Puntata #2
DIVUS – “2” (Boring Machines)
«Sembra di stare sull’astronave di Alien» dicevamo un paio di anni fa, quando lo shuttle Divus aveva appena intrapreso la sua missione. Il viaggio di una delle accoppiate avant più azzeccate degli ultimi anni, Luciano Lamanna – agitatore delle notti techno della capitale e molto altro – ai sintetizzatori modulari e Luca T. Mai, infernale soffiatore di sassofoni per ZU e Mombu, prosegue lungo un discorso narrativo sempre più solido e avventuroso. Sempre più immerso nel buio spaziale ignoto e profondo, affrontando insidie, driblando asteroidi, abbandonandosi a lunghe cavalcate notturne. Il sax è instancabile bordone/motore propulsivo e i synth micidiale arma da fuoco, in un disco che piacerà agli amanti dell’isolamento mai forzato, perfetto per essere ascoltato nel buio della propria stanza, fantasticando su nuovi scenari metropolitani possibili. Odissea nello spazio in cui i riferimenti spazio-tempo non possono che saltare, assimilando distopie futuriste all’essenzialità delle origini, rivelate da un artwork altamente psichico.
SIGN LIBRA – “Sea to Sea” (RVNG Intl.)
L’ascolto integrale di “Sea to Sea” è il sottofondo adatto per una full immersion nell’archivio a tema abissi di National Geographic. I mari raccontati dalla compositrice lettone Agata Melnikova, però, non sono letteralmente quelli terrestri e fatti di acqua ma una trasposizione metaforica dei mari lunari. Mistero, misticismo, auree celestiali e, manco a dirlo, una gran voglia di fuga dal Pianeta Terra – che però ha molto più a che fare col sogno, con un pop acquatico e ipnagogico, piuttosto che con la fantascienza e tutto il resto. Sintetizzatori e vocalizzi eterei a metà tra Sakamoto, new age e Kaitlyn Aurelia Smith, gli strumenti per un’armonia naturalista che a tratti richiama anche l’Oriente. Equilibrio, eleganza, giocosità: l’astrologo si giocherebbe tutto su una luna in Bilancia.
FERA – “Stupidamutaforma” (Maple Death Records)
Più per chiarirne la sostanza che per pura esterofilia (ché lo sappiamo, in Italia di etichette indipendenti che spaccano ce ne sono), ecco il disco che non t’aspetti che avremmo potuto intercettare nel catalogo Kranky (ma pure prima Warp). E forse pure uno dei più adatti per sonorizzare l’isolamento – reale o percepito – di questi giorni, trovando un buon equilibrio tra stimoli sensoriali e cerebrali, decompressione e dinamismo circolare, spiritualità e musica per il corpo, suoni liquidi, pulsazioni terrene ed errori digitali. Fera è Andrea De Franco, musicista pugliese con base a Bologna ma ancor prima illustratore, che ha letteralmente composto, assemblato “Stupidamutaforma” nell’arco di dieci anni, trovando nell’assoluta trasversalità di Maple Death la casa giusta per dare luce a un disco notevole ai confini tra ambient, esplorazioni cosmiche e IDM. Elettronica perlopiù modulare, luminescente, a tratti malinconica, talvolta inaspettatamente fisica e colma di tensione, sull’asse Boards of Canada/Basinski. Ascolto consigliatissimo per esplorare labirinti onirici ma pure scuotere membra assopite.
LEE RANALDO & RAÜl REFREE – “Names of North End Women” (MUTE)
Lo sappiamo tutti che, alla fine dei conti, il più imprevedibile e sperimentale dei Sonic Youth, per vocazione, è Lee Ranaldo. Avventuroso anche quando non si tratta di noise, di tirare fuori suoni pazzi da chitarra e archetto. Stavolta il chitarrista usa moderatamente il suo strumento principale per esplorare le potenzialità dei campionamenti, delle manipolazioni di suoni analogici prodotti con un registratore, assieme all’uso di vibrafono, marimba, tecnologie moderne e vintage. Chiaroscuri e mistero, folk e rituale, musica concreta, poesia e ritmi asimmetrici sono le coordinate principali in termini di suoni e atmosfere per un album tutto centrato sulla parola e sulla sperimentazione, ispirato da un quartiere di Manitoba, dove tutte le strade portano nomi propri di donna (come parlassero di storie e donne universali). Assieme a Lee il sodale Raül Refree, musicista spagnolo che ha recentemente rinnovato la tradizione del flamenco (lavorando con Rosalía) e già con lui nel precedente “Electric Trim”. Lo aspettiamo (fiduciosamente) in Italia nella seconda metà di aprile.
STEVE PEPE – “2020” (Macadam Mambo)
Nella giungla afosa di Manuel Cascone fa decisamente troppo caldo per il virus e il laboratorio dove si analizzano le contaminazioni è votato agli studi ritmici e alle ibridazioni benefiche più che alle influenze e paranoie virali. Il 2020 di Steve Pepe, quindi, piacerà a chi non si abbandona agli scenari post apocalittici ma, piuttosto, continua a fantasticare di orizzonti esotici, mondi lontani e rigogliosi dove pur nelle acque torbide gorgoglia nuova vita, nelle forme di dub, elettronica psichedelica, groove tribali, mentali, sinuosi e liberatori. Disco uscito a inizio anno che, nella sua copiosa e generosa interezza, farà sentire meno la mancanza dei numerosi set che il musicista romano diffonde nella Capitale sotto forme sempre nuove e mutanti.
HOLDEN & ZIMPEL – “Long Weekend EP” (Border Community)
Non poteva che essere a firma James Holden il disco presa bene di questo secondo giro di nuove uscite. Lo anticipa il titolo dell’EP, ma a dare sostanza all’effetto benefico delle quattro tracce è la libertà e ariosità compositiva di quello che ormai è chiaro sia il portabandiera degli esploratori cosmici dell’elettronica contemporanea. Ancora più distante dalla forma canzone che con “The Animal Spirits”, “Long Weekend” è un disco di stratificazioni modulari ipnotiche e colorate scaldate dal timbro free del clarinetto del polacco Waclaw Zimpel e, su due tracce, arricchite dalla chitarra dell’altro Zimpel, Jakub. L’improvvisazione jazz incontra l’elettronica interstellare e la reitera attraverso pattern minimalisti, fluidi e circolari. Quattro tracce per un totale di mezz’ora che potreste pure mandare in loop da mercoledì a domenica (facendo pausa il venerdì).
PUFULETI – “Catarsi Aiwa Maxibon” (Legno & La Tempesta Dischi)
Nel sottobosco romano il nome di Pufuleti gira ormai da un po’, e questo soprattutto grazie al lavoro di ricerca del collettivo Misto Mame, cresciuto tra San Lorenzo e Fanfulla e particolarmente attento alle nuove contaminazioni tra rap ed elettronica sperimentale. Per chi li segue, questa è per certi versi solo l’uscita formale e ben confezionata del secondo album “Catarsi Aiwa Maxibon”, pubblicato già a settembre in versione digitale super punk e underground con una zine a cura del collettivo, e oggi libera di circolare in maniera relativamente “upperground” grazie alla coproduzione di Legno e La Tempesta e ai riscontri del precedente “Tumbulata”. I dati anagrafici ormai li saprete: siciliano di Naro – un paesino in provincia di Agrigento – poi finito in Germania nei boschi vicino Francoforte, Giuseppe Licata è praticamente tutto quello che vorremmo oggi dal rap: contaminazione, originalità, beat vecchia scuola ma esplorazioni linguistiche nuove e visionarie, ironia al servizio dell’analisi sociologica dei nostri tempi. Hip-hop smagnetizzato cupo e psichedelico, beat e rime intrappolate in un’autobiografia in VHS mai esistita, roba familiare solo agli amanti di gente come Earl Sweatshirt, Madlib o Knxwledge. Aspettiamo il recupero delle date live, previste per fine marzo, per godere del flusso di coscienza sciolto nell’acido dello stretto di Messina.
OCH – “II” (Rocket Recordings)
Viaggiare senza uscire di casa. Prima che ci faccia una playlist posticcia Spotify, noi vi consigliamo di farvi un giro sul Bandcamp di Rocket Recordings, ad esempio, e spingere play su uno dei numerosi viaggioni psichedelici in prima classe che la label inglese propone. Nuova creatura cosmica proveniente da quella terra tradizionalmente psych-prog che è stata la Svezia tra Sessanta e Settanta, gli Och fanno parte del giro Hills/Flowers Must Die e quindi appartengono anche all’ideale linea di discendenza virtuosa dei padri Träd Gräs Och Stenar. Esordio omonimo nella forma di monolite space rock ad alto voltaggio, decollo altamente elettrificato, orbite circolari ampiamente reiterate, propulsori sintetici in supporto, atterraggio previsto in località segreta a metà tra Monaco e Forst.
ALFIO ANTICO – Trema la Terra (Ala Bianca)
Il futuro era ieri. Il Tamburo di Alfio Antico torna a farsi voce narrante di storie arcaiche senza tempo, racconti universali di un passato lontano che si scontrano con la contemporaneità, non solo nella pratica sonora ma anche in quella ciclicità perpetua e piena di contrasti in cui l’uomo si confronta con la natura. Il tamburellista di Lentini è maestro di vita ancora prima che maestro di pelli, e la credibilità di questo percorso che unisce la tradizione popolare siciliana e pastorale con l’elettronica, le tammurriate e le tarantelle con accenni noise e narrazioni ombrose alla Tom Waits trova credibilità in tutta la strada che Antico ha percorso prima di arrivare a noi, attingendo a un paniere di esperienze, tecniche e visioni vissute in prima persona, solide, concrete e pertanto potentissime. “Trema la Terra”, titolo che non sarebbe potuto essere più attuale, per un artista letteralmente magnetico sul palco, che vedremmo bene assieme a (più o meno) giovani leve come Pufuleti e Mai Mai Mai (in attesa che i live saltati a marzo vengano presto recuperati).
Contenuto pubblicato su ZeroMilano - 2020-03-01