Ad could not be loaded.

Il colpo di grazia all’indipendenza della cultura

L'unica egemonia è sempre stata quella del mercato

Written by Salvatore Papa il 3 July 2025

Teatro Valle Occupato 2014

Nonostante l’ex Ministro dell’Economia Giulio Tremonti sostiene di non averla mai pronunciata, la frase “con la cultura non si mangia” è rimasta scolpita nelle memorie del Paese. Era il 2010, pieno dominio berlusconiano, e leggenda vuole che fu utilizzata per rispondere all’allora Ministro alla Cultura Sandro Bondi che si lamentava dei tagli al suo dicastero. Al di là di come andarono veramente le cose, è indiscutibile quale fosse la convinzione di quel governo: c’è una cultura utile e una cultura inutile. E una cultura “utile” era (ed è) una cultura in grado di generare numeri: indotto, crescita e consenso. Il resto vada alle ortiche.

A giudicare dai criteri adottati per il triennio 2025-2027 dal Ministero della Cultura presieduto da Alessandro Giuli per sostenere la musica, il teatro, la danza e le attività multidisciplinari, si direbbe che il disegno stia giungendo a compimento. Ma è frutto di un lungo percorso che ha progressivamente indebolito il sistema, isolando le sue parti più vitali, per assestare, infine, quest’ultimo colpo di grazia. Non un ribaltamento della situazione, quindi, ma una sua estremizzazione verso un’idea di egemonia culturale intesa come distruzione del dissenso attraverso un darwinismo di mercato che aveva già messo tutti contro tutti e contribuito alla morte per stenti della cultura indipendente.

“Il petrolio d’Italia”, “l’economia della bellezza” e altre espressioni simili popolano, infatti, da molti anni l’immaginario comune legato alle politiche culturali che, oltre a intrecciarsi a quelle turistiche, hanno sempre più legato i finanziamenti a parametri quantificabili in grado di misurare l’impatto economico. Da lì anche l’ascesa di un esercito composto da economisti della cultura e manager culturali insieme allo sviluppo di sempre più invadenti sistemi econometrici di valutazione degli investimenti. Quindi la nascita delle “imprese culturali” ovvero – così come indicate dal  rapporto Io sono Cultura realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere: imprese che utilizzano la cultura come input per accrescere il valore simbolico dei prodotti, attività  di comunicazione, videogiochi, imprese del digitale, turismo, business.

Nonostante i cambi di colore dei governi, l’approccio però è rimasto più o meno lo stesso. Nel 2014, durante il governo Renzi, entrò, infatti, in vigore la riforma Franceschini, dal nome dell’ex Ministro della Cultura in quota PD, Dario Franceschini. Come spiega Tomaso Montanari nel suo libro Contro le mostre (Einaudi, 2017), la legge stabilì definitivamente la separazione radicale tra tutela e valorizzazione del patrimonio culturale: “la prima lasciata a soprintendenze in via di smantellamento (che in parte però ancora resistono grazie ad alcune figure estremamente serie e competenti, ndr), la seconda prospettata come unica mission dei musei. Ciò deriva dalla convinzione che la valorizzazione non sia finalizzata all’aumento della cultura, ma invece sia da intendere come messa a reddito del patrimonio. Da qui l’idea di non occuparsi di luoghi improduttivi (implicitamente destinati all’estinzione: gli archivi e le biblioteche), e quella di sfilare dal contesto i venti super-musei su cui concentrare risorse e attenzione. Sui musei la scelta fu quella di immaginarli come grandi mostre permanenti affidate a un curatore-demiurgo che rispondesse alla politica e guardasse al botteghino. Ma c’è un aspetto ancora più grave – aggiungeva Montanari – ed è l’idea stessa che alla politica – e non alla comunità scientifica – spetti la nomina degli scienziati (in questo caso cultori delle scienze storiche e storico-artistiche), in un processo che rischia di assimilare le direzioni dei musei al consiglio di amministrazione Rai […], musei considerati alla stregua di luoghi di spettacolo che devono aderire alla logica di mercato“.

Poi venne il Covid e “i nostri artisti che tanto ci fanno divertire” (cit. Giuseppe Conte) rimasero chiusi in casa senza alcun sussidio o ristoro, con lo stesso Franceschini che alle critiche per non aver fatto praticamente nulla per tutelare il settore rispetto a quello “produttivo” rispose piccato mostrando i grafici con la curva dei contagi. Furono in molti a protestare, ma moltissimi anche quelli che rimasero in silenzio. Atteggiamento che spinse l’attore e drammaturgo Antonio Rezza a esprimere in una riflessione memorabile la sua indignazione: “Il mondo del teatro è troppo colluso con i finanziamenti per rivendicare la posizione estrema di chi si lamenta, la paura foraggia la cautela, potrebbero arrivare meno soldi domani, è meglio stare in silenzio e attendere che riaprano le chiese, se si attivano i luoghi di culto possiamo spalancare anche le sale. Il teatro si è affidato a Dio pur di non scoprire il fianco trafitto. Lo Stato ha imbavagliato la cultura con il denaro e adesso non la riconosce, come ogni puttana posseduta dal pappone che la sottomette”. E ancora: “Che vuoi che me ne faccia dell’appoggio di chi ha svenduto il teatro allo Stato in cambio dell’elemosina ministeriale? Come può aiutarmi chi ha smesso di comporre per diventare il commercialista di se stesso onde giustificare le entrate che il dicastero favorisce? A che mi serve il sostegno di chi va nei centri di accoglienza a fare uno spettacolo contro le mafie e poi gestisce il suo teatro con la politica degli scambi che rappresentano la mafia istituzionale? […] Il ministero deve tenere in vita le sale e pagare il personale, ma non può stipendiare l’artista per il suo operato, e non deve elargire fondi straordinari per comprare il silenzio. […] E l’artista sappia resistere alle lusinghe di chi non lo contempla perché di proprietà.”

Arriviamo così a oggi e all’attacco diretto del Governo Meloni contro i linguaggi del contemporaneo e della ricerca. I nuovi parametri per ottenere il contributi del Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo per il triennio 2025-2027 chiedono di fatto agli operatori culturali e ai teatri di produrre e ospitare spettacoli che costino poco e incassino molto, marginalizzando la sperimentazione. Come spiega l’Assemblea Costituente dei Lavoratori e Lavoratrici dello Spettacolol’aumento del prezzo del biglietto diventa un indicatore di merito, favorendo di fatto il teatro commerciale a scapito di quello di ricerca.”

Risultato: 29 festival storici esclusi dai contributi ministeriali e un drastico abbassamento dei punteggi di Qualità Artistica per molte realtà ritenute fino a ieri eccellenze nel panorama culturale, con valutazioni dimezzate o sensibilmente ridotte, tranne pochissime eccezioni come Romaeuropa Festival o il Festival dei Due Mondi di Spoleto. Alcuni esempi: Danae Festival (da 32 nel 2024 a 11 nel 2025), Festival Ipercorpo (da 29 nel 2024 a 11 nel 2025), Santarcangelo Festival (da 28,3 nel 2024 a 14 nel 2025).

«Eliminare dal criterio di valutazione artistica dei progetti l’importanza del rischio culturale è grave – denuncia il direttore artistico di Santarcangelo Festival, Tomek Kirenczuk – perché sposta l’attenzione verso percorsi sicuri, lontani dalla sperimentazione e dalla ricerca. Non è solo un attacco alla cultura indipendente, ma una vera e propria provocazione contro la diversità delle comunità che la generano, al chiaro impegno politico e alla posizione etica esplicita.»

“Festival multidisciplinari ventennali – continua l’Assemblea – sono stati cancellati come se nulla fosse (qui un po’ di numeri). Queste decisioni colpiscono duramente l’intero ecosistema dello spettacolo dal vivo, in particolare le realtà più piccole e indipendenti. I tagli riguardano progetti già avviati nei primi sei mesi dell’anno, generando effetti immediati: cancellazione di date, perdita di posti di lavoro, interruzione di percorsi artistici e formativi. Cancellare una compagnia o un festival significa anche cancellare una serie di professionalità, significa disoccupazione per personale artistico, organizzativo, amministrativo e tecnico. Si stima infatti una perdita tra le 30.000 e le 50.000 giornate lavorative nel comparto spettacolo dal vivo.”

Santarcangelo Festival

Come mi spiega lucidamente un operatore bolognese che preferisce rimanere anonimo, però: «Era tutto previsto. Hanno iniziato diversi anni fa con le avanguardie e, visto che nessuno ha fiatato, hanno poi progressivamente colpito al centro del raggruppamento. Anche le leggi regionali fanno lo stesso. Silenzio sulle sorti delle avanguardie, in attesa che il fronte avanzi nel corpo molle.»

«Risulta evidente – afferma Alessandra De Santis del Teatro delle Moire – che si tratti di un attacco di natura politica, un attacco soprattutto alla ricerca, al contemporaneo e ai corpi. Sì ai corpi. Perché tutte le progettualità “declassate” hanno al centro della propria ricerca artistica o della propria programmazione il corpo. La responsabilità della situazione in cui ci troviamo, però, va ricercata in tutta la politica culturale da molti anni a questa parte, al suo immobilismo, al suo favorire comunque sempre la quantità rispetto alla qualità. […] C’è bisogno però anche di autocritica. Bisogna essere onesti fino in fondo e farsi delle domande su come si è agito finora, su quale sia stato l’atteggiamento diffuso di accettazione, di prudenza. È comprensibile che sia difficile mettere a repentaglio il poco che si ha, ma c’è bisogno di coraggio, di rompere gli argini, c’è bisogno di un teatro militante.»