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Príncipe Records: le radici afrodiasporiche della città di Lisbona

La risposta clubbing delle periferie portoghesi segnate dalla storia coloniale alla disco europea

Written by Andrea Marazzi il 5 February 2025

Noite Principe 2015_ph Marta Pina

Quando C2C Festival annuncia la presenza di Dean Blunt nella line up dell’edizione 2024, si scatena un certo, inevitabile hype, un frenetico vocio addobbato dalla curiosità verso il DJ set del criptico artista inglese. Del resto, Dean Blunt ha fatto dell’ambiguità e della discontinuità il cuore della sua pratica artistica, sfidando costantemente le aspettative del pubblico e del mercato. Attraverso un linguaggio postmoderno che mescola generi e riferimenti, combinando personale e collettivo, Blunt presenta una riflessione sulla cultura contemporanea, che costituisce una sfumatura peculiare del discorso collettivo sull’identità e il riscatto degli afrodiscendenti.
Senza proclami o keywords, Blunt esplora la complessità dell’esperienza nera contemporanea, e i significati culturali attribuiti alla blackness; la sua musica decostruisce stereotipi mescolando elementi del pop e dell’elettronica in un pastiche che mette in discussione la nozione di autenticità e critica aspettative e modelli imposti allə artistə nerə.

Detto, fatto. Durante il suo DJ set al C2C, Dean Blunt propone per un’ora  musica rock e metal, principalmente mainstream, generando un’esperienza d’ascolto fortemente assimilabile allo scrolling TikTok dell’ultimo anno: Deftones, Metallica, Fugazi, Incubus, etc. – insomma, la musica bianca per eccellenza. Blunt inverte la prassi che vede DJ bianchi appropriarsi di elementi della cultura nera, sovvertendo la consuetudine della danza su ritmi spezzati nei festival europei e regalandoci la scena un pò situazionista di un pogo al C2C.
Non pensate a una mossa linearmente provocatoria, di protesta; il suo è più un gioco di linguaggi, un’ironica partita a poker con il simbolo. Questo tipo di ribaltamento concettuale può essere messo in relazione con quello  innescato dalla nascita della techno a Detroit, negli anni Ottanta, quando le orecchie nere abituate al suono di funk e soul si scontrano con i suoni dell’elettronica distaccata, minimalista e robotica di Kraftwerk e Depeche Mode, per poi appropriarsene e rimaneggiarla. Nel suo Techno: ritmi afrofuturisti, Claudia Attimonelli riprende le parole di Kodwo Eshun per ricordarci che questo “è il primo caso esplicito dove la musica bianca è l’origine e i musicisti neri sono i contraffattori che la alterano”.

Sonorità che creano spazi immaginativi dove le costrizioni dei processi di razzializzazione e del presente storico si dissolvono, offrendo la possibilità di concepire nuove soggettività nere.

La techno nasce in un periodo di crisi che segna profondamente la comunità afroamericana. L’ambiente dell’industria automobilistica al collasso e le sue tecnologie alienanti, vengono utilizzate dallə musicistə per dar vita a suoni elettronici che, secondo Kodwo Eshun, sono in grado di creare una temporalità alternativa per la diaspora africana: in Further Considerations on Afrofuturism, Eshun descrive l’afrofuturismo come un movimento che emerge in risposta alla marginalizzazione e alla cancellazione culturale subite dalle comunità nere, restituendo loro la possibilità di pensare, immaginare il futuro, una possibilità presa sostanzialmente in ostaggio dalla necessità di focalizzarsi sul passato e sulla riscrittura di una timeline dalla quale vengono programmaticamente escluse tutte le soggettività non bianche. I suoni futuristici e finanche alieni della techno, incarnano pienamente questa prospettiva: i ritmi macchinici non si limitano a evocare l’eco della fabbrica, costituendo il prodotto di un’epoca, ma, sempre seguendo Eshun, sono l’anticipazione di futuri possibili, sonorità che creano spazi immaginativi dove le costrizioni dei processi di razzializzazione e del presente storico si dissolvono, offrendo la possibilità di concepire nuove soggettività nere.


Possiamo trovare un ulteriore sviluppo di questa riflessione in Assembling a Black Counter Culture, libro di DeForrest Brown Jr. che evidenzia come la techno venga spesso sottratta alle sue radici afroamericane e reinterpretata attraverso una lente eurocentrica. Brown critica il modo in cui il mercato globale ha trasformato la techno in un’estetica senza contesto, ignorando la sua fondamentale natura di espressione politica e culturale nata da una condizione storica di oppressione: riaffermarne la centralità delle origini afroamericane significa riconoscere la techno come mezzo di resistenza e atto di costruzione culturaleI suoi  ritmi ripetitivi e ipnotici evocano un senso di trascendenza, un viaggio verso un altrove in cui le comunità nere si liberano dai vincoli della storia e si reinventano, rielaborando il trauma storico della schiavitù e della segregazione attraverso il filtro della macchina. La techno, in questo senso, è un dispositivo temporale e il suo suono futuristico è un atto di resistenza contro il presente e una proiezione verso l’avvenire. Kodwo Eshun ha definito questa capacità della musica afroamericana una forma di “navigazione del tempo”. 

L’esperienza di Príncipe Records sembra potersi ascrivere al contesto concettuale fino ad ora delineato, ma – finalmente – da questa parte dell’oceano e da questa parte della Manica. L’etichetta nasce nel 2011 con la missione principale di valorizzare la musica prodotta dagli afrodiscendenti che abitano le periferie di Lisbona, come l’area di Quinta do Mocho e altri quartieri popolari, luoghi segnati dalla storia coloniale dove le comunità diasporiche sono protagoniste di una continua rivisitazione culturale e sonora, contribuendo a creare un ponte tra tradizioni e futurità.
L’etichetta esplora e reinterpreta stili tradizionali delle ex colonie portoghesi come il funaná (Capo Verde) e il kuduro (Angola), trasportandoli in un contesto globale, rinnovandone l’essenza e resistendo all’assimilazione, in tal modo generando nuove forme musicali espressamente afrodiasporiche, come il tarraxo e la batida. Sono i battiti, le andature, le posture in movimento di questi stili ad essere ripresi, piccole cellule ritmiche che trovano nuovi significati in cori di percussioni.
Attraverso una produzione pulsante e innovativa, Príncipe sfida le narrative dominanti, spesso eurocentriche, che considerano le periferie come luoghi di marginalità. Ogni stile musicale promosso da Príncipe ha una storia radicata nella resistenza culturale e sociale: il capoverdiano funaná, ballo che esalta il corpo, storicamente perseguitato dalle autorità portoghesi che lo consideravano troppo sensuale, sovversivo e moralmente pericoloso. Questo genere utilizza strumenti come la fisarmonica (gaita) e il ferrinho, un’asta metallica ondulata che viene grattata per accentuare il ritmo.

Il tarraxo e la batida, emersi dall’interno dell’esperienza della diaspora africana, sono invece caratterizzati da ritmi spezzati e strutture frammentate, che rispecchiano il caos e la complessità della vita urbana contemporanea.

Il kuduro, nato in Angola, rappresenta una fusione di ritmi tradizionali e suoni elettronici moderni. Reso celebre in Europa dai Buraka Som Sistema, questo stile viene ripensato da DJ come Nervoso e Marfox, che eliminano i testi per enfatizzare le percussioni creando un sound più duro e diretto, descritto dal giornalista musicale Ian McQuaid come la “risposta techno” alla disco.
Il tarraxo e la batida, emersi dall’interno dell’esperienza della diaspora africana, sono invece caratterizzati da ritmi spezzati e strutture frammentate, che rispecchiano il caos e la complessità della vita urbana contemporanea. La batida (traducibile come “musica della mia crew”), in particolare, si distingue come un genere elettronico che intreccia le tradizioni musicali dell’Africa lusofona a un’estetica sperimentale. Allo stesso modo, il tarraxo si distingue per le sue ritmiche ipnotiche e iper-sincopate, un elemento che trasforma la musica in un veicolo psichedelico di storie di resistenza. Innestando forme ritmiche tradizionali su timbri digitali, batida e tarraxo manifestano il potenziale della musica da ballo come organizzazione del presente e risignificazione del passato coloniale. In quanto generi segnatamente post-coloniali, però, eccedono entrambe queste dimensioni temporali: la loro futurità si esprime, come scrive Iain Chambers in Mediterraneo Blues, nel loro “prospettare una comunità ancora a venire”, che li rende strumenti di rivendicazione per le soggettività afrodiscendenti alla ricerca di identità collettive.

Già negli anni Novanta, un numero crescente di artistə afrodiasporichə inizia a creare nuove forme di musica che riflettono le loro esperienze nella Lisbona postcoloniale. Stili come il kuduro e la batida sono stati plasmati dalle condizioni materiali della diaspora, dalle influenze globali dell’hip hop e della musica elettronica e dalla cultura giovanile urbana. Come osserva Fernando Arenas, studioso della produzione culturale contemporanea dell’Africa lusofona e dei modi in cui questa ha contribuito criticamente a inquadrare le tendenze globalizzatrici, la musica ha trasformato radicalmente la cultura popolare lisbonese, influenzando il linguaggio, la moda e la vita notturna.
Príncipe ha saputo canalizzare questa energia creativa, offrendo una piattaforma che non solo valorizza la trasformazione delle tradizioni culturali, ma sfida anche le gerarchie neocoloniali. Tuttavia, nonostante l’importanza di questa scena musicale, le disuguaglianze economiche e il razzismo continuano a ostacolare il pieno riconoscimento dell’identità multiculturale portoghese.
Pedro Gomes, co-fondatore dell’etichetta, sottolinea: “Pensavamo che qui ci fosse della musica che ha a che fare con i ritmi, le sincopi, le armonie e le melodie, una musica che non avevamo mai sentito prima”. Questa visione è fondamentale per trasformare Lisbona in un crocevia di sperimentazione sonora.

Il fenomeno musicale di Príncipe è chiaramente un’espressione del contesto sociale e politico che lo alimenta: amaramente poetico potrebbe essere il parallelismo tra la condizione a Detroit nel periodo successivo alla crisi dell’industria automobilistica degli anni ’70 e quella di una Lisbona piegata in seguito alla crisi finanziaria globale del 2008. Da una parte i suoni futuristici della techno si riflettevano nel contesto di Detroit: una città decostruita, con edifici abbandonati e industrie chiuse, ma proiettata nei sogni in un futuro tecnologico e innovativo; dall’altra la batida, fusione di suoni globali, è diventata un’espressione specifica della crisi portoghese, radicata in un’idea di resistenza e rigenerazione. Come a Detroit, anche a Lisbona la crisi economica e sociale ha spinto i giovani delle periferie a cercare nuove forme di espressione. La batida diventa, come la techno, una risposta alla mancanza di opportunità, una modalità per resistere e reinventarsi, un linguaggio sonoro che dialoga con il presente.

In questo quadro, Príncipe ha giocato un ruolo fondamentale nel legare l’esperienza locale alla scena musicale internazionale, utilizzando la musica come strumento per raccontare storie di lotta e rivendicazione, con un mantello che celebra le identità fragili e spesso invisibili delle periferie di Lisbona.
L’etichetta ha portato alla ribalta artisti come DJ Marfox, DJ Nigga Fox e Nídia, il cui lavoro incarna un’estetica della perifericità che rifiuta le narrazioni di marginalità. Attraverso ritmi sincopati e strutture frammentate, lə artistə di Príncipe abbracciano un’estetica del disordine che riflette le complessità dell’identità diasporica. Attraverso la frammentazione delle forme canoniche, la musica dell’etichetta trasforma il suono in uno spazio di esplorazione, relazione e resistenza, mentre il ritmo diventa uno strumento di rivendicazione e celebrazione comunitaria.

La periferia, geografica e simbolica, rappresenta un luogo chiave in questa narrativa: i quartieri marginalizzati di Lisbona non sono semplicemente spazi di esclusione, ma veri e propri laboratori culturali, dove le identità frammentate si trasformano in forza creativaCome Dean Blunt gioca a risemantizzare e decostruire le aspettative sulla presupposta autenticità della blackness, la musica diventa lo strumento attraverso il quale la periferia, intesa sia in senso urbano che globale che epistemico, si riporta al centro.
Significativamente, questo processo di risignificazione, nel segno di un movimento teso a ribaltare le gerarchie spaziali e temporali del neocolonialismo, coinvolge la musica stessa. Come giustamente affermato da Brown Jr., generi di musica da ballo espressamente afroamericani (che prestano l’impalcatura discorsiva su cui si innesta la musica di Príncipe) come la techno e l’house, sono e sono stati oggetto di processi di whitewashing, specialmente in Europa. Eppure, non si può nemmeno affermare che la musica dellə artistə di Príncipe sia da interpretare come pratica di “restituzione” – né all’Africa che ancor meno all’Europa o agli Stati Uniti, supposte “origini” della musica da ballo elettronica. Piuttosto, la musica di Príncipe invita un tipo di ascolto inquadrabile nella lente diasporica offerta da Kodwo Eshun, che seguendo i movimenti della musica nel tracciare geografie postcoloniali complesse, scardina la bipolarità di ogni topografia semplicistica, rendendo obsolescente il concetto stesso di “origine”.

In un mondo fatto di cocci, l’etichetta dimostra che la musica può trasformare il caos contemporaneo in un potente strumento di rinascita creativa.

Ulteriore elemento interessante del fenomeno Príncipe è l’attualità dei concetti e delle problematiche che un’analisi delle loro pubblicazioni e del loro linguaggio mette in luce. Per esempio, Nuno Beats raggiunge grande popolarità su TikTok, dimostrando come questo tipo di musica sia, senza distorcersi nei significati, completamente in linea con le posture mediali dell’oggi. In ogni produzione trasforma le tradizioni in risposte creative alle forme e ai contenuti della contemporaneità.

Il successo internazionale di Príncipe, lə cui artistə riempiono le line up dei festival europei, testimonia la capacità dell’etichetta di colmare le lacune nella rappresentazione delle comunità afrodiasporiche. Come afferma Gomes, questa musica “può funzionare in Africa, in America Latina, in Asia e naturalmente in Europa”. Una qualità che non va intesa come trascendente, ma anzi come espressione della multiculturalità comune a tutto il mondo globalizzato, offrendo ad altre comunità la possibilità di affrontare i propri retaggi coloniali, mentre dà occasione all’etichetta di espandere il suo impatto culturale.
Príncipe finisce con l’essere non solo un’etichetta, ma un progetto culturale che ridefinisce il rapporto tra centro e periferia, tradizione e innovazione, celebra la comunità e sfida le gerarchie culturali. In un mondo fatto di cocci, l’etichetta dimostra che la musica può trasformare il caos contemporaneo in un potente strumento di rinascita creativa.