Dal 25 ottobre, il Museo del Design in Triennale ha inaugurato un nuovo allestimento curato da Marco Sammicheli, che ha voluto spostare l’attenzione sulla moda e sul ruolo identitario che essa ricopre da sempre nel nostro quotidiano. E proprio come lo stile e le tendenze sono caratterizzati dal costante movimento che equilibra e connette il passato con il presente, nella nuova esposizione in via Alemagna si spostano e collocano duecento oggetti – alcuni dei quali entrati di recente nella collezione di Triennale – e una selezione di trenta tra abiti e accessori firmati da nomi che hanno segnato la storia del settore, da Azzedine Alaïa a Gianfranco Ferré, da Antonio Marras a Martin Margiela, da Moschino a Giorgio Armani. Il viaggio tra le forme e i materiali di queste creazioni si conclude nella Design Platform, lo spazio dedicato a mostre temporanee di designer contemporanei dove attualmente si trova una mostra sulla fashion designer Monica Bolzoni.
Ogni cosa corre tra la struttura di pali innocenti che scandiscono l’ordine e il caos di ogni cosa, come nel vagare sornione che Fellini ci racconta e che qui vi dedichiamo, prima di lasciarvi con l’unica didascalia mancante in mostra.
La didascalia mancante: i tubi innocenti
Ferdinando Innocenti è stato un imprenditore italiano la cui fortunata carriera ha posto le sue fondamenta sulle macerie della Grande Guerra. Dal 1915, infatti, pezzi di ferro lasciati incustoditi o partite di rottami a basso prezzo sono diventati merce preziosa. Così, con il fratello Rosario, ha fondato pochi anni dopo la ditta “F.lli Innocenti”, per commerciare prodotti siderurgici, specializzandosi poi nella vendita e noleggio di tubi d’acciaio. Non contento, Ferdinando ha iniziato a realizzare oggetti assemblati con spezzoni di tubi, facendoli saldare o giuntare ai fabbri suoi dipendenti: balaustre, lampioni, grondaie, impianti d’irrigazione. Un giorno, sfogliando un fascicolo di poche pagine trovato in ufficio, ha visto un nuovo morsetto per fissare pali da ponteggio. Era lo Scaffixer, brevettato dall’ingegnere Daniel Palmer Jones, incaricato con la sua azienda di ricostruire Buckingham Palace. E una buona idea che può essere migliorata è sempre un ottimo punto di partenza: la visione di quel giunto ha acceso l’astuzia di Fernando, che ne brevetta col suo cognome la versione che tuttora vediamo nella maggior parte degli allestimenti museali di design.
Ah no, mi sono sbagliata: la versione che tuttora vediamo nella maggior parte dei ponteggi edilizi.
Quindi, effettivamente, quelli che tutte e tutti chiamiamo tubi innocenti, in verità, non esistono perché sono prodotti in Italia su brevetto tedesco Mannesmann. Gli innocenti sono i giunti. E rimangono in silenzio.
Ma perchè questi elementi seducono così tanto i progettisti?
Forse perché sono la trasposizione reale della magica parola modularità. Forse perché sono strutture pratiche e discretamente leggere, che si montano e smontano rapidamente, adattabili agli spazi e perciò ideali per mostre che cambiano frequentemente o per installazioni nomadi. Forse perché sono resistenti e riutilizzabili, vantando l’etichetta della sostenibilità e garantendo soluzioni economiche che uniscono sicurezza e stile essenziale.
Forse perché sono strutture che accompagnano l’essere umano dagli albori della sua intelligenza.
Alcune teorie ci raccontano che il loro uso risale all’era preistorica: nelle grotte di Lascaux in Francia (proprio quelle che vedevamo nei libri di storia delle scuole elementari), i dipinti rupestri di 17.000 anni fa si trovano ad altezze difficili da raggiungere anche sulle punte di piedi. I fori presenti sulle pareti delle caverne fanno pensare che i popoli paleolitici usassero rudimentali strutture di supporto per raggiungere quei punti.
Ripercorrendo il corso del tempo e il globo terrestre, le conoscenze indigene dei costruttori hanno sempre permesso di sviluppare tecniche di impalcatura adattate ai materiali disponibili — solitamente legno, corde e talvolta pietre o mattoni di fango usati come contrappesi o supporti. Specialmente nelle culture non occidentali, venivano e vengono elaborate strutture che ci dimostrano che simili metodi di costruzione sopravvivono alla storia grazie al rispetto per l’ambiente ospitante, all’attenzione alle risorse, alle esigenze architettoniche specifiche. Un esempio, tra tanti che scopro sfogliando lo splendido libro di ricerca Lo-Tek. Design by Radical Indigenism di Julia Watson, è l’uso, da parte della popolazione Enawenê-nawê nella regione centro-occidentale del Mato Grosso in Brasile, di dighe per la pesca tecnicamente sofisticate e strutturate a più livelli — proprio come impalcature, chiamate waitiwina — che si integrano armonicamente con l’ambiente e le pratiche della comunità. Queste dighe temporanee e porose rappresentano un modello di infrastruttura ecologicamente consapevole, in netto contrasto con le moderne e imponenti dighe idroelettriche che minacciano l’esistenza stessa della comunità. Costruiti in modo collaborativo, i frangiflutti waitiwina utilizzano materiali naturali come legno, corteccia e liane, creando strutture reticolari che attraversano i fiumi per catturare i pesci durante la loro migrazione verso valle. Un altro aspetto importante è la realizzazione ritualistica: alla presenza di tutta la comunità, gli uomini invocano gli spiriti con canti e utilizzano foglie profumate sulle trappole per attirare i pesci, dimostrando così un approccio in cui esseri umani e natura sono simbiotici.
Fresca di lettura, erano queste le immagini che nella mia mente si sovrapponevano alla realtà mentre il 24 ottobre entravo nella mostra Forme mobili. È il nuovo percorso espositivo del Museo del Design Italiano in Triennale, che è riuscito a raccogliere più di duecento manufatti tra acquisizioni, prestiti, approfondimenti. Gli oggetti, installati su strutture di tubi innocenti che occupano tutta la famosa “curva” dello spazio, sono organizzati in dieci sezioni tematiche e rappresentano temi e elementi costanti della storia del design italiano: dalle regole legate al corpo e allo spazio, alla cultura architettonica e degli interni impregnata di saperi artigiani che evidenziano il dialogo tra manifattura e progetto. Non vengono ovviamente dimenticati il pensiero radicale e la prospettiva degli anticonformisti, che suscitano sempre un sorriso quando gli si cammina accanto.
E con la passione che ho per gli interrogativi, vagabondando per la mostra e guardando i dispositivi del passato, mi chiedo tutt’oggi che cosa di questa tradizione possiamo conservare, modificare e attualizzare perché sopravviva e contribuisca al restauro del nostro presente.
Written by Emma Bartolini