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La cultura del progetto di Pirelli

Come il caucciù e il pneumatico hanno fatto del progetto una cultura e della cultura un progetto

Written by Piergiorgio Caserini il 23 March 2023

Paolo Monti, 1958

Nel quartiere Bicocca esiste un luogo che ne contiene tantissimi altri. È l’Archivio della Fondazione Pirelli, custode di una memoria industriale, tecnica e artistica dell’azienda. Parliamo di un archivio che custodisce tutti i documenti dalla fondazione nel 1872, per quasi quattro chilometri di documentazione cartacea, con un’attenzione particolare e minuziosa rispetto ai legami al mondo della cultura, a quella cultura politecnica che vuole tecnologia, innovazione e facoltà creativa e letteraria sinergicamente unite. Vi basti ricordare o sapere che la celebre Pirelli. Rivista di informazione e tecnica, coinvolse figure del calibro di Umberto Eco, Italo Calvino, Bruno Munari, a Corrado Augias, Gillo Dorfles, affidandosi anche alla fantasia galoppante del Buzzati o alla lingua sgarrupata di un Gadda, ai paesaggi colti di Montale, al neorealismo di Levi, alle montagne poetiche di Rigoni Stern, insomma: negli anni in cui la rivista fu pubblicata – tra il 1948 e il 1972 – Pirelli raccolse attorno a sé immaginari letterari, pittorici, creativi, politici, e tutto sotto all’insegna di un’azienda che vista da qui, dall’operato della rivista, della comunicazione, dell’impegno culturale, pare eccedere l’immaginabile.

Eco, Calvino, Munari, Mendini, Augias, Dorfles, Buzzati, Gadda, Montale, Levi, Rigoni Stern: tutti sono passati da Pirelli.

Vorremmo quindi raccontare di questo portato culturale, di questa postura – di cui, a dirla tutta, dopo averla scoperta e vista all’Archivio abbiamo un ricordo splendente – che ha caratterizzato la storia di Pirelli tanto quanto i suoi pneumatici, o meglio: del come l’industria ha saputo incidere sulla produzione culturale, e come queste due entità possono essere immaginate assieme.

Partiamo con un’immagine precisa: è il 1905, siamo a poco più di trent’anni dalla fondazione dell’azienda, e Pirelli ha il suo grande stabilimento in via Fabio Filzi, in quel di Centrale/Repubblica, dove la Stazione ancora non esiste, Fabio Filzi si chiama Ponte Seveso e dove poi verrà eretto il Pirellone su progetto di Gio Ponti. Qui, Luca Comerio, fotografo ingaggiato dalla Pirelli stessa, scatta L’uscita delle maestranze Pirelli dallo stabilimento di via Ponte Seveso. Possiamo dire che con questa foto s’avvia tutta una comunicazione, una pratica creativa votata alla scoperta di  nuovi autori e alla sperimentazione, che poche altre aziende vantano. Lo scatto del Comerio coglie per l’appunto le maestranze all’uscita dei cancelli dello stabilimento: una folla a perdita d’occhio di donne e uomini, tutte e tutti con lo sguardo rivolto all’obiettivo, chi a braccia conserte chi a cappello levato, chi in piedi per strada e chi abbarbicato sulle ringhiere delle finestre. È impressionante a vedersi, soprattutto perché la foto, destinata a essere esposta al Padiglione Pirelli dell’Expo del 1906, è un unico foglio di carta fotografica di due metri e mezzo per uno e mezzo, realizzata con ogni probabilità grazie a un ingranditore solare che venne posto sul tetto dello stabilimento.

Luca Comerio: “L’uscita delle maestranze dallo stabilimento Pirelli in via Ponte Seveso”, 1905

Facciamo poi un salto al 1922, al cinquantenario, quando già la Pirelli s’era spostata nella sua sede storica in Bicocca, insediando la fabbrica in quel che poi, settant’anni dopo, diventerà il quartiere che tutti conosciamo. Un’illustrazione, conservata nell’Archivio in particolare ci colpisce. Disegnata in occasione del cinquantenario, Le organizzazioni Pirelli nel Cinquantenario della Ditta rappresenta l’azienda alla stregua di un paesaggio immaginario: si vede una lunga pianura frastagliata all’orizzonte da monti tozzi e rocciosi e arroccati l’uno sull’altro, dai quali sgorgano fiumi, torrenti e ruscelli che, scendendo verso la costa e il mare, scavano diversi bacini lacustri tra i quali uno governa per intero la veduta. Ed è lì che si sofferma l’occhio, ed è da lì, da questo grande lago, che si traccia un lungo canale che accompagna l’acqua verso la costa in lingue più o meno ampie, dove infine si sfilacciano folti delta all’incontro col mare. Quel grande lago sulla sinistra che per primo attira l’attenzione è la Società Italiana Pirelli: nata dai monti che prendono il nome di Milano Bicocca, La Spezia, Pont. S. Martin, Cordenons, Saronno, e sorgente del grande fiume che si sfrangia nel mare, nel delta più grande di questo paesaggio, dove ogni ramo prende il nome delle città italiane in cui l’azienda è presente. Guardando a destra i monti prendono invece il nome di Southampton, Villanueva, Buenos Aires, e i torrenti, passando per i laghetti Pirelli General e Productos, incontrano il lungo colatore che origina dalla Società Italiana Pirelli, che accompagna le varie società estere nei delta delle loro città. Guardando in lontananza, si vedono invece le isole Malacca e Giava, sede delle piantagioni di caucciù. Questo era la Pirelli, e questo è ancora: un grande e ramificato paesaggio in cui ogni elemento prende il nome di un luogo, una specie di forza della natura nata a Milano, una pulsione trainante di innovazione tecnica e creatività pubblicitaria indiscussa per più di un secolo e mezzo. E, a guardare bene e a lungo questo paesaggio, si noterà anche che tra le linee costiere, le posizioni dei monti e della pianura, c’è definitivamente qualcosa che ricorda troppo la forma dello stivale italico. Uno statement pesaggistico in anamorfosi.

«Adess ghe capissaremm on quaicoss: andemm a guardagh denter.»

È così che la Pirelli ci sembra abbia sempre inteso il suo impegno industriale e culturale nella storia: come un organico, capace di miscelare magistralmente l’innovazione tecnica l’innovazione culturale, il paesaggio industriale e quello sociale. Elemento distintivo in questo senso sono le biblioteche aziendali, ma soprattutto le storie che furono scritte nella Rivista. Basta pensare all’articolo del 1963, del pittore Giancarlo Cazzaniga, che vide «Macchine tutte colorate: tubi gialli, rossi, verdi; strane pentole, fischi, odori, fumo; qua e là nastri che si avvolgevano o si svolgevano, a seconda del movimento che la macchina imponeva loro». Ma anche ai taccuini del viaggio sul Nilo compiuto tra il 1954 e il 1959 da Giovanni Pirelli, che scrisse il resoconto, e l’amico Renato Guttuso, che oltre ai bozzetti del viaggio andrà poi a realizzare il grande mosaico del 1961 La ricerca scientifica, custodito tutt’ora negli spazi della Fondazione. Oppure i reportage sull’Etna in fiore di un giovane Enzo Sellerio, delle fotografie di Ugo Mulas a Lucio Fontana, per arrivare alle sperimentazioni nel disegno grafico. Impossibile non citare Alessandro Mendini, che popolò le pubblicità dei pneumatici con ometti danzerini e mariachi. O ancora Bruno Munari che, come gli si addice, realizzò giocattoli in gommapiuma – per altro brevetto Pirelli – da cui nacquero due simboli aziendali: il gatto Meo Romeo nel 1949 e la scimmietta Zizì nel 1952. Il grande Armando Testa, poi, che diede al pneumatico l’animalità feroce di un leone e quella possente di un elefante, l’uno che «Artiglia l’asfalto» e l’altro che «Farà molta strada», con un allestimento pubblicitario pensato per tener testa agli skyline della Milano a fine Cinquanta, una specie di pop up di diversi metri lungo il cantiere del Grattacielo Pirelli. E poi Bob Noorda, nei Sessanta, che portò in Italia proprio attraverso Pirelli la grafica moderna e l’immagine coordinata, con quel forte approprio progettuale di stampo razionalista che andrà poi a fare storia, come per l’albero costruito con le incisioni del pneumatico Inverno. Ma anche in tempi più recenti, è impossibile non considerare le campagne di comunicazione con Ronaldo, la pubblicità con la P lunga disegnata da macchine parcheggiate e fotografata dall’alto, o ancora l’incredibile Carl Lewis, “figlio del vento” in scarpe rosse e tacco dodici pronto a scattare di corsa sul circuito per lo spot “Power is nothing without control”, scattato da Annie Leibovitz e in TV con niente di meno che Aphex Twin a curare il jingle.

Forse una pubblicità tra le più durevoli e celebri al termine degli anni Novanta, quando il “tormentone” pubblicitario era la regola. Ovviamente, c’è poi il celebre Calendario Pirelli: vera e propria icona nel mondo della fotografia per la sua valenza artistica e culturale, e World, il magazine aziendale che tratta temi legati alla tecnologia, all’innovazione, al costume, alla scienza e alla cultura che ospita contributi e riflessioni di personalità di fama internazionale del mondo della cultura. Una tradizione di comunicazione rafforzata ulteriormente dal progetto “Annual Report” che da ormai un decennio trasforma i bilanci aziendali in libri d’arte da sfogliare: volumi arricchiti dal contributo di testi originali e opere grafiche inedite da parte di personalità del mondo dell’arte e della letteratura provenienti da tutto il mondo.

Insomma, la storia nata da questo caucciù, da questo pneumatico, che passa dal copertone della bici al pneumatico della Formula 1, che passò dai sovrascarpe Hevea (che è poi il nome scientifico dell’albero della gomma), alle mantelline o agli ombrelli fino ai giocattoli per bambini, che incontrò trasversalmente le arti pittoriche e grafiche, il design, la comunicazione, le corse, il calcio, è una storia di come l’espressione possibile della tecnica – e non soltanto la creatività – e dell’industria abbia saputo mettere assieme le opere, le suggestioni e le storie di alcuni dei nomi più celebri di questo secolo, a volte persino lanciandoli. E se mai ci si chiedesse del perché e del per come tutto questo è stato fatto, del perché questo grande paesaggio di pianure, mari, monti, fiumi, torrenti e isole si sia via via popolato da leggendari designer, intellettuali, pittori, siamo convinti che occorra con ogni probabilità tornare a una frase pronunciata da Luigi Emanueli, uno dei più famosi ingegneri pirelliani e inventore del CINTURATO, il pneumatico simbolo dell’azienda, la si trova scritta all’ingresso dell’Archivio: «Adess ghe capissaremm on quaicoss: andemm a guardagh denter» («Adesso ci capiremo qualcosa: andiamo a guardarci dentro»).