“This is a reproduction of a man published before 1923”. Non rimanda al romanzo di Virginia Woolf l’opera Orlando (2015-2020) che riceve il pubblico all’entrata e lo “saluta” nel finale della mostra di Trisha Baga all’Hangar Bicocca. Si tratta di una parte della prefazione del libro Half Mile Down (1926) del naturalista e scienziato William Beebe. Ma non è stato un “uomo” a essere pubblicato, ma un “libro” naturalmente. Baga ha infatti sostituito le due parole. In questo incipit di benvenuto alla grande e prima mostra in un luogo museale istituzionale italiano, l’artista americana (Venice, Florida, 1985), mette già in chiaro alcune regole – o non regole – per fruire il percorso della mostra che è denso, complesso e strutturato in base a stratificazioni di pensieri e azioni del suo lavoro artistico.
Se l’immaginario è inteso come “la sfera dell’immaginazione” secondo l’enciclopedia Treccani, allora questo termine si ricollega a una concezione di immaginario collettivo che si riconosce in valori tradizionali o culturali comuni. L’immaginario è, dunque, lo specchio della collettività, che riceve questa eredità di immagini senza produrne di nuove. “L’immaginifico, al contrario, viene creato: porta con sé il significato di «creatore d’immagini». L’immaginifico scaturisce dunque dal singolo, dalla sua forza creativa che lo porta, a volte, a superare il confine del “possibile” e a spingersi oltre”; (conversazione con Ettore Favini al Museo del ‘900, dicembre 2019). Il lavoro di Trisha Baga è basato sul valore immaginifico dell’artista, caoticamente sviscerato attraverso i più diversi mezzi – ironiche narrazioni cinematografiche o televisive, pittura, scultura, fotografia, suono, materiali d’archivio, oggetti recuperati, performance, proiezioni 3D (le prime nate in maniera affascinante e artigianale) – a creare un ambiente multisensoriale per il fruitore che deve unire visivamente pezzo per pezzo, per poi uscirne cogliendone il senso ludico, sociale e spesso cinicamente politico.
Se l’opera Orlando – messa in mostra per la prima volta presso la galleria newyorchese Greene Naftali nel 2015 – da’ il benvenuto alla mostra, mettendo subito in chiaro quello spiazzamento dovuto al cambiamento di senso in base a una semplice sostituzione di parole, il resto del percorso non è che a salire. Si passa così “al “corridoio geologico dell’evoluzione” dei manufatti della civiltà, come viene definito da Trisha Baga” dove sono raccolte più di 30 sculture in ceramica realizzata dall’artista dal 2015, raffiguranti personaggi e soggetti tra i più disparati: da Ru Paul, ai cagnetti-sfinge. Già dal display dell’allestimento è chiara l’intenzione della Baga di focalizzarsi su un percorso museale, non randomico e impazzito come nei suoi micro-mondi da studio, ma versatile e fruibile, poiché non è semplice entrare in queste creazioni in cui realtà e sogno hanno davvero dei confini sottili, quasi impercettibili. L’artista ha sempre attuato una totale libertà di espressione. A Milano si era già visto nella mostra “Gravity” da Peep-Hole nel 2013: la prima personale non in galleria dell’artista americana in Italia. Qui il tema era sintetico, focalizzato attorno alla tematica fantascientifica di rimando al film di Cuaron, ma mettendo in scena narrazioni fluide dove il collante era il video 3D, a tratti apparentemente non-sense. Trisha Baga ha messo in relazione Picasso con i giorni nostri, facendolo guardare Sex & the City per poi passare, con nonchalance, ad altri temi. Perché la Baga non seleziona un tema con occhio critico, ma semplicemente lo riporta senza giudizio, come un pezzo di qualcos’altro. Volti, amici, racconti, suoni, performance, episodi della sua vita, oggetti recuperati, un cartoncino di McDonald … sono tutti materiali che creano un sistema, un codice, un linguaggio.
Sembra davvero che Trisha Baga se ne freghi, predisponendo in maniera stratificata e arzigogolata, quasi pasticciona, delle realtà “pop” con quelle immaginate (o immaginarie). Caso e intenzionalità sono interconnessi, necessari e junghianamente concatenati l’uno all’altra. Le narrazioni e i soggetti delle opere più note selezionate dalle curatrici Aspesi e Griccioli e messe in mostra in Hangar – There is no “I” in Trisha (2005-2007/2020), 1620 (2020), realizzata ad hoc per la mostra, o la serie Seed Paintings (2017), ad esempio – non sono referenziali, ma, appunto, frammenti che creano un unicuum per fare svegliare quell’occhio e quell’orecchio. Anzi, due occhi e un orecchio.
Written by Rossella Farinotti