Non me l’aspettavo così la mostra di Frank Horvat. Il mercato museale ci ha abituato ad una grande offerta di miscellanee senz’anima di grandi maestri del B/N: non mi lamento, grazie al cielo la fotografia è diventata progettualità facile facile per gli addetti comunali alla cultura, per cui per carità gioiamo giulivi anche anche delle più compilatorie delle monografiche sui soliti Erwitt o Capa. Ma la mostra allestita a Palazzo Chiablese su Frank Horvat va oltre. L’occasione di selezionare personalmente le fornisce ad Horvat l’opportunità per ricomporre una sorta di autobiografia visiva, suddivisa in capitoli tematici. L’aura personale di Horvat non è ingombrante come quella di altri grandi maestri de l’age d’or del reportage, il cui carattere è stampato indelebilmente sugli scatti: il poeta Doisneau, Capa l’avventuriero, Ansel Adams il naturalista, Cartier-Bresson il filosofo eccetera. Horvat, invece, sparisce e lascia spazio alla luce, alle geometrie, alle genti: le immagini vivono vita propria, costituendo un corpus discontinuo e franto di pezzi di vita e lampi di ispirazione, ricomposto in allestimento come un rerum vulgarium frammenta con cui dare un senso non solo al proprio lavoro, ma alla visione di una vita intera. Insomma, c’è qualcosa di commovente e grandioso in questa mostra: è approfondita, offrendo una selezione davvero ampia del corpus di Horvat, è profonda, perché denso, sensibile ed eclettico è l’occhio dell’autore, ed è sorprendente, perché arricchita da 31 capolavori enormi della storia della fotografia, scelti dalla collezione personale di Horvat stesso. Insomma, non perdetela.