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Prova di libertà

Com'è stato tornare a muoversi a Milano

Written by Martina Di Iorio il 5 May 2020

Seppur timido questo è un nuovo inizio. Ce lo ricorda Ghali con il nuovo video del Comune di Milano, che a metà tra uno spot Sammontana e uno Barilla parla di rinascita e passo avanti. Ce lo ricordano anche i billboards per le strade, che prendono il posto dei più perentori “state a casa”. Questo tanto agognato afflato di quasi libertà è iniziato. E nel migliore dei modi, almeno per ora. Così l’italiano, quello di cui non fidarsi, da bacchettare e redarguire, sembra essere stato recettivo al messaggio: “Questo non è un liberi tutti”.

Io, trekker urbana (quasi) di professione, macinatrice di chilometri tra l’asfalto della città, ho sofferto molto l’impossibilità di muovermi in questi mesi. D’altronde nella gerarchia delle priorità il mio sacrificio, come il vostro, è risultato sopportabile alla luce del prezzo che molti altri stanno ancora pagando. Ho aspettato il 4 maggio con un’intensità con cui non ho mai aspettato niente in vita mia. Sinceratami di quello che potevo o non poteva fare, ho rimesso ai piedi le Nike sfondate, mi sono chiesta ridendo se mio fratello fosse un congiunto a tutti gli effetti, e ho deciso di mettermi in strada. Ho riacceso l’applicazione conta passi, direzione Sarpi, nel mezzo l’intera città e la voglia di vivere.

I piccoli esercizi hanno iniziano a riaprire, c’era un brulicare di lavoratori che pulivano, organizzavano, rinascevano

Come un bambino che scopre il mondo passo dopo passo mi sono guardata attorno. Non sono mai stata così recettiva ai segnali della città. Mi è sembrato quasi di non conoscerla più, di non sapere le strade, di vedere tutto con occhi nuovi. Nonostante le pattuglie della Polizia fossero ovunque, non mi sono sembrate minacciose: se ognuno di noi opera nella legalità e responsabilità questo momento non può che essere di beneficio per tutti. Il mio bar del cuore ha riaperto, in modalità take away: una persona alla volta, si mantiene il metro di distanza dal bancone, igienizzante e guanti all’ingresso. Ho preso una brioche alla crema che strabordava, l’ho mangiata per strada, sapeva di zucchero, burro e una nuova quotidianità ritrovata. Ho percorso via Vittor Pisani, con la Stazione Centrale deserta, bellissima e immobile sullo sfondo. I piccoli esercizi hanno iniziano a riaprire, c’era un brulicare di lavoratori che pulivano, organizzavano, rinascevano.

La grande chimera dei trasporti ha superato la prova del primo giorno. Giravano vuoti, silenziosi, nessuna scena di panico alle fermate, che rimangono isole – ancora – abbandonate. I milanesi forse hanno deciso di muoversi con i propri mezzi, e in effetti il traffico mi è sembrato aumentato. Ho girato verso Gae Aulenti, le famiglie qui pedalavano in bici educate, le signore alle panchine distanziate, le coppie distanti ma vicine. I runner, quelli tanto odiati nei primi periodi di quarantena, correvano indisturbati. Nessun assembramento pericoloso, se non le rondini sopra il Bosco Verticale. Mi sono ricordata improvvisamente che è primavera.

Una donna che non sono riuscita a vedere, ma a solo a sentire, ci ha passato un gel sanificante e un menu. Ho ordinato tutto

Ho girato in una Corso Como deserta, disturbata solo dai rider dei delivery che governano la città. Mi sono resa conto di preferirla così. Arrivata in Sarpi ho incontro mio fratello, ma non ci siamo abbracciati, siamo stati ligi alle regole, anche se la verità è che in fondo siamo degli anaffettivi. Sarpi è ancora lontana dall’idea che ricordo di avere, ma ha iniziato a popolarsi. Qualche timido ristorante ha riaperto, come Jin Yong, sempre in modalità asporto. Non ci hanno fatto entrare, sono barricati dentro, tavolo a impedire l’ingresso, cellophane all’arrembaggio come schermatura. Una donna che non sono riuscita a vedere, ma a solo a sentire, ci ha passato un gel sanificante e un menu. Ho ordinato tutto: mangiare cinese era una cosa che mi mancava.
Nell’attesa ho scambiato due parole con questa ragazza invisibile. Mi ha spiegato come la maggior parte della sua comunità di Chinatown ancora non ha voglia di riaprire. Loro lo fanno solo per dimostrare che stanno bene. Mi è sembrato il pranzo più buono della mia vita.

Sono ripartita verso il Parco Sempione e anche qui mi sono stupita della grande civiltà. Nessun affollamento, passeggiate distanziate, ciclisti corretti e precisi. Le mie gambe urlavano tregua, il mio cuore Duomo. E la sua vista è stata impagabile, come quella di Cracco mascherato con il proprio team che riorganizzava l’apertura in modalità d’asporto del proprio locale in Galleria Vittorio Emanuele. Unica insoddisfazione? Vedere il Camparino chiuso (altra cosa mi manca). Ma attenderò.

Il ritorno a casa, verso Nolo, è stato un crescendo di ritrovato equilibrio. Nonostante il traffico più sostenuto su Buenos Aires e gli attraversamenti pedonali più congestionati, questo primo giorno è stato un grande esame superato per tutti. Il senso di condivisione e unione che ci ha caratterizzati in questo periodo, e la ritrovata idee di essenzialità – ognuno a proprio modo -, spero ci accompagni ancora in questo momento. Ora che l’avvocato torna avvocato, il medico torna medico, il bartender torna bartender, che non si sprofondi in un cieco individualismo e menefreghismo spietato. Mi è tornata in mente una poesia, che i molti attribuiscono erroneamente a Neruda pur essendo di Martha Medeiros: “Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi”. Sotto la mascherina un sorriso.