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Che cosa ce ne facciamo di tutti questi nuovi wine bar?

Sintomi, mode e svolte culturali di una città nascono spesso al bancone di un bar. Abbiamo fatto una rassegna della tendenza ai locali vinicoli per far chiarezza su cosa spinga tutte e tutti all’amore per il vino naturale

Written by Marco Gardenale il 10 June 2024

Bar Nico, ph. Alessandro Saletta, DSL Studio

Parafrasando un leggendario rapper milanese, vivo a Milano da quando Dio mi ha sputato quaggiù. Troppo giovane per aver assistito in prima persona all’epopea della Milano da Bere, sufficientemente vecchio, invece, per aver vissuto i templi e i rituali del bere milanese degli ultimi 20 anni: lo spasso del fu “happy hour” (termine grazie a dio finito in disuso, a cui preferiamo, come vuole il suo leggendario inventore Vinicio Valdo, aperitivo alla milanese) in Piazza Vetra all’Hora Feliz o all’Yguana, in quella che è bene ricordare come la golden age delle colonne di San Lorenzo, fenomeno da botellón nostrano. Erano gli anni dove la cultura del bere era abitata da leggende viventi come, oltre al già citato Vinicio, il grande Peppuccio o il Piero Rattazzo – baristi, più che barman – e il mitico Mirko Stocchetto del Bar Basso, simbolo immortale del bere a Milano. Arriviamo poi al 2012, anno di soglia alle porte dell’Expo, dove nasce il cocktail bar à la Elita, che fu per certi aspetti un avvenimento inedito: mai si erano viste a Milano duemila persone riversarsi per strada per l’apertura di un bar. Per diversi anni l’Elita è stato l’epicentro di un modo di vivere la città e pensare il bere, specialmente attraverso la musica. Come saprete, tra i fondatori si contano Alioscia Bisceglia e Dino Lupelli, da lì nasce un festival omonimo musicale, da quelle persone altri festival e format che tuttora si svolgono in città. Pareva che la musica fosse il motore dei bar e delle sue frequentazioni (un altro era lo Zog, sempre in zona Navigli). D’altronde il bere è quello spazio che coglie tutti, e in quegli anni era indubbiamente l’epoca dei musicisti, delle rockstar, dei progettisti del suono.

Finito questo breve atlante-nostalgia, arriviamo alla domanda. Se guardando ai bar possiamo registrare una temperatura umana della città in un dato momento, tra mode, vezzi e sintomi, cos’è che vedremmo oggi?

Qualcosa è effettivamente cambiato nel modo in cui viviamo il bere, specie vino, negli ultimi anni.

Partiamo dunque dal 2021, anno per certi aspetti scintillante per la nouvelle vague del vino naturale. Dopo la popolarizzazione del vino torbido, aranciato, biodinamico, acido o ceruleo, dopo la secolarizzazione di luoghi come Enoteca Naturale o Champagne Socialist, le piccole enoteche iniziano a espandersi a macchia di leopardo, con una tendenza quasi un po’ parigina, fatta di contaminazioni tra vino, piccola cucina – e piccoli piatti – di qualità e piccoli eventi culturali, dati perlopiù dalle loro frequentazioni.

Antesignano del fenomeno è stato senz’altro Palinurobar che, già nella vetrofania al suo ingresso, si presenta come un luogo di vino e altre culture e che ha avuto il merito di costruire sin da subito una proposta ben connotata consolidando un pubblico di aficionados giovani, intellettuali, modaioli (e non). Da lì in poi, specie nell’ultimo biennio, è stato un proliferare galoppante e per certi versi claustrofobico di aperture di wine bar (o bar à vin, nella sua versione bobo) più o meno in tutti i quartieri di Milano – tutti all’apparenza con un’offerta non molto dissimile tra di loro: una carta di vini prevalentemente naturali (meglio se di piccoli produttori italiani e francesi), una proposta culinaria fatta di piattini e sfizi di qualità, un pubblico grossomodo giovane che riflette il background dei gestori, appunto giovani, appartenenti alla scena creativa milanese, non necessariamente con un bagaglio affermato nel settore.

Una formula che via via si è codificata e prevede i primi calici al tramonto, aperitivi che diventano mezze cene e chiacchiere caotiche che proseguono di pari passo con gli ultimi calici in serata, ma mai fino a tarda notte. Quindi, nella nuova conformazione di Milano, chi vuole concedersi ancora delle vere e proprie cene quando si può ciondolare tra un wine bar e l’altro fino a tardi? È una domanda scema ma ragionando sulla sua risposta, occorre registrare che qualcosa è effettivamente cambiato nel modo in cui viviamo il bere, specie vino, negli ultimi anni.

Dalla cantina dell’alto piacentino all’ultimo libro di Ottessa Moshfegh e all’ultimo film di Guadagnino, alla mostra di Pino Pascali in Fondazione Prada al Terraforma e così via: tutti sono aggiornati su tutto.

Alcuni di questi locali, in pochi mesi, sembrano aver già trovato un quid credibile e vincente: Bicchierino Bar, Bar Paradiso, Bar Nico, Silvano e Section80 per esempio – altri sembrano faticosamente arrancare nella rincorsa al gruppo di testa, in quella che sembra alle volte più un’operazione sciatta di copy-paste. Si tratta di un format che, in ogni caso, inquadra con una certa precisione l’irrompere di una necessità di affermarsi attraverso un’identità e un gusto, in certi luoghi che per lo più creativi, artisti, fashionisti, producer, scrittori e “longformer” sembrano aver accolto e fatto proprie a pieno titolo. Luoghi nei quali l’acquisizione di una padronanza (vera o presunta) del lessico vignaiolo assume tutta una sua allure vagamente tecnica e affascinante che viaggia anche secondo una sua stagionalità: quella dei riferimentati in bottiglia, dei vini funky, dei bianchi più minerali, dei macerati, dei rossi scarichi o con più struttura.

Luoghi dove poter mostrare sfrontatamente il desiderio di ubiquità che riguarda specialmente Milano, che mai ha smesso d’essere eventificio – ma anche luoghi dove poter esibire con disinvoltura tutto il proprio armamentario midcult: dalla cantina dell’alto piacentino all’ultimo libro di Ottessa Moshfegh e all’ultimo film di Guadagnino, alla mostra di Pino Pascali in Fondazione Prada al Terraforma e così via: tutti sono aggiornati su tutto.

Ma al di là di queste note di colore, il timore è che il moltiplicarsi seriale di questi luoghi e delle loro logiche sottese finisca non solo col banalizzare e appiattire un discorso complesso sul vino naturale ma con l’algoritmizzare, attraverso una formuletta un po’ standardizzata e a disposizione di tutti, anche il nostro tempo dedicato al sollazzo enogastronomico in città.

Lenin, per evidenziare le contraddizioni intrinseche al sistema capitalistico, sosteneva che «i capitalisti ci venderanno la corda con la quale li impiccheremo». Non è dunque tanto il concetto un po’ logoro di bolla né il chiaro gioco di specchi a spaventare, ma la promessa di un’offerta prêt-à-porter, capillare in tutta la città, che finisce poi per annacquarsi in un passatempo normato e svuotato di senso che sembra aver contagiato un certo pubblico verso una ricerca ossessiva e rassicurante di ciò che si è già visto: un’etichetta sgargiante, un impiattamento carino, un light design instagrammabile.

Insomma, il concetto di (wine) bar – inteso come luogo dove incontrarsi per bere, ma anche come straordinario incubatore di creatività e circolazione di idee, passatempo interclassista, propulsore di nuovi desideri, generatore di amori pazzi, rivolte e avanguardie – sembra in parte sbiadire questa sua natura a favore di una crescente e compiaciuta attenzione al contorno che ha più a che vedere con delle aspettative visive, di offerta e di contesto omogenee e quindi omologate. È forse vero che in parte tutto quello a cui stiamo assistendo possa ascriversi ancora fra i comprensibili effetti rebound dei due anni di stop forzato della pandemia e, specie in città come Milano, la necessità del vedersi e trovare nuove forme di aggregazione, anche esasperate, fosse tutto sommato prevedibile. Ma auguriamoci che i tavolini e i banconi del bar possano essere sempre accompagnati da un desiderio sfuggente e rinnovato di leggerezza, fermento e vitalità.