Raffinato costruttore di immagini, Adrian Paci vive a Milano da oltre 20 anni, arrivato in città con una borsa di studio per la prima volta nel ‘92 ha poi deciso di trasferircisi con la famiglia. La sua ricerca si muove tra la pittura e le immagini in movimento ed è in grado di tradurre le esperienze da personali a universali attraverso raffigurazioni potenti ed evocative. Un artista che ha meritatamente ottenuto un grande riconoscimento internazionale e a cui Milano ha dedicato una bella mostra al PAC nel 2013. Durante la settimana dell’art week (il 27 marzo) apre una personale, The Guardians, curata da Gabi Scardi nei Chiostri di Sant’Eustorgio e parallelamente (il 29) una mostra alla Galleria Kaufmann Repetto (con cui lavora in Italia), the people are missing.
Lo abbiamo incontrato davanti a un caffè una mattina prima della sua lezione alla NABA. Adrian Paci, che seguiamo da tempo con ammirazione, ci ha accolto con il suo modo gentile e discreto, abbiamo parlato molto e di svariati argomenti: dal realismo socialista, alla religione, al significato dell’essere artista, facendoci raccontare del suo lavoro, di questa mostra a Sant’Eustorgio e naturalmente del suo rapporto con Milano.
Sei arrivato a Milano per la prima volta nel 1992 con una borsa di studio e poi hai deciso di tornarci definitivamente nel 1997. Come mai hai scelto Milano e a che punto era la tua carriera artistica in quel momento?
Adrian Paci: Nel ‘92 avevo appena finito l’accademia e non avevo una carriera artistica, ero un bravo studente ma avevo fatto solo quelle mostre che fanno i giovani all’inizio. La vita artistica in Albania era ancora molto centralizzata e organizzata dallo Stato e dalle istituzioni pubbliche.
C’era il vincolo del realismo socialista in quel momento?
L’Albania era nel pieno del regime comunista e dal punto di vista del linguaggio artistico sì, vigeva il realismo socialista. Però a fine anni Ottanta si tentavano strade nuove, pur sempre nel rispetto di quel codice rigido, che oltre al figurativismo formale, doveva avere anche una componente eroica, celebrativa, un ottimismo monumentale. A fine anni Ottanta entra nell’arte albanese uno spirito più mistico, anche grazie all’attenzione verso temi storici o mitologici.
C’è stata anche l’apertura di un museo dedicato all’eroe nazionale, Scanderbeg, che fu completamente affrescato e quegli affreschi ricordano quasi più il Quattrocento italiano che non il realismo socialista.
Ma arrivava qualche suggestione di ciò che accadeva nel mondo dell’arte al di fuori dei confini nazionali?
Nell’ambito del contemporaneo no. Lo studio della storia dell’arte era bloccato all’Impressionismo e tutto ciò che veniva dopo era considerato l’inizio del degrado del linguaggio artistico. C’erano studenti albanesi che erano stati nelle scuole dell’Europa dell’Est o dell’Unione Sovietica prima degli anni Sessanta e che avevano visto nei musei qualche Matisse, Picasso, Braque, Van Gogh o Gauguin, ma poi l’arte che questi artisti producevano continuava ad essere quella dettata dall’ideologia.
Un altro aspetto che inizia ad insinuarsi alla fine degli anni Ottanta è una specie di lirismo poetico, un po’ melancolico, qualcosa di non così eroico e monumentale.
Io ho finito l’accademia quando il realismo socialista si stava aprendo verso queste forme, che comunque non avevano nulla a che vedere con le tendenze dell’arte contemporanea internazionale.
Una cosa che mi ha colpito leggendo la tua storia è che nel ‘92 sei venuto a Milano per studiare arte e liturgia, è interessante perché venivi da un paese in cui la religione era vietata….
Sì, l’Albania era l’unico paese del mondo in cui la religione era vietata per costituzione, non semplicemente osteggiata dallo Stato. Non solo l’istituzione religiosa era vietata, ma lo erano anche l’espressione religiosa e l’esperienza spirituale.
Per precisione devo dire che non ho fatto domanda per questa borsa di studio specifica, nel periodo che seguì la caduta del comunismo in Albania arrivarono diverse borse, anche offerte da istituzioni religiose italiane, per studenti di vari ambiti disciplinari. Per me si è presentata questa possibilità presso una scuola di Milano chiamata Beato Angelico e per me rappresentava un’apertura verso una realtà sconosciuta in Albania nei confronti della quale nutrivo una forte curiosità. Questo inoltre significava andare a Milano, rapportarsi con l’Italia e il mio interesse primario era legato all’arte contemporanea, non all’arte religiosa.
Ma che rapporto hai con la religione? Stai per presentare un lavoro nella chiesa di Sant’Eustorgio e a Milano nel 2011 hai già realizzato la “Via Crucis” nella chiesa di San Bartolomeo.
Non ho un rapporto di devozione, ma un rapporto di attrazione, curiosità e a volte di nostalgia rispetto a un vissuto privato.
Da una parte ci sono le memorie che mi legano alla nonna che mi ha battezzato (non sono stato portato da un prete) o agli anziani della famiglia che stavano di nascosto ad ascoltare la messa.
È un rapporto legato anche al ricordo dell’entusiasmo degli anni Novanta. Il primo atto contro il regime è stata la celebrazione di una messa in un cimitero cattolico nel mese di Novembre. Ma è fatto anche di figure importanti della tradizione cattolica albanese, del clero, ma anche laici che però sono stati spesso uccisi, torturati, mandati in galera o nei campi di concentramento.
Quando sono arrivato in Italia ho capito di avere verso la religione una percezione diversa rispetto a quella degli intellettuali liberali che ammiravo e ammiro. Nella mia storia passata la religione non ha significato oppressione, bigotteria o moralismo superficiale e ipocrita, ma al contrario voleva dire resistenza e connessione culturale con un mondo (il resto d’Europa) da cui ci siamo sentiti strappati.
Poi è un rapporto che è stato nutrito come un’esperienza individuale e come atteggiamento culturale. Ad esempio il primo film che ho visto di Pasolini è stato Il Vangelo secondo Matteo, in cui ho trovato l’attrazione per un tipo di umanità che ha un bagaglio culturale all’interno del quale il cristianesimo ha lasciato un’impronta molto forte.
Puoi raccontaci qualcosa sul lavoro che presenterai a Sant’Eustorgio?
Sarà una mostra fatta di nove lavori, alcuni nuovi e altri già esposti, che si sviluppa oltre che nella Cappella Portinari anche al Museo Diocesano.
Uno dei lavori nuovi, che sto finendo adesso, è un lavoro che ho iniziato a Roma dove sono stato invitato a incontrare le realtà con cui lavora la comunità di Sant’Egidio, in quell’occasione ho incontrato un gruppo di rifugiati siriani, arrivati in Italia con i corridoi umanitari. Lì ho incontrato una donna con una storia molto forte alla spalle e che aveva voglia di raccontarla, filmando questo racconto ho notato che c’erano dei momenti di silenzio, quando lei aveva finito raccontare il suo frammento di storia e prima che l’interprete iniziasse a tradurli, durante i quali il suo volto acquisiva un’espressività forte. Ora sto raccogliendo in un video tutti questi momenti di silenzio, sto togliendo la parola come fonte d’informazione, per far vedere come una storia può essere raccontata attraverso i gesti ed evidenziare come il volto stesso possa diventare una specie di finestra attraverso la quale leggiamo qualcosa di meno esplicito.
Poi c’è un altro lavoro che ho appena finito, anche se iniziato lo scorso anno qui a Milano, anche questo nato in un centro per richiedenti asilo. Durante l’Expo ero stato invitato a lavorare con altri artisti sul tema del cibo e dello stare insieme attorno a un tavolo. Sono andato a casa Monluè e lì vedendo queste cucine metalliche, fredde, con un forte senso di attesa e solitudine, ho immaginato una presenza gioiosa, un’orchestra che entra in questo luogo e improvvisa una festa. C’è un’orchestra composta da italiani che cantano e suonano musica albanese, quindi non una musica propria, li ho fatti venire e abbiamo improvvisato questa irruzione nelle cucine di Monluè e attorno a questa esperienza ho costruito un video, che la racconta in modo discreto e non così esplicito.
Quindi queste in realtà non sono opere strettamente legate alla religione, però ha comunque un significato molto profondo mettere dei lavori di questo tipo in un luogo così…
Sì ha un significato perché da una parte problematizza lo spazio religioso e un po’ dà un’altra dimensione a questa realtà. L’altra cosa che m’interessa oltre all’aspetto religioso degli spazi, è il rapporto con l’arte che c’è lì all’interno, dall’architettura alle opere. Esporre un lavoro accanto agli affreschi di Vincenzo Foppa vuol dire entrare in dialogo con un linguaggio e una personalità artistica. Trovo interessante questa dimensione che porta l’esperienza a misurarsi con altri tempi, altri linguaggi, altre modalità e contesti. Si tratta di affrontare un dialogo.
Da un altro punto di vista m’interessa anche l’idea di uscire dal dominio totale della contestualizzazione del sistema dell’arte.
Torno un attimo indietro: quali sono le prime opere d’arte contemporanea che hai visto a Milano? Ti ricordi che cosa hai pensato?
Ricordo una mostra di Cucchi a Palazzo Reale e poi le conferenze organizzate da Roberto Pinto alla Triennale. Ricordo anche la Biennale di Venezia del ‘93. Ero molto curioso ma anche confuso. Il mio rapporto con l’arte contemporanea e con la cultura contemporanea in generale non è stato lineare e non si è costruito passo dopo passo, ma vive di ritardi e di accelerazioni, è fatta di vuoti, di desideri e di curiosità.
Per certi versi il tuo è un lavoro anche molto intimo, hai incluso nelle tue opere momenti personali (The Wedding, 2001), ti sei esposto e hai dimostrato di non aver paura di metterti in piazza a stringere le mani (The Encounter, 2011) o di metterti letteralmente a nudo (Home to go, 2001). Non c’è mai timore in questo?
La realtà non entra mai nell’opera senza filtri. Quello che mi interessa è lo spostamento che si crea, quando qualcosa di privato, che ti appartiene va oltre te stesso trasformando la contingenza in qualcosa di universale.
Io in piazza che stringo le mani, non sono la persona Adrian Paci, ma sono l’artista che attiva un gesto, anche se poi lo fai individualmente, diventa comunque qualcosa di molto più ampio nello spazio e nel tempo. Se fai una cosa del genere in uno spazio pubblico crei quasi un rito e alla fine crei un’immagine, perché questa performance viene filmata dall’alto e questa è una realtà che va oltre alla singolarità della persona.
Per me è importante che ci sia sempre una dimensione privata che però non deve essere autocelebrazione, ma deve entrare in relazione sia con una dimensione pubblica, sociale o politica, sia con una dimensione di stratificazione del linguaggio artistico.
Nei tuoi lavori hai utilizzato vecchie pellicole, hai realizzato film ma hai anche tradotto le immagini video in dipinti. Che rapporto hai con le immagini in movimento?
C’è un nutrimento reciproco, io nasco come pittore e ho dietro di me un bagaglio da pittore. Dopo un’esperienza con l’arte astratta negli anni Novanta, entra nella mia ricerca artistica il mezzo del video. Però se vogliamo è come se il mio primo video fosse un ritratto, quello di mia figlia che racconta storie (Albanian Stories, 1997 – n.d.r.), con una modalità di narrazione che riprende la formula delle fiabe antiche. In quel caso il video diventa un mezzo necessario ma senza nessuna pretesa estetica o estetizzante.
Il mio rapporto con il video è molto influenzato dall’immaginario pittorico, così come la mia pittura da fine anni Novanta nasce esclusivamente dal mio rapporto con l’immagine in movimento.
È come se sentissi il bisogno di fermare queste immagini e dargli un’altra fisicità, un altro tempo sia di contemplazione sia di realizzazione, è come se io leggessi l’immagine video attraverso la voce della pittura. Anche se apparentemente si tratta semplicemente della traduzione dall’immagine da video a pittorica, sono convinto che la pittura offra una possibilità di rilettura anche di senso. Perché la pittura ha una sua complessità fatta di gesti, superfici e materiali, stratificazioni di tracce, che contiene non solo forma ma anche contenuto.
Ci sono stati momenti nella tua vita in cui per necessità hai dovuto fare altri lavori. Hai mai pensato di lasciar perdere perché era troppo faticoso?
Certo, come molti altri che studiano una materia, ma poi magari la vita li porta ad occuparsi di altro.
Dal 1997 al 2000 ero qui con la mia famiglia in una situazione molto precaria e c’erano delle priorità a cui dovevo dedicarmi e l’arte non era chiaramente tra queste.
Fare arte però non è solo portare avanti un’attività produttiva o affermare uno status, vuol dire continuare a farsi delle domande e in quel periodo non ho mai smesso di farmele, come adesso.
Credo comunque che faccia bene a tutti passare un momento in cui la propria identità viene fortemente messa in discussione, perché ci si domanda se si sta facendo qualcosa per inerzia. Fare l’artista vuol dire anche appartenere ad un sistema che ti spinge continuamente a fare, entri in un ingranaggio e devi continuare a rispondere a dei solleciti, invece quando sei agli inizi nessuno ti spinge, devi solo capire se, come e cosa fare.
Questo è uno stato che gli artisti non dovrebbero perdere mai e non per una questione morale, ma perché questa cosa poi si sente nel lavoro che fai.
A proposito delle cose che fai, ha appena aperto la tua casa-galleria a Scutari. Di cosa si tratta?
Si tratta di casa mia a Scutari che, oltre ad essere un luogo privato si apre all’uso pubblico attraverso incontri, presentazioni, workshop tenuti da artisti e curatori. La casa è stata progettata con questa finalità e ha due ali, una per uso privato e l’altra per questi incontri pubblici. Comunque tra i due spazi c’è interazione perché poi gli ospiti si fermano a dormire a casa nostra e spesso questi incontri si accompagnano da cene e pranzi conviviali, dove amici del luogo e amici dal mondo dell’arte che vengono da fuori si incontrano e scambiano idee e esperienze. È un tentativo di portare in Albania un discorso attorno alle ricerche dell’arte contemporanea, ma anche provare a far uscire l’esperienza artistica sia dalle logiche commerciali, sia da quelle istituzionali e offrire al discorso e all’esperienza artistica un altro spazio e un’altra possibilità.
Dove abiti a Milano e che posti frequenti in città?
A Milano sto da più di 20 anni e ho abitato in varie zone, prima ho vissuto in un pensionato, La casa del giovane lavoratore di Don Orione in zona Bande Nere, poi sono andato a vivere a Bruzzano dove all’inizio sono stato ospite di una signora anziana, poi avevamo preso una casa in via Pergolesi e quella è stata una bella esperienza del mio rapporto con la città perché ci siamo avvicinati al centro, abbiamo cominciato a frequentare anche il teatro, l’Elfo, il Franco Parenti, i cinema: Arcobaleno, Apollo, Plinius che erano vicini, o anche il Beltrade. Era anche una zona in ci sono molti ristoranti e bar, ma ho questo difetto di non ricordare mai i nomi dei locali (ride – n.d.r.) c’era il Bar Gatto dove facevamo spesso colazione e c’era Massimo, il barista, molto simpatico.
Adesso ci siamo trasferiti in zona De Angeli.
Gli spazi legati all’arte sono un po’ quelli che frequentiamo tutti, mi piace molto l’approccio di HangarBicocca, per il fatto che non paghi un biglietto e vedi sempre bellissime mostre, insegnando qui in NABA poi, anche questo è un altro posto che frequento molto.