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Spazio pubblico, writing, arte urbana: un ciclo di incontri oltre gli stereotipi

La nostra intervista alla curatrice Fabiola Naldi

Written by Salvatore Papa il 17 April 2023

Dal 20 aprile al 25 maggioogni giovedì in sala conferenze MAMbo – con ingresso libero – arriva  una serie di incontri (qui il calendario) curati da Fabiola Naldi che, a partire dalla presentazione di alcune importanti pubblicazioni indipendenti, intendono intervenire nel dibattito sul ruolo dello spazio, sia pubblico che privato, e sulla disciplina del Writing andando oltre gli stereotipi che riguardano il degrado, la sicurezza, il decoro, la responsabilità privata e pubblica e la testimonianza artistica.

Le pubblicazioni e gli autori coinvolti sono i seguenti: Espressioni urbane. Muri sconciati, writing e street art, a cura di Pierpaolo Ascari e Pietro Rivasi, Mimesis, Milano 2021; Kill tha G Word – The italian years of P.H.A.S.E. 2, a cura di Maurizio D’Apollo, Edizioni indipendenti, Milano 2022; Spice Style Diary – Writing, my creative process di Diego Faverzani, Edizioni ShowDesk, Napoli 2022; Roma Subway Art, a cura di Mathieu Romeo e Lorenzo D’Ambra, Whole Train Press, Roma 2020; Lost in Strokes di Luca Barcellona, Lazy Dog, Milano 2022; All City Writers. The Graffiti Diaspora di Andrea Caputo, Kitchen 93, Londra 2012 (in fase di aggiornamento e ristampa).

Ne abbiamo approfittato per fare qualche domanda alla curatrice.


A bruciapelo: qual è il principale problema che abbiamo oggi rispetto al Writing e allarte urbana come città e, più in generale, come Paese?

Faccio critica militante nel mondo delle culture urbane da più di vent’anni e da circa lo stesso periodo ho tentato di chiarire i molti fraintendimenti linguistici, i paradossi e le contraddizioni (sia nei termini sia nelle azioni) generati o alimentati dall’opinione pubblica e insiti nelle pratiche stesse. Non nego che ci sia stata una connivenza di diversi “attori” nell’amplificare la confusione a cui siamo giunti oggi; e aggiungo che la più recente scena dell’arte come anche il sistema che la produce, la gestisce, la capitalizza non hanno aiutato. Periodicamente, l’accettazione e l’esaltazione, come la negazione e la condanna per le pratiche urbane (e in questo nessuno è escluso – gli operatori culturali come la politica e i media), hanno confuso il pubblico costringendolo a piegarsi a logiche precostituite e pregiudiziali. A loro volta gli ”attori” della strada hanno in parte indurito il proprio linguaggio rifiutando ogni condivisione e mettendo in atto vere e proprie guerriglie di segni che spesso le metropoli comunicano come motivo di “deperimento” del welfare e del vivere comune. Ho scritto libri, ho curato convegni, ho ideato progetti nello spazio pubblico con approcci diversi e per svariati contesti, ma la frustrazione, l’incomprensione, la mistificazione nei diversi interlocutori continua e dimostra che io, forse, non ho fatto bene il mio lavoro e che, allo stesso tempo, all’esterno si è voluto strumentalizzare alcuni interventi indubbiamente contraddittori.
+ PUBLIC – PROGRAM non è altro che il mio estenuante tentativo di continuare a dibattere, a creare occasioni di confronto, ma a partire da coloro che la strada la vivono davvero, con coloro cioè che la città l’hanno vissuta, “usata”, trasformata, invasa nel nome e nelle regole di una scelta espressiva precisa. A questo fammi aggiungere che, sebbene io mi sia occupata di spazio pubblico in tutte le sue declinazioni, le mie competenze non sono di carattere securitario, giuridico o politico. Io sono una storica dell’arte, una fenomenologa per essere più precisi, e come tale ho scelto di relazionarmi nei contenuti teorici con tutte quelle pratiche  che operano sui limiti espressivi e sulla legalità degli stessi. Riconosco momenti in cui la città e la sua pelle sono state più o meno aggredite, ma fammi dire una volta per tutte che tale invasione segnica non è dovuta solo a un unico linguaggio e che continuare a generalizzare offusca il giudizio, modifica la percezione comune e acuisce la frustrazione della cittadinanza stremata non solo dai muri “sporchi”. Certamente il mio ambito scientifico di studio e di ricerca mi ha condotto a un punto tale di codifica dei molti strati grafici delle superfici urbane che la mia percezione della strada è alquanto diversa da quella delle molte persone che quotidianamente mi segnalano il “degrado” murale. E forse tu sai quanto io abbia continuamente utilizzato le mie competenze per codificare e non spiegare, per ragionare e non per contrapporre, per supportare una conoscenza più profonda e complessa di ciò che la strada, i muri (e non solo) esprimono ai propri abitanti.

Se larte urbana si inserisce in uno spazio pubblico, bisogna ovviamente prima capire cosa si intende per pubblico”. Sebbene però il concetto di pubblico” cambi con i tempi (penso anche alle conseguenze della privatizzazione subdola degli spazi pubblici e di come questa abbia cambiato il nostro rapporto con essi) resta fermo il fatto che ciò che è pubblico dovrebbe essere di tutti. Perché invece larte pubblica è una concessione limitata e il resto è illegale? Ha davvero senso parlare di arte pubblica?

Il concetto di pubblico è sicuramente cambiato nel tempo come mi è capitato spesso  di scrivere e di ribadire in interventi di vario tipo. Lo stesso si può dire del concetto di spazio e della modalità in cui noi ora viviamo lo spazio. È cambiato anche alla luce degli ultimi anni e di conseguenza anche dopo la tragica e ancora non risolta esperienza della pandemia mondiale. È altrettanto vero che negli ultimi anni molte città italiane hanno vissuto e stanno subendo un’accelerazione e una trasformazione speculativa intesa come reazione alla grande immobilità e alle crisi economiche dal secondo decennio del 2000 fino a quella post-pandemico. A volte penso che questa violenta rincorsa al “recupero del credito” sia molto simile a ciò che accadde in Italia nei primi anni Cinquanta ovvero nella piena e veloce rincorsa alla ricostruzione conseguente alla distruzione del secondo conflitto mondiale. Indubbiamente sono periodi diversi, si apre però una riflessione che non deve essere relegata al settore economico, deve allargarsi all’ambito sociologico, antropologico e chiaramente culturale. A tutto questo aggiungiamo la schizofrenia direzionale e le politiche incoerenti che hanno “lasciato” accadere questa trasformazione (la voglio chiamare così perché altrimenti introdurre e motivare la parola gentrificazione meriterebbe un’altra intervista) in modo opportunistico e strumentale. Sicuramente sono d’accordo con te nell’affermare che ciò che è pubblico debba rimanere tale, debba essere difeso in maniera costante e continua dalle politiche privatistiche e che tale consapevolezza debba essere portata all’attenzione dei cittadini. Permettimi però di fare una precisazione che per me è molto importante: ciò che noi dovremmo costantemente discutere in un dibattito di puro stampo culturale è che cosa la cittadinanza intende per pubblico in questo momento storico e come la stessa cittadinanza, la popolazione che fruisce di contenuti culturali di vario genere, fino ad arrivare ai turisti intendono l’uso del pubblico (spazio, cultura, mediazione, accessibilità ecc.). E per essere ancora più precisa non credo che la tanta partecipazione di cui spesso si parla produca sempre una fedele restituzione del tempo vissuto e delle esigenze come dei desideri. A questo aggiungo che io non mi sono mai occupata di arte pubblica, mi sono sempre occupata di processi artistici nello spazio pubblico; l’arte pubblica intesa come Public Art ha una sua storia, ha una sua origine storica, ha dei linguaggi precisi a delle relazioni di cui spesso i processi artistici spontanei nello spazio pubblico non tengono conto, quindi l’impostazione della tua domanda può essere fuorviante perché non so quanto sia interessante parlare solo di Arte Pubblica (con le lettere maiuscole) mentre credo che sia utile oggi indagare l’eterogeneità delle vicende e per questo servono tutti gli strumenti che possano aiutare a cogliere le differenze invece di appiattirle.

Nelle premesse del programma non viene mai nominata la street art, perché?

Perché Street Art è un termine strumentalizzato dai mass media come la parola graffiti che PHASE 2 odiava perché inizialmente utilizzata dai quotidiani americani nei primi anni Settanta per indicare quanto gli interventi dei primi writer fossero qualcosa di osceno, di illegale, di degradante e ancora oggi, a distanza di mezzo secolo, è spesso utilizzato in modo fuorviante. Inoltre, come mi è capitato di scrivere in molte pubblicazioni, il termine Street Art è riduttivo e le pratiche artistiche nello spazio pubblico sono certamente legate alla strada, sia in senso letterale che metaforico, ma anche in questo caso il rischio lampante è quello di incorrere in una eccessiva banalizzazione. Aggiungo che il termine Street Art è presente nel titolo del primo libro collettaneo edito da Mimesis di cui parlerò con i curatori Pierpaolo Ascari e Pietro Rivasi e che all’interno del volume è ampiamente discusso proprio per la natura ambigua che ha assunto nel tempo.

Dici giustamente che c’è unossessiva e pervasiva fascinazione, mappatura e strumentalizzazione di ogni tipo di pratica di writing o arte urbana presente nel tessuto urbano. Come ci siamo arrivati?

Siamo giunti a questo eccesso perché purtroppo è un percorso insito nell’emersione dal sottosuolo di certe pratiche nascoste, sperimentate da pochi nelle prime fasi. Con questo intendo dire che è alquanto comune che la sperimentazione quando viene affrontata, conosciuta e condivisa da molte più persone possa divenire popolare, “famosa” e come tale anche cannibalizzata. A questo tipo di strumentalizzazione partecipano spesso anche gli stessi operatori culturali che appartengono alla disciplina. In parte anche io con le mie ricerche, le mie pubblicazioni, i miei progetti ho ampliato e divulgato la conoscenza di alcune pratiche, anche di quelle più estreme e radicali. Non ho però mai pensato a un effetto turistico di queste pratiche, di queste ricerche: ho sempre pensato che la città potesse accogliere le contraddizioni provenienti dalle azioni spontanee per comprenderle e farne argomento di dibattito ed è chiaro che sto pensando a Frontier – La linea dello stile. Progetto però che io e Claudio Musso abbiamo interrotto quando la città non viveva più le condizioni culturali per comprendere le derive più strumentali, più capitaliste, più opportuniste legate le stesse pratiche.

Non diciamo nulla di nuovo se affermiamo che spesso e volentieri larte urbana (o in generale larte underground) viene sfruttata ai fini della valorizzazione immobiliare e diventa uno dei motori della gentrificazione. Quanto contano i diversi fini nelle pratiche stesse e nel loro studio? 

C’è stato un tempo in cui la speculazione edilizia e la presenza di progetti o interventi più o meno spontanei sui muri collimavano. Vale a dire che la speculazione edilizia e immobiliare ha tentato e a volte è riuscita di strumentalizzare queste presenze. Molti operatori culturali si sono ribellati a questa strumentalizzazione economica, alcuni hanno cancellato, altri hanno fatto causa, altri ancora si sono rifiutati di autenticare determinati interventi, ma certamente è accaduto. La crescente popolarità di una certa tipologia di arte urbana si è in parte normalizzata e quindi l’effetto “bolla” economica si sta ridimensionando. Questo almeno in Europa, in Italia siamo indietro di almeno 5 anni nel dibattito sull’arte urbana quindi stiamo ancora facendo i conti con questa deriva. C’è una parte degli operatori culturali che accetta questo terribile compromesso, come anche molte amministrazioni anche pubbliche che usano le pratiche urbane sotto il nome di rigenerazione o partecipazione, ma che in realtà hanno poco a che vedere con tutto questo perché non tengono in considerazione spesso l’aspetto sostanziale di queste pratiche ovvero la loro immaterialità e la loro estemporaneità. Ciò che spesso viene chiamata come valorizzazione o conservazione di questi interventi ha invece a che vedere con un mantenimento di un bene, di un bene rifugio quasi come un tempo lo si intendeva. Diverso è invece ciò che fanno gli stessi operatori culturali che hanno scelto il compromesso della relazione con il sistema dell’arte contemporanea e che quindi producono opere, oggetti, testimonianze indipendentemente dalla loro presenza sul tessuto urbano. 

Fai parte anche della nuova commissione per larte pubblica. Come sono andati i primi incontri e quali benefici potrà portare secondo te?

Ad oggi abbiamo fatto due incontri, uno conoscitivo, l’altro a tutti gli effetti operativo. Ho personalmente chiesto che tutti i nostri interventi siano trasparenti sia nei contenuti sia nella votazione, perché ritengo che la responsabilità della scelta debba essere condivisa se non altro negli intenti. Sono in corso i tempi tecnici per creare uno spazio virtuale pubblico dove la Commissione potrà inserire tutti i contenuti degli incontri per tutti coloro che vorranno sapere cosa stiamo facendo. Ci tengo a rimarcare, almeno per me è molto importante, che la presenza di tutti noi dentro la Commissione è gratuita, dato affatto scontato di questi tempi. Detto ciò se ci saranno dei benefici si potranno valutare a lungo termine come dovrebbero essere le visioni culturali di una città che “ragiona” non per eventi, ma per progetti che spesso portano anche problemi prima ancora di portare benefici. Sono sempre stata convinta che il ruolo di un operatore culturale sia quello di occupare spazio di azione e di pensiero. E per essere ancora più precisi, e come mi è capitato di fare in altre occasioni, così come si entra si può anche uscire. Così come si è creduto si può anche smettere di farlo, ma il dibattito sterile del compianto, della lamentela e della malinconia dei bei tempi andati non mi interessa.

Proprio in questi giorni è stata presentata una proposta di legge per inasprire le pene a chi imbratta” i monumenti. Sembra chiaramente fatta per colpire gli attivisti di Ultima Generazione, ma ha anche una portata più ampia che riguarda il discorso del decoro in genere. Guardacaso la prima firma è di un bolognese…

L’inasprimento delle pene per l’imbrattamento dei beni culturali non ha solo a che vedere con gli attivisti di Ultima Generazione. Certamente il gesto ridicolo, propagandistico e populista non degli attivisti, ma del sindaco Nardella ha accelerato quanto in realtà stava già accadendo da alcuni anni. È in corso da tempo a partire dai media (ma non solo), un irrigidimento, una dichiarata avversione nei confronti di tutto ciò che accade nello spazio pubblico attraverso la bieca retorica del decoro, della conservazione dei beni artistici e della “buona” e della “cattiva” arte. Gli operatori culturali come gli studiosi di queste pratiche sono assolutamente a conoscenza di quanto negli ultimi vent’anni queste leggi non si siano ammorbidite bensì si siano indurite e a farne le spese sono stati principalmente coloro che sui muri scrivono certamente in maniera indisciplinata, ma che hanno un’età molto bassa. Stiamo parlando di minori, stiamo parlando di adolescenti che usano certamente la città in un modo disordinato, ma che a volte scelgono il Writing come elemento indiscutibile della loro crescita. Io non ho nulla contro tutti i cittadini che si attivano per pulire i muri, per rinfrescare la facciate, per restituire ciò che molti considerano decoro urbano: ho, però, il dovere di continuare a ribadire che noi ancora prima di pulire muri dovremmo chiederci perché questi muri sono sporchi secondo la loro visione e perché, soprattutto sui muri di Bologna, le presenze segniche di vario genere sono così costanti, invasive e persistenti. Questo è uno dei punti fondamentali di questo ciclo di incontri: attraverso la presentazione di alcune delle più importanti pubblicazioni promosse, volute e spesso autoprodotte dagli stessi writer, il mio intento è alimentare il dibattito, indagare i risvolti, dare la parola a coloro che spesso sono considerati i peggiori delinquenti, quelli da punire, da arrestare, da multare quasi fossero gli unici colpevoli di un disagio sociale e umano che ha cause e sviluppi molto più complessi. La pubblicazione che verrà prodotta al termine dei sei appuntamenti vuole, inoltre, essere il momento restituivo dell’indagine. Questo è quello che so fare, scrivere, e per questo credo che certificare con una pubblicazione i loro interventi e le conversazioni che scaturiranno sia un atto di democrazia culturale.

Uno degli incontri che salta subito allocchio è quello dedicato a Phase 2, scomparso nel 2019. Del suo passaggio da Bologna ci sono ancora un paio di testimonianze. Perché è stato così importante e perché hai scelto di omaggiarlo?

Ho scelto di omaggiare Phase 2 perché l’ultimo intervento realizzato a Bologna, e in parte il suo ultimo intervento in termini assoluti, è quello realizzato per Frontier nel 2012. Ho sempre detto che Phase 2 si meritava il museo, l’istituzionalizzazione della sua storia come artista totale doveva essere una responsabilità del luogo in cui si storicizza e si fa teoria artistica. Phase 2 è stato a lungo in Italia come dimostra la pubblicazione e come dimostrano i molti interventi presenti nel libro (fra cui anche un mio testo) e Bologna gli ha sempre dimostrato massima apertura, accoglienza, ricevendo da lui una vera e propria educazione allo stile.