In fondo al palco del Teatro i, vedo una porticina che mi mostra l’interno di una chiesa, mi immergo in un immaginario di sacro e profano dove la voice over dell’attore mi trascina verso l’inizio dello spettacolo.
Nella scena quasi vuota due attori recitano due monologhi distinti. Ripetono sempre gli stessi gesti, niente inizia per davvero e presto arriva la monotonia. Il gioco del teatro si perde in manierismi sonori dettati da microfoni e riverberi. Tutto sembra scollegato ma senza padronanza, e io vago nella non comprensione del testo che in questo caso non gioca a favore dello spettatore.
Tutto il teatro è necessario, ma bisogna saperlo rendere contemporaneo e questa messa in scena, Nella solitudine dei campi di cotone, purtroppo, resta nel passato – tranne che per un breve momento dove i due attori si spogliano del loro personaggio e ballano in scena. Sinceri. La gioia del cambiamento è breve perché dopo qualche minuto tutto torna come prima, i due monologhi si inseguono ancora e ancora fino alla conclusione che finalmente arriva.
E quella porticina iniziale? Niente, è stata chiusa e non porta da nessuna parte.
Written by Francesca Rigato