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Rapporto semiotico dall’infosfera sarpiana

Draghi, ideogrammi, toponomastica: approccio alla memetica delle insegne

Written by Piergiorgio Caserini il 10 September 2021
Aggiornato il 20 September 2021

Foto di Agnese Bedini e Alessandro Saletta

Sarpi è un luogo privilegiato. Come in ogni Chinatown, emerge con più facilità quell’idea di cosmopolitismo (concetto illuminista che sta andando un po’ in malora) innestatasi nel concreto della realtà locale. Kant avrebbe buone impressioni a riguardo. Se la riproduzione in scala di atmosfere, immagini e segni delle atmosfere cinesi può far pensare a un primo acchito alle cattedrali nel deserto – in fondo comuni in Cina, tipo Palazzo Strozzi rifatto pari-pari nel centro di un Outlet –, appena la si frequenta per un po’ si comincia ad avere la sensazione che quella patina da “rifacimento”, da “copia”, esuli a sua volta dal commerciale “puro”, dall’idea di villaggio-per-vendere, anzi. A tratti si ha l’impressione che le regole base del mercato di strada si pieghino ad altro. Un po’ è colpa del fascino. Si è imbastiti e addensati, lo sguardo spazia, il naso freme, il braccino come il Maneki Neko. Si vedono in lingua, si annusano alimenti strani ed esotici, ci sono draghi ovunque, il rosso predomina. Ecco, avete avuto un primo accesso alla sinosfera. Catapultati nella semiosi sinologica delle icone e degli spazi della Cina, si può correre il rischio di essere spaesati. Di perdersi – ma solo se si fa attenzione – tra le linee spesse degli ideogrammi in bold, tra neon alla sera che non possono che solleticare quell’immaginario tutto occidentale, alimentatosi a diete di fantascienza tipo Blade Runner.  

Foto di Agnese Bedini e Alessandro Saletta

Tutta questa ridondanza di segni, simboli, caratteri, è in fondo una “ricchezza” di rappresentazione – comprese le merci che sono, come ci dicono, omologate – è certamente una marcatura identitaria. E la marcatura maggiore è ovviamente il testo, il piacere del testo. E del non capirci, ancora, nulla. Ma andiamo per gradi.

Abbondano riferimenti della sinosfera: draghi, gli animali adamici dell’Oriente Rosso, la Fortuna, l’immancabile rosso, l’imperterrito Maneki Neko.

Sappiamo che qualcuno prende male simili marcature identitarie, questa ricchezza di segni, semplicemente male. Ci vede la “sinizzazione”. Morale della favola: il buon europeo vede il colonialismo quando lo fanno gli altri. Che poi oggi, a tratti, capita pure di vedere il concetto di meticciato tacciato di colonialismo, fraintendendo dei processi storici e culturali che in fondo sono un toccasana. Che sono il risultato di una geografia estesa, di quell’immagine di globo che ci portiamo appresso da qualche centinaio d’anni. Vale a dire la capacità – per certi versi osmotica – di tipo ogni cultura di assimilare tratti di altre attraverso piattaforme, mercati, e via dicendo. Bene, questa “sinizzazione” è più che altro, qui, il costante disegno di una sorta di safe-zone segnica e che comunque, in Cina, va avanti da parecchio. Insegne, etichette, usi della doppia lingua, packaging, l’unica cosa che si può dire sull’atteggiamento della cultura cinese ha una buona dose di qualcosa che si potrebbe chiamare osmosi conservativa. Vi facciamo un esempio concreto di sinizzazione, una storia brevissima: un tale (Kan Tai-keung, designer) prende gli m&m’s, pensa che non ci sia dignità nella carta usata in quella maniera e progetta una confezione di latta. Sino-m&m’s. 

Foto di Agnese Bedini e Alessandro Saletta

Insomma, vien da dire che qui ci sia una decisa conferma che la cultura debba essere memetica, proprio nel senso datogli al principio da Richard Dawkins. Una particella, un brandello di qualche entità o amalgama culturale che si propaga, si trasduce. Reiterazione. E allora ristoranti, associazioni culturali, bar, negozi, servizi, anche i mercati all’ingrosso, conseguenza logica dei piccoli market, rientrano effettivamente in questa logica. Un’informazione che passa da pagina a insegna e muta, da schermo a pagina e muta un’altra volta, com’è il caso delle etichette dei prodotti, del segno calligrafico o delle parole stesse tra le insegne. Lì abbondano riferimenti culturali o geografici della sinosfera: ci sono i draghi, gli animali adamici dell’Oriente Rosso, i fantastici progenitori non solo degli imperatori, ma di tutto l’Oriente – vi basti sapere, per misurare l’importanza del drago, che negli anni del drago del calendario cinese c’è puntualmente un boom di natalità –; a ogni angolo, cartellone, stipite, ci sono caratteri che spingono la fortuna a imbroccare la strada giusta, rigorosamente dorati e a fondo rosso – ci sono cose che non cambiano mai, o almeno non ancora. E il rosso, un altro elemento che ricorre al limite della compulsione, nelle insegne, negli abiti, nelle scritte, nelle vetrine, nelle etichette, insomma il rosso non solo rappresenta le fortune e il potere della vecchia sovranità imperiale, ma da lì, per una di quelle strane circostanze della Storia, si è perfettamente adattato allo spirito di regime comunista che da Mao in poi ha vestito la nazione. Diciamo “strane circostanze” vista la proliferazione di libretti rossi nel primo Novecento in Spagna, e da lì nel mondo. Se poi vi chiedete che cosa siano le scritte dorate che solitamente adornano gli striscioni – ovviamente rossi – che accompagnano ogni tanto gli stipiti delle porte o delle etichette, ecco, è un augurio per la prosperità, a testimonianza che la verve della Rivoluzione Storica è stata deposta dal gioco delle tre carte della mano invisibile del capitale, altra entità eminentemente memetica, in fondo. 

Foto di Agnese Bedini e Alessandro Saletta
Foto di Agnese Bedini e Alessandro Saletta

Da una parte si mantiene l’ambito dell’abitudine, dall’altra si fomenta in fondo un po’ quella sensazione d’esotico che l’occidentale fa fatica a lavarsi di dosso, e la si prende per le corna, come carota, con l’uso della doppia lingua. Che poi in fondo, l’elemento più connotativo di questa semiosi dell’infosfera sinologica che abbonda di immagini è la lingua, l’ideogramma. E proprio perché perde d’immediatezza. Non si capisce, ed è per questo che è affascinante (ricordiamo, però, le lamentele di qualche anno fa sulle insegne in cinese. Prova che lo spirito si ferisce, delira, se non sa leggere). Ed effettivamente, la scrittura cinese comincia come estetica ed eventualmente rituale, ci ricorda quel fenomeno di Barthes, destinata a scambiare due chiacchiere con gli dèi prima di diventare una scrittura funzionale. Alias: per funzionare, non necessariamente bisogna che comunichi così come comunicano i libri. Insomma, una storia che, come nota Vernant, probabilmente non è poi così dissimile da quella alle radici dell’Occidente, quando si guarda al passaggio tra micenei ed elleni, tra lineare A e B. Dal dio alla burocrazia, dal cosmo al diritto. 

La copisteria/cancelleria orientale ai nostri occhi è una specie di colorificio.

È un giro pindarico necessario a ricordarci che non è affatto scontato che la scrittura serva a comunicare. Chi lo dice? La storia? La carta? Le liste delle derrate agricole? La scrittura serve pure a nascondere. Ci sono scritture appositamente illeggibili perché mantengano i segreti che le sono state affidati. 

Foto di Agnese Bedini e Alessandro Saletta

Sempre ringraziando Barthes, che ci accompagna in pressoché qualunque riflessione debba riguardare la semiosi e la lingua – in barba a Chomsky –, ci piace l’idea che sia la cancelleria, il luogo del catalogo dei materiali inerenti alla scrittura, a fare da apripista nello spazio dei segni. Questione ostica in Chinatown, tanto per una questione di commercio all’ingrosso, tanto perché nelle cancellerie cinesi o giapponesi (nippofilia docet quando si tratta di Chinatown) si suppone abbiano, piuttosto che gli strumenti della spazializzazione albertiana – righelli e squadre e compassi dagli strani connotati massonici – pennelli e inchiostri. La copisteria/cancelleria orientale ai nostri occhi è una specie di colorificio. Anche perché esula totalmente da quella pratica della cancellatura. Pennelli, non matite. Non si sbaglia un cazzo. 

Insomma, la quotidianità di Chinatown è un guizzo costante di segni. C’è una comunicazione dalle insegne che è diversamente direzionata a seconda di chi la legge. È una delle magie del linguaggio: essere sempre altro da sé a seconda della posizione da cui si guarda. E ormai è talmente comune che non è scontato, si sa, pensare che sarà altrettanto comune, tra qualche tempo, trovare italiani delle prossime generazioni parlocchiare e leggere alla bene e meglio cinese. Sono stimoli che evolvono nel contesto degli ambienti meticci, è che si manifestano nell’immediato sui segni visivi: testi, insegne, etichette. Ed è osmosi, non sinizzazione. 

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