano cari, principalmente di stampo politico. Era un metodo comunicativo che per me funzionava. La sperimentazione e l’intendere come un lavoro questa mia propensione artistica sono arrivati dopo. Amavo MTV, ne ero ossessionata, i video musicali erano racconti fantascientifici che volevo fare miei. Ho iniziato a lavorare proprio nell’ambiente musicale, produzione video e poi regia, dal rap allo stoner, per poi arrivare alla EDM intorno al 2012, quindi alla club culture e ai visual e mapping per serate tra Brighton e Roma. Il mondo underground ha riempito il mio spirito critico e i miei occhi.

Ti ricordi la tua prima mostra?

Questa è archeologia! Credo sia stata in accademia, un lavoro installativo: un cubo di mattoni che reggeva uno schermo 4:3 che riproduceva in loop una gif che avevo ideato. Si chiamava “Burn the House Down”: una famiglia felice che posava davanti alla sua casa in legno, stile Alpi, mentre delle fiamme di pixel la bruciavano!

Il linguaggio e l'immaginario tecno-web è al centro della tua ricerca. A tal proposito, inizio con il chiederti se c'è stato un social (o un sito) che ha formato il tuo immaginario e la tua estetica in maniera decisiva.

Più che al centro, direi che la tecnologia è parte della mia ricerca, così come è parte imprescindibile della nostra vita. Tutto è politica, tutto è una sintesi tecnologica. Piuttosto che ai social, penso alle consolle, prima fra tutte la PlayStation con videogame come „Tomb Raider“, „Tekken“, „Crash Bandicoot“, „God of War“, „Spyro“, „GTA“. Per i siti, rotten.com, il primo Tumblr, oppure programmi televisivi come „Robot Wars“, „Celebrity Death Match“, „Ranma 12“.

Passi molto tempo in rete? Di solito che cosa ti piace guardare, quali sono le tue fisse assolute?

Sono molto curiosa, ho una passione spasmodica per i documentari, che si tratti di archeologia, storia, astronomia o biologia. Youtube è una panacea di informazioni: da quelle più serie, come conferenze o talk, fino alle challenge più disparate, come gli iceberg o creepypasta. E, ovviamente, i miei amati video musicali! Chi lo avrebbe mai detto che Rafman avrebbe collaborato con Kanye West!

Che rapporto hai con la tecnologia e come questo si traduce in estetica artistica?

Sono grata per il progresso scientifico, dalle nuove biotecnologie fino a quelle più “canonizzate”, come un accendino o un paio di occhiali. Il mio rapporto concettuale con la tecnologia si traduce in ragionamento politico e filosofico. Penso all’umanità in termini di biomassa, come una specie fra le tante. Ma non parlatemi di Darwin!

Che rapporti invece pensi abbia la società tutta con la tecnologia?

Quale società, quella occidentale americanizzata? Belligerante, consumistico, finanziario.

Arriviamo così a parlare di tecno-pessimismo. È tutto compromesso dal tuo punto di vista?

Il tecno-pessimismo, appunto, è la sfiducia nell’utilizzo capitalistico e finanziario del progresso scientifico. Quando il progresso non è volto al benessere collettivo ma all’arricchimento di corporazioni perde il suo valore umanitario.

Temi più la concentrazione di potere tecnologico o l'utilizzo "sbagliato" di tecnologie potenzialmente utili e positive?

Temo ogni forma di concentrazione di forze di potere. Ogni forma di inacessibilità al benessere basilare per la vita. Come sostiene Chiara Valerio, amo la democrazia della matematica, nonostante la mia discalculia!

Cosa ne pensi dell'AI? La stai utilizzando nella tua pratica artistica?

Amo le AI! Ci interfacciamo con loro da almeno sessant’anni. Le prime intelligenze artificiali che ho incontrato nella mia vita sono state quelle che gestivano gli animali in „Tomb Raider“! Da technosapiens quale sono, credo fermamente nella realtà aumentata, al supporto delle AI, dei dati e delle informazioni per aiutare l’essere umano nelle decisioni gestionali, ad esempio. Ciò detto, non le utilizzo come focus del mio lavoro, sono annoiata da questo trend, spesso affrontato in modo superficiale e ridondante. Non parteciperò a questa caccia alle streghe!

Spulciando nei tuoi social non di rado si trovano foto di te nella natura. Mi piacerebbe sapere come vivi questo dualismo (tecnologia/natura) e, soprattutto, sapere se per te è un dualismo effettivo.

Noi siamo per la tecnologia ciò che un’ape è per il fiore.

Domanda simile: nei tuoi lavori, oltre a riferimenti culturali digitali e tecnologici, ci sono spesso elementi che riguarda l'abbigliamento e la moda. È una dimensione importante della tua ricerca?

Non sono interessata tanto alla moda intesa come fashion e couture, piuttosto alle subculture, agli abiti tradizionali e a ogni espressione identitaria di un popolo. I capi d’abbigliamento che utilizzo sono, generalmente, indumenti simbolo. Indicano uno status, una generazione e la sua identità culturale. Dai gopnik ai raver passando per i copricapi di feste pagane. Sono tutte forme di resistenza alla cultura dominante. È facile e fazioso parlare di underground vestendo Balenciaga!

Parliamo della tua mostra da Divario, "Natural Disaster". Cosa hai voluto raccontare e che opere troveremo in mostra?

“Natural Disaster” ragiona sulla violenza, la turbolenza e l’eroismo romantico generato dal caos. „Il commovente equilibrio ristabilitosi a seguito del passaggio di una forza, insieme entropica e generativa, capace di produrre visioni sublimi“, come suggerisce Giulia Gaibisso, curatrice che si è occupata del testo. Lo spazio, la galleria, viene idealmente trasportata in un luogo immaginario, quasi come un racconto di fantascienza: una cattedrale nel mezzo di un deserto arido e crepuscolare. Una tempesta all’orizzonte impervia da migliaia di anni, senza mai indietreggiare, senza mai avvicinarsi. Dalle vetrate dell’architettura Sacra, il cielo, blu elettrico, è squarciato da raffiche di fulmini. L’aria è turbolenta. Al centro della navata, lo spazio è diviso da un gigantesco techno-affresco allegorico a definire l’arco trionfale metallico e fiammeggiante. Al centro Il Sole tenta di fendere l’oscurità. Il presente è passato da indefinibili anni. Nuovi angeli abitano la Cattedrale del Disastro Naturale. In mostra porterò una nuova serie di tute cucite e intelaiate, “We are machines made for dreaming_paesaggio con fulmini 1,2,3”, “ Il Sole (sole nascente)”, e un lavoro inedito con i fumogeni, un grande affresco allegorico, “Incendio: allegoria del fuoco”.

Divario, che ospiterà la tua mostra, è uno dei tanti spazi indipendenti che stanno caratterizzando il panorama di Roma. Parto da qui per chiederti cosa ne pensi della città e della sua scena/produzione culturale.

Oltre alla mia produzione artistica, tre anni fa ho fondato D3cam3ron3 Art Residency e dal 2018 lavoro, insieme ai miei colleghi di Spazio In Situ, alla schedule annuale delle mostre nel nostro spazio espositivo. Nel mio piccolo posso dire che i sostegni a livello nazionale e regionale sono veramente scarsi e difficili da ottenere. Lavorare in ambito culturale è diventata un’impresa! Tuttavia, negli anni ho avuto la possibilità di incontrare tanti artisti incredibili che lavorano a Roma e la proliferazione degli artist-run space ha creato un reticolo di amici e scambi culturali che vanno ben oltre la mera economia dell’arte.

Ci puoi raccontare cosa rappresenta per te l'esperienza di Spazio In Situ e come è cambiata la tua pratica avendo un artist-run space come piattaforma di lavoro?

L’artist-run space per me è stata una sorta di emancipazione dall’accademia. Spazio In Situ è sempre stato caratterizzato dal rigore e dalla professionalità con cui ci siamo approcciati al lavoro degli artisti e curatori che collaborano noi. Questo mi ha dato degli obiettivi concreti e nuovi, talentuosi, amici in un periodo in cui cercavo una motivazione. L’arte contemporanea è diventata una strana ed eccitante “cosa seria“! Gli scambi con i miei colleghi sono stati fervidi e rampanti: insomma, eravamo ancora studenti in accademia. Correvamo da un’opening all’altro, quattro o cinque a serata: un sacco di vino bianco! Ora sono passati otto anni da quando abbiamo aperto, abbiamo stretto rapporti internazionali, ospitiamo almeno quattro mostre l’anno di artisti e curatori di ogni provenienza.

Roma è una città tecno-pessimista? O una città talmente analogica da diventare una città resistente, che resiste?

Roma è quasi steampunk ai miei occhi! Anche un ingranaggio arrugginito, per quanto sia analogico, è tecnologia. Lascio a voi intendere!

Immagino che le numerose scritte su tutti i muri della città ti abbiano ispirato in alcuni tuoi lavori, magari anche negli ultimi in cui hai iniziato a utilizzare fumogeni colorati.

Sicuramente sì, sono state fonte di ispirazione. I fumogeni invece vengono dalla mia memoria, da ricordi che si sono ibridati insieme. Le prime rivolte, le torce e fumogeni che riempivano di rosso l’orizzonte, e poi la mia altra passione, il calcio, la tifoseria: giocavo nella Roma! Insieme queste due immagini, queste memorie, hanno risuonato e si sono fuse insieme. Nuovi paesaggi, nuovi scenari, nuove battaglie e nuovi orizzonti. Come fiaccole che indicano un obiettivo, un fine eroico, davanti a noi, più importante di noi. Penso ad esempio “And if I could, No end in sight”, un lavoro che ho portato nel 2023 nella galleria Unosunove, in una collettiva curata da Angelica Gatto e Simone Zacchini. In quella occasione, durante la performance, il rosso della torcia ha riempito tutto lo spazio espositivo, con una luce quasi accecante e il fumo che cingeva la stanza. Una specie di esplorazione orfica, tentando, idealmente, di illuminare laddove non arriva la luce.

Dopo la mostra da Divario a cosa lavorerai?

A marzo si terrà la restituzione della residenza che ho ideato e dirigo e di cui parlavo prima, D3cam3ron3.Anche quest’anno la mostra sarà ospitata da Palazzo Lucarini Contemporary, a Trevi, con cui collaboro dagli albori del progetto. Tra gli impegni certi, lavorerò a maggio con Magma, spazio culturale transdisciplinare di Roma Est, e con Daniela Cotimbo presso Cosmo Trastevere per un’altra personale nel periodo di giugno. In estate sarò collaboratrice e ospite del Fuori Festival di Spoleto in occasione del Festival dei Due Mondi.