Se si parla di musica, è sempre facile scivolare fuori dal vocabolario proprio e formale. Quando parliamo di ciò che ascoltiamo, abbiamo sempre la possibilità di affrontare il tutto in modo retrospettivo, contestuale e analitico, mettendo in rilievo e dando spazio a ciò che il musicista, o i musicisti, hanno fatto o pensano di fare. Per varie ragioni, però, più spesso optiamo per tentativi che si sforzano di comunicare a parole non solo quello che la musica è di fatto, ma anche ciò che noi “siamo” o “diventiamo” quando la ascoltiamo.
Inutile dire che tale esperimento ci porta costantemente a conferire a dischi e artisti capacità che vanno al di là delle loro normali volontà e possibilità, descrivendoli tramite aggettivi che sfiorano sempre la metonimia e la metafora, causando imbarazzo da parte di coloro che magari, avendo una conoscenza approfondita della musica in senso classico, avrebbero sicuramente optato per approfondimenti decisamente più ortodossi.
Questa prima riflessione, oltre che essere un espediente per nutrire le mie personali e stupide narrative, è anche il centro su cui potrebbe ruotare l’esame della carriera artistica di un individuo come Jacques “Jac” Berrocal. Quello di Berrocal e del suo trio insieme a David Fenech e Vincent Epplay, in questo caso, è un sentiero che a più riprese ha incrociato altri ambiti più o meno artistici e più o meno accademici, almeno in senso ampio e che per essere descritto ha sempre bisogno di concetti non strettamente appartenenti alla musica.
Infatti “Ice Exposure”, ultima fatica del trio licenziata a gennaio da Blackest Ever Black, è un disco che è stato definito come un sequel ideale di “Antigravity”, mediato dal sette pollici “Why” (entrambi sempre per BEB). Oltre a essere stato inquadrato come un lavoro tra noir jazz, musica concreta, no-wave, sound poetry e art-rock, si è detto che sia un album spettrale in cui, ammantato di un’aura di delicato ed elegante romanticismo, regna un’atmosfera paranoica e infausta, che prende le tinte fosche di un sensibile psicodramma lanciato verso l’imprevedibile, fino all’esilarante e al surreale. Siamo bloccati in un immaginario tra il cinematografico, il musicale e il letterario.
A voler ben vedere, quella di Berrocal e del suo trio è una musica che per varie ragioni deborda fuori dal vasto seppur limitato universo del sonoro, per incontrarsi con l’immagine in movimento, la pagina stampata e un certo Zeitgeist che si rende pesantemente presente e palpabile.
Partendo da principio, o da uno dei principi, se preferite, Berrocal è una figura importante per tutto quello che è il panorama post ‘68 francese. Con alle spalle un nonno che faceva parte di una banda militare zuava, inizia a suonare la tromba durante il servizio di leva nazionale al confine tedesco, imparando da due commilitoni. Ascoltando alla radio, sulla francese Europe 1, da Ella Fitzgerald a Vince Taylor – fino a roba come “Lonely Woman” di Ornette Coleman e Don Cherry (presente in una versione del trio anche nell’ultimo disco per Blackest Ever Black) e “My Favourite Things” di John Coltrane – Berrocal entra in contatto con tutta la musica che lo influenzerà fino a oggi.
Nei Settanta arrivano poi i primi dischi: “Muziq Muzik”, del ‘73, con Dominic Coster e Roger Ferlet, viene registrato in una chiesa romanica, del cui riverbero il trio si innamora. Oltre a ciò, almeno indirettamente per stessa ammissione di Berrocal, il lavoro è influenzato da un certo immaginario religioso, espresso nell’arte e nell’architettura delle imponenti sinagoghe, moschee e cattedrali, anche se non meno dagli atti di liturgia e decoro, parte di un tipo di vissuto spirituale di matrice culturale delle sue “statue sanguinanti e oscure chiese”.
Ma la musica di questo fantastico primo album viene soprattutto dall’impatto di alcuni viaggi che Berrocal e Ferlet fecero in Tibet, Nepal, Giordania, Iraq e Siria, riportando indietro anche numerosi strumenti: “world music”, molto prima che il termine venisse utilizzato da Billboard nel ‘90.
In seguito per Berrocal ci sono varie cose: c’è il periodo esplosivo con Catalogue e album meravigliosi quali “Hotel Hotel” (Nato) e “La Nuit Est Au Courant” (In Situ) e collaborazioni con Nurse With Wound, Pierre Bastien, Ghédalia Tazartès, Lol Coxhill, Pascal Comelade and James Chance. Senza dimenticare ciò che farà come attore teatrale e cinematografico tra ‘80 e ‘90 (“Irena et les ombres” e “Confessions d’un Barjo”, per citarne un paio) e compositore di colonne sonore (“Votre enfant m’intéresse” e “Question d’identité”).
Più recentemente abbiamo l’attività con David Fenech (software developer per IRCAM e leader del collettivo “Peu Importe” a Grenoble) e Vincent Epplay (visual artist interessato alla composizione aleatoria, alla musica concreta e alla riappropriazione di materiale filmico d’altra epocal’attrazione per il fantasmatico, ciò che è haunted, e la sua influenza sul reale sono esplicite. Se da una parte la parola “fantome” era già presente in “Antigravity”, pronunciata proprio da Berrocal, Epplay ritiene che essa possa provenire, complice una certa scuola di matrice “hauntologica”, non solo dal tono delle composizioni, ma anche dal materiale video che gli artisti utilizzano nelle performance e che non scindono dall’esecuzione prettamente musicale.
Un secondo aspetto è quello delle suggestioni, impressioni di viaggio: l’interesse, sempre esplicito in “Antigravity”, ma presente anche in “Ice Exposure” (vedi pezzi come “Salta Girls” and “Lisiere Island”), è quello di ciò che rimane inconsciamente avvinghiato al nostro io, nascosto nelle nostre interiorità dopo i viaggi; atmosfere che assorbiamo e che riproduciamo in seguito a modo nostro. In questo senso il valore del viaggio è più quello della sua sopravvivenza in noi come memoria, più che un tentativo di riemulazione dello stesso in chiave orientalista.
Come possiamo quindi ben vedere, non è un caso che al trio Berrocal-Fenech-Epplay e le loro opere ci si riferisca utilizzando di volta in volta espressioni, concetti e metafore prese a prestito non solo dalla musica ma anche dalla cinematografia, dalla letteratura e, perché no, persino da pittura, filosofia e politica (dato l’incontro tra cultura post-sessantottina e impressionismi world non mi sembra poi così fuori luogo). Ma è pur vero che quella del trio, cercando di rimanere comunque con i piedi per terra, è essenzialmente musica. Certo, una musica che evoca città desolate e notti fredde, occhiali da sole scuri, pellicole in bianco e nero, posti solitari in località esotiche degne della legione straniera e battiti d’ali di animali notturni in lontananza, ma pur sempre musica.
Potrete gustare questa full immersion al sapore di sigarette, Billy Wilder e Henry Miller in un luogo che sicuramente gli si addice come Macao. In line up assieme al trio Heith – fondatore di Haunter Records, con le sue introspezioni post club e i dreamscape policromi – e i labirinti mentali di matrice techno-industrial di Monica Hits The Ground. L’unione di forze fisiche, soniche e psichiche sotto il quale influsso è stato possibile materializzare il trio e i suoi fantasmi, sono quelle di Vasopressin, etichetta Milanese dedita all’esplorazione voyeuristica di tutto ciò che di più poetico c’è nella musica estrema e i suoi sfocati confini.
Written by Luigi Monteanni