Short Theatre porta in scena anche in questo 2023 un coacervo di artisti dirompenti e realtà teatrali innovative. Pescando nella sua proposta di progetti appena germogliati, abbiamo fatto qualche domanda al Gruppo Uror, formato da Evelina Rosselli e Caterina Rossi, alla loro prima partecipazione al festival come artiste in cartellone con lo spettacolo „Rosso“. Le due attrici e registe sperimentano e abbracciano per ogni nuovo lavoro forme espressive pulsanti e in divenire, rifuggendo stasi e definizioni categoriche. “Rosso”, in scena in anteprima al Mattatoio il 7 settembre alle 19:30, parte dalla rielaborazione della favola di „Cappuccetto Rosso“ in una chiave intima, filosofica, ancestrale. Uno spettacolo che si serve del teatro di figura per scandagliare i meandri di un mondo che ora è bosco, ora è anima. Ne abbiamo parlato con Evelina Rosselli, che si è fatta portavoce anche delle istanze di Caterina Rossi, della loro formazione, della nascita del collettivo, del loro approccio lavorativo, del rapporto che lega entrambe a Roma, città dove fanno base, degli artisti e delle artiste che hanno influenzato il loro lavoro e di cosa possa comunicarci ancora oggi una favola.
Come è nato il Gruppo UROR?
Con Caterina Rossi ci siamo conosciute durante gli anni dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica di Roma, che entrambe abbiamo frequentato in qualità di attrici. Il nostro incontro ha solcato territori profondi, probabilmente precedenti al momento stesso del nostro incrocio in ambito artistico. Da allora, il bisogno di ri-appropriazione della materia artistica al di là di ogni definizione, ha spinto il nostro nucleo a radicarsi sempre più, a partire dagli studi e dagli interessi condivisi, che spaziano dalla storia dell’arte alla filosofia, all’artigianato, alla musica.
Quali compagnie teatrali vi hanno ispirato maggiormente e quali fra quelle con base a Roma?
L’opera della Societas Raffaello Sanzio è stata sicuramente una delle più significative all’interno del nostro percorso. In particolare, per me, l’incontro con Claudia Castellucci, passato a Caterina direi per osmosi, è divenuto un perno d’ossigeno, uno sguardo sapiente e di cura silenziosa. Caterina emerge da poco da un’esperienza laboratoriale con Romeo Castellucci, per cui è come se condividessimo una forma di vocabolario che mutua anche dal loro passaggio. Unito alla Societas, per ragioni uguali e contrarie, l’opera di Milo Rau, di Natacha Belova e Tita Iacobelli, tramite cui siamo entrate in contatto con la figura e grazie al cui lavoro abbiamo avuto il coraggio di misurarci con la costruzione e la manipolazione di una marionetta. I lavori visionari di Gisèle Vienne e la rivoluzione dalla figura, conosciuta proprio nell’ambito dell’edizione passata di Short Theatre. Alcune opere dei Rimini Protokoll e certamente i lavori di Joel Pommerat. Per Caterina, nella sua formazione in Toscana, è stato fondamentale l’incontro con il lavoro del Laboratorio9 e con l’opera di Rodrigo Garcìa. Oltre a ciò, soprattutto per ciò che riguarda l’ambito artigianale, il lavoro di Zaches Teatro. Riguardo le compagnie con base a Roma, Fabiana Iacozzilli ha segnato per me un momento di crescita e maturazione fondamentale.
Quali teatri frequentate solitamente a Roma?
Il Teatro Vascello – primo ad averci sostenute con un’opera che ha debuttato nel 2021, „Error Materia“. Ma anche India, Argentina e Torlonia, insieme a spazi quali la Pelanda, l’ex Mattatoio, Carrozzerie | n.o.t e Angelo Mai. Poi il TeatroBasilica, Il Teatro Biblioteca Quarticciolo e il Teatro di Tor Bella Monaca. Sicuramente ne mancano molti all’appello, Roma è immensa.
Qual è il vostro quartiere di riferimento in città?
È variabile; muta a seconda degli spazi che si aprono dinanzi a noi per ospitare i nostri lavori. Per un lungo periodo abbiamo provato presso un padiglione occupato nel complesso di Santa Maria della Pietà, a Monte Mario, purtroppo da poco sgomberato. Di recente abbiamo invece frequentato lo spazio di Carrozzerie | n.o.t, che ci ha accolte e permesso di portare a termine il nostro lavoro, così come lo stesso Teatro Vascello, che ha aperto i suoi spazi ai momenti iniziali della creazione, o anche il teatro di Villa Torlonia, che pure ci ha accolte per sostenere il processo creativo, immerse nel verde. Per quanto ci sia un’effettiva predominanza di Monteverde e dintorni, il quartiere viaggia insieme al nostro lavoro e non è mai lo stesso.
Uror, letteralmente “sono bruciato” in latino. Il vostro nome si riferisce a questo verbo? E se sì, come si identifica questa “brace”, questo “fiammeggiare”?
L’appello all’etimologia è generativo. A volte si può trovare nell’etimologia una risposta ben più eloquente di un tentativo goffo di definizione. Il termine „uror“ è in sé un temine ambiguo. Si configura come la forma passiva di uro, letteralmente “bruciare“, „incendiare”, da cui si deduce il significato “io sono arso”. Questo “essere arsi” è l’effetto di un fuoco che inonda le forme che lo tengono in vita. Il termine è paradossale, perché indica sia la sensazione di bruciore indotta dal ghiaccio che quella provocata dal sole accecante. Infine, nella sua forma riflessiva, indica il movimento del consumarsi per amore.
“Rosso” è il vostro prossimo spettacolo. C’è un fil rouge, concedetemi il gioco di parole, che lega il vostro nome a questo lavoro o è solo una coincidenza?
Vorremmo fosse un fil rouge, ma temiamo si tratti solo di una felice coincidenza!
Come vi siete preparate per "Rosso"? Da quali testi, fonti o suggestioni siete partite?
Per prepararci ad affrontare questa materia – che è mutata e variata inverosimilmente nel corso del tempo – siamo partite dallo studio della favola di „Cappuccetto Rosso“. Indagando dapprima le forme possibili della sua trasmissione orale, per arrivare alla prima versione scritta di Perrault del 1697. Siamo passate per i Fratelli Grimm, per Calvino, e ci siamo imbattute nell’incontro illuminante con Angela Carter, prima autrice a trattare apertamente la questione della femminilità che la favola stessa pone ne “La compagnia dei lupi”. Parallelamente abbiamo portato avanti lo studio dell’opera di Propp, “Morfologia della fiaba”, che ha arricchito il percorso di ri-scrittura. Menzioniamo anche il lavoro visivo e d’immagine di Gabriel Pacheco, autore della graphic novel “cappuccettorosso – primo sogno” dal tratto onirico e simbolista, che è stata una fonte d’immagine molto significativa. Lo studio della storia dell’arte e dell’arte figurativa in generale è per noi sostrato fondante ai fini della costruzione dell’immagine. Necessario citare anche come fonte di ispirazione massima, e per me imprescindibile, “Gli imperdonabili” di Cristina Campo.
Un dispositivo sempre aperto, estensibile, così definite UROR. Che contributi esterni e quali contaminazioni sono presenti in "Rosso"?
L’apertura estensibile si riferisce agli incontri fondamentali che hanno tracciato e tracceranno solchi nel nostro percorso. Nomino due incontri principiali: Diego Parlanti e Michele Eburnea, nostri primi colleghi nel lavoro „Error Materia – studio dal Pinocchio di Collodi“, di cui accennavamo in precedenza. Per questo progetto invece, si addensa al nostro fuoco Rebecca Sisti, compagna di strada della marionetta Rosso. Come il fuoco è amorfo, anche noi cerchiamo – in questo nome che ci racchiude – di assumere forme diverse, rifuggendo l’idea di appartenenza a una forma di teatro specifica, incontrando collaboratrici e collaboratori che di volta in volta abbracciano il percorso creativo e lo contaminano con il proprio pensiero. Non possiamo non menzionare Camilla Piccioni, che segue e illumina i nostri passi dagli inizi più inesperti, e Gilberto Bartoloni, ideatore dei disegni sonori e delle traiettorie acustiche fondamentali in ogni nostro lavoro. In questo senso UROR non ha nome e prende il nome di tutte e tutti. Cito anche la mano di Elena Incarnati, che nel disegno video progettato per questo lavoro è riuscita a condensare un pensiero connesso da tempo e dal tempo. Per quanto riguarda invece la possibilità concreta di una vita per „Rosso“, non possiamo che nominare Roberta Scaglione e tutte le PAV, che ci stanno accompagnando con fiducia nell’annoso mondo della vita concreta che ruota attorno a ogni spettacolo e che lo rende possibile alla visione del pubblico. Anche loro, in qualche modo, e forse anche a loro insaputa, sono per noi parte di UROR.
Affrontare le favole per riscoprire qualcosa di noi. Riportare la fiaba a una dimensione introspettiva oltre che narrativa. Cosa ha significato per voi il mondo della fiaba in passato? E cosa rappresenta ora?
L’interesse per la favola nasce dal suo radicamento nell’inconscio collettivo, nel suo essere una guida sepolta, introiettata in una nebbia che si dirama dagli anni dell’infanzia. Appartiene al popolo e ha matrice antica come il mondo. Il fascino della favola nasce dalla sua eternità, dal suo risiedere in noi da prima di noi, in quegli istanti confusi che precedono il sonno di molte bambine e bambini. In questo senso, la fiaba è introspettiva, perché è vicina alle ore del sogno, dell’abbandono. Misurarci con una favola significa misurarci con la semplice complessità di una struttura che si regge da millenni e che sostiene un patrimonio vastissimo. In particolare, „Cappuccetto Rosso“, che a un primo sforzo di memoria richiama a una dolce e ingenua bambina, a un lupo feroce e a una nonna malata, racchiude in sé una simbologia vastissima, che rimanda a tematiche complesse e terrifiche: l’incontro con l’altro, l’inganno e il camuffamento, la morte, il passaggio dall’infanzia all’età adulta per via dell’avvento delle prime mestruazioni, la paura e il coraggio dell’immersione nell’ignoto del bosco. La nostra Rosso (il nome della marionetta) si mette in cammino per indagare l’insondabile mistero della morte. Questo il tema che abbiamo voluto affrontare e che rappresenta ora più che mai un polo attrattivo d’indagine, proprio perché impossibile da sondare.
Che rapporto avete con Short Theatre, prima come fruitrici e ora come protagoniste?
Ho lavorato a Short Theatre come assistente volontaria nel 2021, perché desideravo indagare la struttura di un festival dal suo interno, dalle retrovie, inserendomi in quel meccanismo delicato ed efficace che, per schiudersi nei giorni del festival, con cura si muove da mesi e mesi prima. Grazie a questa esperienza ho potuto conoscere il meraviglioso cuore umano di Short, che si compone di lavoratrici e lavoratori incredibili, che danno vita a un festival poderoso. Piersandra di Matteo, di cui seguivo da tempo il lavoro, è stato l’incontro di folgore. La sua mente e il suo pensiero si configurano in direzione di una cura meticolosa, anche nei confronti delle giovani compagnie, il che non è scontato. L’incontro con lei è stato innanzitutto umano, mosso da affinità di pensiero e stima profonda. Grazie alla fiducia che Piersandra ha riposto in noi, possiamo portare alla luce il lavoro in uno dei panorami più variegati e prestigiosi della scena contemporanea romana, e questo per noi è un segno che non potremo dimenticare.
Quali spettacoli di questa edizione suggerireste?
La potenza di Short Theatre sta nel riuscire a portare a Roma opere inedite, almeno ai nostri occhi. All’interno del programma ci sono artiste e artisti per noi ancora ignoti e questo costituisce uno stimolo fondamentale per muoverci alla scoperta dei nuovi linguaggi della scena contemporanea. Rispetto a ciò che invece già intra-conosciamo, sicuramente l’opera di Castellucci, “Il Terzo Reich”, porta sulla scena, attraverso un dispositivo solo all’apparenza semplice, una violenza disarmante; ci chiediamo come sarà questa versione accompagnata al talento di Sofia Jernberg. Ci viene in mente anche il lavoro di Silvia Rampelli, che ci consegna a una radicalità e drasticità che credo raramente si riesca a incontrare sulla scena. Il prospetto è tale da non poter perdere nessun momento di incontro, alla luce di questo prisma che si apre di fronte a tutti i nostri sensi.