Ad could not be loaded.

CHOLOBUSTER trova casa

Luis aka Lucho ha fatto il grande passo: stesso posto, stesso pollo fritto, ma con soffitto e pareti

Written by Ario Mezzolani il 17 April 2025

Ph. Andrea Nicotra

Per uno come me – figlio adottivo di Milano sud, dove l’unico rischio è diventare troppo figo per essere credibile – tutto ciò che c’è oltre Porta Venezia è territorio ostile. Le prime volte che pedalavo verso NoLo con il mio bolide, mi sentivo un po’ un invasato, uno che stava attraversando una zona proibita. Quando il mio amico di NoLo, con il pepe al culo, mi chiamava per chiedermi «Dove sei?» io mi trovavo sempre a rispondere «Sto passando davanti al…» e dovevo fare due conti con la realtà: se non trovavo quel maledetto carretto, ero morto. Ecco che entra in scena lui, Luis Chacón, aka Lucho, titolare del carretto e santo protettore del pollo fritto. «Ho appena passato il carretto», gli dicevo al telefono, come se il suo furgone fosse la croce del Sud, il faro di una terra che noi sudisti non capiamo ma che sovente frequentiamo. E non mentivo: chiunque, almeno una volta, è passato di sera da Pasteur e ha visto quella nuvola di latinoamericani e non, appollaiati sotto il food truck di Lucho. Non è solo un chiosco: è una religione che abbiamo imparato a praticare non solo in viale Monza ma anche al Festival Hyperlocal dove il suo mito è diventato leggenda.
E oggi? Luis ha fatto il grande passo: il suo CholoBuster ha trovato una casa vera, una di quelle con il tetto e le pareti, in via Pasteur, al civico 25.

Mentre mi prepara un salchipapa sfonda-budella – per i profani: pollo fritto, patatine, würstel e salse demoniache –, Lucho mi racconta perché ha scelto quel nome. «Cholo» significa qualcosa di più profondo in Perù, mi dice, «è chi discende dalle popolazioni andine, quelli che si sono spostati nelle città costiere».

Cholo è un nome che a Milano è diventato sinonimo di coraggio, di esistenza, di migrazione che non si ferma.

Qui finisce il virgolettato, perché il resto della frase sfuma in uno spagnolo decisamente troppo avanzato per il mio timido A2. Cholo è un nome che a Milano è diventato sinonimo di coraggio, di esistenza, di migrazione che non si ferma. CholoBuster non è solo un food truck, è un manifesto. È uno di quei posti che ti cambiano la giornata, che ti fanno capire che la vita non è tutta un sushi bar e caffè americani.

Lucho ha quel sorriso che sa di guerra vinta. Con il pizzetto brizzolato e il sorriso rotondo ti fa sentire a casa anche se non lo sei mai stato. Non è uno che gioca a fare l’imprenditore. Parla della «mia gente» come se il mondo intero fosse il suo quartiere, e in qualche modo lo è. La sua gente è il mix perfetto di chi ha lasciato tutto per venire a Milano e chi Milano l’ha resa il posto da cui non si scappa. Luis è arrivato qui da Lima nel ‘93. Voleva sopravvivere. E oggi, dopo anni da ambulante, ha istituzionalizzato il suo chioschetto in un ritrovo fisico. In breve tempo è diventato il punto di riferimento di una diaspora che ora ha un volto, una voce, e soprattutto una pancia ben piena.

Filosoficamente antitetico a Roberto Carlino – per i meno giovani, è l’immobiliarista del «non vendo sogni, ma solide realtà» – Luis dice che non vende cibo, ma un sentimento. Ed è proprio così. Luis non ti vende niente. Ti dà un’emozione. Te la butta addosso, ti fa male, ma ti fa sentire vivo. Non è cibo che ti riempie la pancia, è un’emozione che ti riempie la vita. In fondo, basta un pollo fritto delle 10 da Cholo per capire che il cibo può essere un legame che va oltre il semplice atto di nutrirsi. È come un rituale: prendi il fritto e lo inietti nelle vene. E quando esci, sei uguale a chiunque altro che è passato da lì. Che lo vuoi o no, l’odore rimane appiccicato addosso a tutti, come una divisa, e ti fa sentire parte della stessa storia, della stessa roba, della stessa lotta. Non è l’odore del fritto. È l’odore di chi ha deciso di non farsi dimenticare.