“Si – può – fare!!”
La celebre battuta del film cult del 1974 di Mel Brooks Frankenstein Junior è probabilmente ciò che all’inizio della fase 2 è risuonato con sollievo e rinnovato entusiasmo nelle teste di moltissimi direttori di musei, fondazioni, spazi no-profit e galleristi. Fra questi anche Alberta Pane, che ha deciso di riaprire dopo il lockdown con una mostra emblematicamente dedicata all’iconico personaggio (ma siamo veramente sicuri lo sia?), creato da Mary Shelley. Share Happiness non è solo un progetto espositivo, ma una vera e propria dimostrazione di impegno, non esclusivamente artistico, di certo culturale, forse anche un po’ politico.
Omaggio a Frankenstein coinvolge gli artisti di altre sette gallerie veneziane, a cui è stato chiesto di selezionare e presentare una o due opere, in questa prima tappa di una trilogia di appuntamenti che nel 2020-21 vedrà coinvolte in successione gallerie italiane e internazionali. Una risposta chiara che individua nel “far rete” una possibile chiave per la ripartenza, uno spunto a rinnovare le logiche individualiste che hanno dominato il sistema dell’arte – e in particolare il mercato – negli ultimi decenni. Non meno rilevante della struttura del progetto è il tema. Frankenstein riassume il problema del rapporto fra creatore e creatura – una cui variante è la relazione fra artista e opera e, a ben vedere, pubblico –, fra scienza e morale, fra corpo e anima. Affermare che Frankenstein è solo un morto che cammina (e ogni tanto stentatamente parla) significherebbe descriverlo senza comprendere o esaurire la sua natura. Risultato di una superbia tecnologica, Frankenstein è il connubio perfetto fra zombie e macchina, è il campione dell’alienazione. Essendo un corpo che si muove e agisce ma perlopiù insensibile ad argomenti razionali e sentimenti morali, il personaggio che non è una persona mette il lettore o lo spettatore di fronte alle sue più recondite, inconfessabili paure.
Frankenstein – un po’ come il virus – ci ricorda che siamo in prima e ultima battuta un corpo e che, non potendo prescindere da esso, siamo effimeri, mortali. In un diabolico gioco di specchi il suo fare ripetitivo, meccanico, vuoto parodia i nostri comportamenti conformistici, immotivati, a-critici. Stando ai bordi di una società nella quale cerca un impossibile inserimento finisce con lo smascherarne l’aspetto più grottesco. Nell’ultimo secolo mai come ora i corpi, l’interazione fra essi, le loro caratteristiche biologiche che inaspettatamente tornano ad avere devastanti conseguenze economiche, politiche, sociali e culturali, si sono con prepotenza messi al centro della riflessione e del dibattito. Chi l’avrebbe mai detto che dopo oltre duecento anni la creatura di Mary Shelley, che alla morte del “padre”, in un processo inverso all’anti-lockdown, rinuncia definitivamente alla socialità ritirandosi in una quarantena autoindotta nei mari del Nord, sarebbe diventata il simbolo, il profeta inatteso e lo spauracchio dei nostri tempi.
Apertura: Sabato, 13 giugno 2020, dalle ore 12 alle ore 20.
RSVP a martina@albertapane.com o al numero 041 5648481.
Written by Irene Bagnara