LIBERATO è Burial. LIBERATO è Calcutta. LIBERATO è Livio Cori (il rapper napoletano attore in “Gomorra”). LIBERATO è un detenuto del carcere di Nisida. LIBERATO è Nino D’Angelo (che dopo averlo inizialmente snobbato, oggi lo definisce il suo erede). “Mi ha detto LIBERATO che nemmeno i suoi amici più intimi sanno che LIBERATO è lui”, raccontava il regista Francesco Lettieri nella primavera del 2017. Dopo l’estenuante tarantella che per oltre un anno ha avvolto di mistero l’identità del producer napoletano e alimentato i vari buzz e supercazzole da social network, ormai, possiamo dirlo forte, di svelare chi sia davvero LIBERATO ci frega relativamente. Quello che interessa, piuttosto, è raccontare un fenomeno pop di portata internazionale, comprenderne le radici, il contesto (non solo local) da cui arriva e il motivo per cui LIBERATO è la punta dell’iceberg di una Napoli contemporanea estremamente viva e affascinante che riesce a trovare nuove soluzioni tra passato e futuro.
“LIBERATO è la canzone napoletana da party. È la canzone d’ammore che si fa ballare e si può esportare”. Così inizia a raccontare di lui il giornalista (rigorosamente) napoletano Gianni Valentino, che per Arcana ha pubblicato a novembre un libro/inchiesta sul producer incappucciato che anche dal vivo, dal Sònar al Club to Club, ha trasformato la tradizione neomelodica in un rituale collettivo contemporaneo fatto di R&B magistrale, sing along e un impianto multimediale di grande impatto (realizzato dal collettivo Quiet Ensemble). L’originalità di LIBERATO non sta solo in un’identità/riconoscibilità fortissima a dispetto dell’anonimato o nell’immaginario sonoro che va dai Gorillaz a Mario Merola passando per Shlohmo.
LIBERATO è un progetto nato dal basso, partito senza etichette, senza uffici stampa, figlio di una città indisciplinata e culturalmente ricchissima e di una rete di contatti più o meno sommersi che parlano molto dell’Italia musicale di oggi.
LIBERATO è un progetto nato dal basso, partito senza etichette, senza uffici stampa, figlio di una città indisciplinata e culturalmente ricchissima e di una rete di contatti più o meno sommersi che parlano molto dell’Italia musicale di oggi. E pure un artista legatissimo alla sua squadra di calcio, facendo leva su un legame forte che unisce persone anche molto diverse tra loro, proprio come avviene in paesi con una lunga tradizione di affinità tra football e musica, tipo l’Inghilterra.
È qui che si inserisce il lavoro di Gianni Valentino. L’autore di “Io non sono LIBERATO” lo ha conosciuto attraverso YouTube, come tutti. Poi al telefono, via e-mail, via Skype. «Però è successo», racconta il giornalista di Repubblica, «che un pomeriggio, quando avevamo il nostro primo appuntamento, lui non si è più presentato. Un po’ l’ho rincorso, un po’ ho aspettato che tornasse da me. Cercando di immaginare le sue sembianze, la sua voce, la sua faccia. Sono andato in ospedale, per rintracciarlo. Fino a Barcellona, per capire quali intenzioni avesse. Ma è tutto così invisibile. Incappucciato com’è, tra i laser. Così ho scelto di raccontare tutto quello che so di lui e tutto quello che gli altri – lentamente, generosamente – mi hanno voluto sussurrare della sua storia. Backstage, conversazioni al cellulare, concerti, retroscena, festival, sospetti plagi e cambi di identità».
Il libro è una giostra, dal golfo di Partenope al globo, tra i gommoni di via Caracciolo, i videoclip, le installazioni, i ritornelli-serenata, il mare splendente e le piazze notturne dei decumani coi fumogeni e i pitbull. Partecipano con micro-macro interviste Clementino, Raiz, Fabri Fibra, Nino D’Angelo, Populous, Ivan Granatino, Gemitaiz, Livio Cori, Bawrut, Planet Funk e, soprattutto, Enzo Chiummariello e il prof. Ugo Cesari. Certo, se Valentino non avesse scelto di iniziare la cronologia del libro proprio con il giorno di nascita di Calcutta, il 19 aprile del 1989 (in quanto data della partita di Coppa Uefa tra Bayern Monaco e Napoli), forse ci avrebbe lasciato con qualche dubbio in meno nella testa.