Esistono da anni, ma nessuno sapeva bene né come chiamarli né da che parte guardarli. Più passava il tempo più ne nascevano, eppure il problema rimaneva lo stesso. Oggetti poco determinabili perché sfaccettati, scatole che non rispettavano funzioni prestabilite e che intendevano, per vocazione e obiettivi, trovare vie di fuga da quelle gabbie che vedono le attività incasellarsi rigidamente e non smuoversi mai, fino al punto che si scambia con facilità un luogo per la sua funzione e ciò che ne risulta è un’ambigua etichetta di location. Insomma, parliamo degli spazi ibridi. Luoghi che tutt’oggi, con ogni probabilità, pochi sanno comunque descrivere o definire – assumendo che abbiano bisogno di una definizione, ed è proprio di questo che si tratta.
oLa domanda sorge spontanea dal momento in cui a Milano, da un po’ di anni a questa parte, gli spazi ibridi socioculturali abbondano (avevamo fatto una guida qui), ma non soltanto: sono frequentatissimi e iperpartecipati dai vicini di quartiere, e tendenzialmente riescono a convogliare una serie di energie volte proprio alla definizione dello spazio. Nel senso che la programmazione culturale e artistica di questi luoghi ha spesso una diretta referenza a qualche cosa che potremmo chiamare “gusti”, o tendenze, del quartiere di riferimento, pensate al Nuovo Armenia a Dergano, per esempio, ma anche alla Ciclofficina PonteGiallo in Martesana o ancora a Terzo Paesaggio a Chiaravalle. Bisogni locali e attività culturali – ma anche intrattenitive ed educative – si riversano gli uni sulle altri, si sovrappongono. Concerti, mostre, workshop, cinema, talk, laboratori, mercati e distribuzione di alimentari, passeggiate e autocostruzione, le ragioni per cui ci si ritrova negli spazi ibridi sono tante, ma di nuovo l’ostico problema rimane: cos’è uno spazio ibrido, cos’è anche, allora, una location, dove sta insomma la differenza?
Non è né cane né lupo, né bar né libreria, né co-working né teatro. È tutte le cose assieme.
Per cominciare dalle basi, è facile immaginarsi che l’ibrido di cui si parla non sia una questione di proprietà, ma di funzioni. Non è né cane né lupo, né bar né libreria, né co-working né teatro. È tutte le cose assieme. Così che per anni la situazione era: tizio che lo frequenta non sa bene perché ci facciano i concerti e si mangi l’ossobuco e si intagli il frassino, mentre caio che lo gestisce non trova appigli tra le definizioni pregresse, le regole e gli statuti troppo rigidi per considerare una simile forma di organizzazione culturale e territoriale.
È a seguito del lockdown e dell’imperversare dell’epidemia nel 2020 che una cosa in particolare emerge nel tessuto delle città: la dimensione prossimale, il sottocasa, i quartieri e quell’immagine della città dei 15 minuti che ha però bisogno di strutture adeguate, domanda a cui a tutti gli effetti gli spazi ibridi socioculturali rispondono – in maniere anche molto diverse tra loro. Il Manifesto pubblicato è un fronte aperto (la mappatura continua, le candidature rimangono attive) redatto dalla nuova “Rete Informale Spazi Ibridi”, nata nell’aprile del 2021. Un’alleanza di ben 26 spazi che a occhio possono sembrare molto eterogenei tra loro; per farvi degli esempi: BASE, Stecca 3, Nuovo Armenia, SPAZIO K, Ciclofficina PonteGiallo, Spirit de Milan, Lab Barona, mare culturale urbano oppure SoulFood Forestfarms.
Parliamo di una forma di organizzazione dello spazio – che prima di tutto è un modello di organizzazione del pensiero – che era, per certi versi, inedita; e che oggi riflette un andamento della città.
Insomma, ci sono i giganti storici e ci sono le piccole attività associazionistiche, ma tutti hanno una cosa in comune: sono luoghi compartecipati e tendenzialmente coprogettati da più attori, sono infrastrutture che contribuiscono a quel “welfare generativo” (che è la rigenerazione delle risorse disponibile come, appunto, lo spazio), e il tutto con una spiccata attenzione alle loro prossimità e di conseguenza alla progettazione di servizi territoriali e autorganizzati.
Non è un caso, poi, che siano tutti nati nel XXI secolo, tra il 2001 e il 2020. Parliamo insomma di una forma di organizzazione dello spazio – che come sempre è prima di tutto un modello di organizzazione del pensiero – che era, per certi versi, inedita; e che oggi riflette un andamento della città. Tutta Milano ormai ne è disseminata. Ce n’è più o meno uno per ogni quartiere, e ognuno s’è collocato in punti nevralgici – vicini a scuole, parchi, biblioteche, ma anche rispetto alle aspettative prossimali di una città che si vede come un patchwork organico di quartieri. Ovviamente, il grosso della torta si colloca nell’attività culturale, assieme a corsi e seminari. Solitamente poi si aggiungono spazi di ristorazione e bar, ma lo sguardo si allarga considerando anche i co-working e i co-studing, le librerie, i doposcuola, i mercati alimentari, l’agricoltura e la falegnameria sociale, fino alla ciclofficina e ai progetti di agro-forestazione sociale. E non è nemmeno tutto.
Delle specie di oratori della città laica, luoghi d’aggregazione territoriale, d’organizzazione socioculturale e quindi presidi locali dell’eventificio del secondo millennio.
Così che, per richiedere un percorso di co-design di azioni e suggerimenti per politiche pubbliche, per la “Rete Informale Spazi Ibridi”, Stecca3 e Temporiuso – assieme ad altri della rete – organizzano tra il 7 e il 10 aprile Città Aperte e Spazi Ibridi Socioculturali – luoghi del welfare di comunità per la città e i territori di prossimità. Tre giornate di workshop e seminari dedicate proprio alla domanda più importante: “Sapete cosa sono gli spazi ibridi socioculturali?”. Si terranno conferenze sulla nascita e le ragioni di questi luoghi in Italia e all’estero, sugli impatti territoriali, sullo spazio pubblico fino alla genderizzazione dello spazio e alle passeggiate in città, passando per questi luoghi, il tutto assieme a workshop e tavoli di discussione.
Che dire, sono spazi meticci. Votati e desiderosi di una specie di incompletezza, di parzialità. Porzioni libere che vogliono essere riempite in condivisione con gli altri. Si potrebbe quasi dire che gli spazi ibridi possano essere delle specie di oratori della città laica, luoghi d’aggregazione territoriale – prossimale –, d’organizzazione socioculturale e quindi presidi locali dell’eventificio del secondo millennio, per cui si sa che per fare cultura, per fare territorio, bisogna innanzitutto stare assieme. Insomma, qualcosa di nuovo è in città: è la rete degli spazi ibridi.