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Balay

ZERO here: sente il rumore di Manila.

Categories Bars
quartiere Porta-Venezia

Ray mi mostra il menù del soft opening

Contacts

Balay Via Maiocchi, 26
Milano

Time

  • lunedi chiuso
  • martedi 06:00 PM–12:00 AM
  • mercoledi 06:00 PM–12:00 AM
  • giovedi 06:00 PM–12:00 AM
  • venerdi 06:00 PM–12:00 AM
  • sabato 06:00 PM–12:00 AM
  • domenica chiuso

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Entro in Balay e Ray mi accoglie come se mi stesse aspettando da giorni. Non un sorriso da ristoratore, più quello di chi ti fa entrare a casa sua dopo un viaggio lungo. Balay, in tagalog, significa proprio questo: casa. E prima ancora che io mi sieda, Ray mi racconta cosa vuol dire per lui. Mi indica le mensole: sopra ci sono foto di famiglia, un ninnolo trovato in un mercato di Manila, un oggetto che non capisco che si porta dietro da bambino. Ogni cosa è un frammento che ha deciso di spostare dalla sua vita privata al locale, come una vetrina voyeuristica di sé stesso.

La cucina, dice, non è un compromesso. Ha lavorato sotto Tokuyoshi, imparando velocità e precisione, ma qui ha scelto un’altra strada: piatti diretti, che non chiedono permesso e non hanno bisogno di didascalie lunghe. Il primo boccone che arriva al tavolo è un toast di gamberi al sesamo, fritto, servito con banana ketchup. Sembra street food ma non lo è: è memoria. Un sapore dolce, pungente, grasso, che porta con sé più cose di quante io riesca a nominare. Mangiarlo è come spiare dentro un passato che non è mio, ma che mi viene offerto come fosse un album di foto sfogliato sul tavolo di cucina.

Mi passa una birra: etichetta bianca, familiare per chiunque sia cresciuto nelle Filippine. Mi racconta che quella birra, diffusissima, porta addosso la traccia della colonizzazione spagnola. E in effetti basta guardarla per capire che non è un dettaglio da packaging: è un pezzo di storia liquido, servito in bottiglia, che a Manila si beve senza pensarci troppo. Qui, invece, diventa racconto.

L’idea di casa che Ray porta dentro non è un perimetro, non è un indirizzo preciso. È un gesto: aprire la porta, farti sedere, servirti un toast.

Il locale è piccolo, non ha la pretesa di essere scenografico, ma è costruito per restituire intimità. Le mensole non sono arredamento: sono un modo per Ray di far spazio ai suoi viaggi, alle cose che ha portato indietro, all’idea che anche un wine bar possa essere un archivio personale. Camminando dentro Balay hai la sensazione di entrare in un diario aperto.

E poi c’è il bagno. Il bagno è un’esperienza a parte. Appena entro, alzo lo sguardo e vedo i cartoni animati proiettati sul soffitto. Vecchie animazioni, tra cui Picchiarello, che mi tiene compagnia mentre urino. È assurdo eppure funziona: un dettaglio che abbatte qualsiasi distanza, che ti ricorda che sei dentro un luogo fatto per essere vissuto, non solo consumato. Non succede mai di fermarti in un bagno a ridere da solo guardando un cartone, eppure qui è successo.

Balay non prova a essere esotico, non ha bisogno di esotismi. Non ti racconta la cucina filippina come se fosse un manuale o un corso accelerato. Te la mette davanti, calda, fritta, dolce e acida, lasciando che siano i piatti a spiegare da soli da dove arrivano. E in mezzo ci mette la storia di Ray, i suoi oggetti, i suoi ricordi.

Uscendo, ho la sensazione che Balay non sia un “nuovo locale a Milano” come ce ne sono altri cento, ma un luogo che rifiuta la categoria. È un pezzo di Manila trapiantato in via milanese, con il ritmo di chi non vuole spiegarsi troppo, ma solo farti sedere a tavola e dirti: mangia, guarda, ascolta. L’idea di casa che Ray porta dentro non è un perimetro, non è un indirizzo preciso. È un gesto: aprire la porta, farti sedere, servirti un toast di gamberi e una birra che racconta la colonizzazione spagnola. È decidere che anche a Milano puoi sentirti dentro una casa che non è tua, ma che per un’ora ti accoglie come se lo fosse.