Non è elettronica. Non è soul. Il segreto di James Blake è nel riuscire a sintetizzare emozioni, beat e melodie in maniera libera e organica, come se non fosse un parto creativo, ma qualcosa di naturale e necessario. Come respirare o amare. Un panta rhei musicale che ha iniziato a prendere forma e consapevolezza con “CMYK” (2010), passando poi attraverso una cover finita nell’immaginario collettivo – “Limit To Your Love” di Feist – collaborazioni varie e quasi sempre vincenti, da Bon Iver a Beyoncé. Ma sopratutto gli album: l’esordio omonimo (2011) che ha fatto gridare al miracolo; “Overgrown” (2013), che il miracolo l’ha trasformato in una solida e scintillante realtà; il fatidico difficile terzo album “The Colour In Anything” (2016), che più che ostico si è rivelato prolisso e dispersivo.
Per arrivare al nuovo “Assume Form”, un titolo dichiarazione d’intenti che in realtà vuole essere un depistaggio, una provocazione per un disco davvero ispirato e aperto al mondo come non mai. Un nuovo standard di qualità per il suo intimismo cosmico. Blake è uno degli artisti cardine dell’ultimo decennio, ha avuto la visione e il merito di costruire avveniristici ponti invisibili tra diversi mondi musicali, ri-mappando di continuo il proprio percorso e di conseguenza lo status del suono contemporaneo.
Aspetto che dal vivo trova la sua massima espressione dinamico-emotiva grazie all’ormai collaudata formazione a tre. Per la prima volta live a Roma, della serie meglio tardi che mai. Ad ospitarlo una location perfetta – per fascino, storia e gioco di contrasti – che in passato ha saputo rendere mistico perfino un concerto degli affabili Kings of Convenience. Non credo occorra aggiungere altro se non “Don’t Miss It”, citando lo stesso Blake.
Written by Matteo Quinzi