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Borondo

Una nuova grande installazione tra Macro ed Ex Dogana riporta Gonzalo Borondo al centro della vita artistica di Roma. Ne abbiamo parlato con lui in questa intervista.

Written by Nicola Gerundino il 19 November 2018
Aggiornato il 21 November 2018

Foto di Federico Pestilli

Date of birth

8 December 1989 (35 anni)

Place of birth

Valladolid

Place of residence

Roma

Attività

Artista

Un tratto riconoscibile tra tanti. Un’artista legato all’arte pubblica, dai muri alle vetrine, ma portatore di figure e temi che rimandano al “classico” più che alla strada. Imbattersi in una sua opera vuol dire fissarla nella propria memoria e riconoscere le altre dopo solo un’occhiata. Di Gonzalo Borondo ci si innamora a prima vista e Roma ha avuto la fortuna di godesi decine di colpi di fulmine, dal momento che Borondo ha speso qui buona parte della vita artistica. Lo scorso 16 novembre ha presentato al nuovo Macro Asilo la sua ultima installazione, “Non Plus Ultra”: un lavoro imponente composto da cinquantasei lastre di vetro di due metri e mezzo di altezza, con due immagini stampate su entrambe i lati. Dopo la preview, l’opera sarà in mostra all’Ex Dogana, dove da tre anni circa Borondo ha il suo studio, e sarà visitabile per un mese (dal 30 novembre al 30 dicembre 2018). Ne abbiamo parlato con lui in questa intervista, dove ci ha anche confidato che “Non Plus Ultra” potrebbe essere il suo addio a Roma.

 

Mi piacerebbe iniziare questa intervista da un materiale che per te sta diventando sempre più centrale: il vetro. Cos'è per te il vetro e in che modo lo definiresti?

Fragile.

Quando hai iniziato a lavorare su vetro? C'è qualcuno che ti ha insegnato la tecnica che attualmente utilizzi o sei autodidatta?

Nel 2003 sono andato a Madrid per fare l’accademia e ho iniziato a dipingere negli spazi pubblici, scoprendo che per me era importante confrontarmi con il luogo, il contesto e chi lo abita. In quegli anni a Madrid stavano chiudendo moltissimi negozi a causa della crisi e quindi c’erano tante vetrine abbandonate. Iniziare a intervenirci sopra è stato naturale, quasi istintivo: volevo evidenziarne la presenza, giocando sulla mancanza e sulla trasparenza. In quel periodo, oltretutto, la polizia a Madrid si faceva sentire e bisognava trovare modi alternativi per continuare ad agire e reagire negli spazi pubblici. La tecnica che ho sviluppato e che chiamo “scratch on glass” si basa su un processo di rimozione, con l’assenza che fa emergere gli elementi della composizione. Dipingo il vetro di bianco, o nero, e poi realizzo il disegno per sottrazione, graffiando la superficie con strumenti tipo raschietti e taglierini, ma anche forchette o qualunque oggetto appuntito e graffiante, ma non abbastanza per graffiare il vetro. Così se viene la polizia non può dirmi nulla: sto pulendo! Quello che amo del vetro è il vetro stesso: un elemento naturale, tanto fragile quanto resistente, protegge ma si vede attraverso, ricco di contraddizioni ed eleganza. Un intervento a cui sono molto legato era qui a Roma, in via Nazionale, dove c’era una banca abbandonata, proprio di fronte al Palazzo delle Esposizioni. Nel 2013, credo, ci ho disegnato sopra tre figure di donna con questa tecnica. Negli anni, passandoci davanti, vedevo che altre persone avevano aggiunto delle scritte che diventavano una sorta di tatuaggi, di impronte spontanee. L’opera è diventata interattiva e in costante trasformazione: mi è piaciuta molto quella evoluzione. Trovo che ci sia una fascino ancestrale nel gesto di sottrarre, di graffiare una superficie, ed è per questo che le persone da sempre, inevitabilmente, continuano a graffiare e a godere della sensazione di scavare e incidere qualcosa, per poi trovare nella “distruzione” la vera creazione. Per quanto possa sembrare un materiale non adatto a realizzare lavori artistici, io non vedo il vetro come un limite, anzi, all’opposto, ci vedo dentro infinite possibilità di scoperta. Inizialmente mi angosciava non comprenderle tutte, ma adesso mi conforta sapere che posso continuare a sviluppare ed evolvere l’utilizzo che ne faccio, per aggiungere contenuti poetici alle mie opere.

Ci sono delle vetrate che ti hanno segnato, sia da un punto di vista personale che artistico?

Tante. Per esempio le vetrate fatte da Mucha a Praga, altre romaniche o trovate per caso nei cimiteri. Ma non ho mai lavorato la tecnica della vetrata come tale, mi interessano le vetrate come mi interessa una tela o una canzone: sono linguaggi differenti, ma possono esprimere lo stesso concetto e questo approccio influisce nel mio modo di lavorare.

Facciamo qualche passo indietro. Quando ti sei appassionato all'arte?

Non penso sia stata una scelta consapevole. Se proprio vuoi saperlo, non ero un bambino che amava andare nei musei! Però sono interessato al disegno da quando sono piccolo: era il mio rifugio e la mia terapia, tutto il resto è arrivato in un modo del tutto naturale. Volevo approfondire sempre di più le mie possibilità e quindi ho iniziato a osservare diversi lavori, sviluppando la mia sensibilità e le mie conoscenze. Sicuramente ci sono stati degli stimoli che mi hanno avvicinato ulteriormente al mondo dell’immagine e dell’arte: i graffiti che vedevo per strada, la casa/studio di mio padre piena di opere di arte sacra da restaurare, la libertà di poter dipingere i muri del corridoio di casa. Penso che queste cose mi abbiano influenzato molto, ma probabilmente ce ne sono state anche tante altre che ora non ricordo.

Quando hai iniziato a realizzare delle opere tue? Ti ricordi la prima?

In tutta onestà, i concetti di “opera” e di “passione per l’arte” lì trovo un po’ ambigui. Come quasi tutti ho iniziato a disegnare da bambino, ma poi semplicemente non mi sono fermato. Non so se i disegni che facevo si possano considerare opere e, soprattutto, non so quando lo sono diventate. La prima opera non me la ricordo, non mi ricordo mai niente in generale! Anche se, paradossalmente, il mio lavoro parla tanto della memoria.

Su quali supporti hai lavorato nel tempo? Immagino i più diversi tra loro.

Su tutti quelli che mi sono trovato di fronte e che, in un modo o nell’altro, sentivo potessero aggiungere qualcosa al mio lavoro. La ricerca dei materiali e la non limitazione alla tela penso che siano delle costanti nel mio percorso: mi sono sempre divertito a innovare in tal senso.

In molti ti conoscono per le tue grandi opere su muro. Cosa puoi raccontare di questo aspetto della tua vita artistica?

Dopo un po’ di anni di interventi illegali nelle strade di Madrid, nel 2010, sono stato invitato per la prima volta a un festival di arte pubblica, a Istanbul, e lì, sempre per la prima volta, mi sono sentito libero di esprimermi, ma allo stesso tempo responsabile per la mia azione, per il segno che avrei lasciato. È iniziato così un lungo periodo di interventi realizzati davvero in tutto il mondo, confrontandomi con superfici di grandi dimensioni e contesti molto diversi, cercando di mantenere una relazione dialettica con lo spazio e con chi lo abita. Tra quelle più significative per me ci sono “Les Trois Ages” (Parigi, 2014), “Portals” (Kiev, 2016), “Padre” (Sulitjelma, 2015), “Fer Llenya” (Barcellona, 2015), “L’origine du Monde” (New Delhi, 2016), “Show” (Jacksonville, 2016), ma anche tante altre.

Vivo vicino all'opera che hai realizzato qui a Roma al Circolo Mario Mieli ed è un lavoro che mi ha affascinato ogni volta che ci sono passato davanti. Qual è la sua storia?

Quell’intervento è stato realizzato per l’edizione del 2012 del festival Outdoor, quell’anno curata da Simone Pallotta che aveva notato alcuni dei miei lavori realizzati nel quartiere San Lorenzo, dove abitavo appena arrivato a Roma. È stato il mio primo muro fatto sulla gru, ci tengo tanto anche io. Al giorno d’oggi non so cosa sia rimasto di mio a Roma, credo il muro del MAAM, quello del Mario Mieli, un altro mezzo coperto in viale dello Scalo San Lorenzo e forse qualche vetro qua e là.

Negli anni quali sono gli spunti che Roma ti ha dato?

Penso che quello che faccio sia inevitabilmente condizionato dal contesto che mi circonda. Una certa sensibilità all’estetica e all’identità dei luoghi mi ha portato ad assorbire alcuni simboli come gli archi, le colonne, l’arte classica e la stessa natura caotica romana. Tutto in qualche modo ha condizionato il mio immaginario. Roma è un luogo che mi ha affascinato dalla prima volta in cui ci sono venuto, quando ero ancora un pischello e ho buttato la moneta alla Fontana di Trevi, desiderando di vivere qua un giorno. Poi, in realtà, mi ci ha portato il caso, visto che sono finito qui per una richiesta Erasmus sbagliata… A volte non vedo l’ora di andarmene, ma quando torno capisco quanto mi mancavano alcune cose. E credo di non essere l’unico ad aver questa sensazione.

C'è qualche luogo di Roma a cui sei particolarmente legato?

Più che un luogo, quello che mi fa impazzire di questa città e che è eterna, ma eterna nelle scoperte che puoi fare in continuazione: i suoi luoghi sembrano infiniti.

La tua esperienza romana è legata anche alla factory all'interno dell'Ex Dogana, dove esporrai l'installazione "Non Plus Ultra" di cui parleremo a breve.

Sì, sono stato uno dei primi artisti a trovare spazio nell’Ex Dogana. Era il settembre 2015 e dovevo realizzare a Roma le opere per la mostra “Eterotopia” curata da Studio Volante, tra le prime mostre targate Ex Dogana. Non avevo uno spazio e quindi le ho realizzate in loco, dopodiché l’Ex Dogana è diventata praticamente il mio studio. È importante avere un luogo in cui gli artisti possano incontrarsi per discutere, dialogare e progettare. Qui abbiamo trovato la possibilità di farlo.

Che lavori hai prodotto ed esposto all'Ex Dogana?

Per me l’intera Ex Dogana è il mio secondo studio. E per me lo studio è una sorta di toilette dove si trova la intimità per creare, sia cose belle che grandissime cagate! Più che produrre opere, in quello spazio ho sviluppato tanti pensieri e fatto tanti studi che si sono riflessi in opere sparse nel mondo. Come esposizioni, invece, ho partecipato alla mostra collettiva Eterotopia nel 2015 con due installazioni, una si chiamava “Kouroi” ed era composta da pannelli di plexiglas e da un’animazione video, un’altra era in paglia, altro materiale con il quale ho sperimentato negli anni. Poi ho partecipato alla mostra “Paradiso Inclinato”, con l’installazione in vetro “Ubiquitas”, infine quest’anno ho presentato tre lavori su marmo per la mostra “Ex Voto”, alla quale hanno partecipato tutti gli artisti della Factory.

 

Prima di parlare di "Non Plus Ultra" volevo affrontare un altro passaggio del tuo percorso artistico. Negli ultimi tempi lavori molto sugli ambienti, con opere di tipo installativo. Come mai questa scelta?

Come detto prima, il mio lavoro è da sempre connesso con lo spazio, con il paesaggio e il contesto. Mi stimola molto l’idea che l’arte e la vita non siano staccate e quindi mi interessa agire su luoghi non adibiti unicamente per l’arte, ma che abbiano un’interazione diretta con le vita delle persone. È per questo che lavoro molto con le installazioni, che per loro natura si relazionano agli spazi: più che una scelta è l’evoluzione di un aspetto della mia ricerca.

Un lavoro emblematico di questo percorso è stata l'installazione "Matière Noire" al Marché aux Puches di Marsiglia.

Per raccontare cosa è stato il progetto “Matière Noire” servirebbero davvero tante pagine! Sintetizzando, è stato sicuramente il lavoro più difficile e ambizioso che abbia
fatto fino a oggi: una trentina di installazioni sviluppate con altri artisti provenienti da ambiti totalmente diversi, che dialogavano con gli oggetti e i materiali di un mercato di antiquariato di 4.000mq che si trova in mezzo a uno dei quartieri meno raccomandabili di Marsiglia. Insieme al mio amico Edoardo Tresoldi abbiamo prodotto questa follia e speso tre mesi di residenza all’interno di questo luogo e dei suoi milioni di stimoli. La mostra era un percorso esperienziale, per cui non c’è realmente un modo di spiegare quale fosse la percezione: era un percorso che costituiva un’esperienza e tradurre una esperienza con le parole mi sembra un po’ limitante: è come tradurre una sinfonia in un disegno a matita.

Arriviamo a "Non Plus Ultra". Si tratta anche qui di un lavoro molto grande, con addirittura cinquantasei lastre di vetro.

“Non Plus Ultra” è un’installazione realizzata in collaborazione con lo studio 56Fili, curata da Chiara Pietropaoli e prodotta da Studio Volante. È una installazione percorribile dove abbiamo scelto la serigrafia come strumento perché ci interessava introdurre l’idea della ripetizione e, soprattutto, della moltiplicazione, data dai riflessi resi dal vetro e dal sistema di illuminazione. Il desiderio è quello di riflettere sul concetto di limite e sul bisogno continuo dell’uomo di superare il conosciuto, la logica e sé stesso. Gli archi si ripetono all’infinito proiettando lo spettatore in un gioco di prospettive e riflessi che nella moltitudine si confondono, come in una sorta di labirinto ordinato.

Il tema del sacro è centrale in questa opera. Che rapporto che hai con il sacro?

Non sono una persona assolutamente cattolica, però, probabilmente, sono religioso. Religioso nel senso spirituale. Penso che tutti gli artisti lo siano, ogni cosa che fanno in qualche modo è un atto di fede, c’è un atto di fede dietro ogni creazione, devi credere nell’ignoto. Anche l’arte, se ci pensi, è credere in qualcosa che è fuori dalla logica: logicamente che senso ha mettere dei colori su una tela?

Ti sei ispirato a qualche iconografia della crocifissione in particolare?

Mi sono ispirato a tutti e a nessun Cristo. Oltretutto, quello che ho scelto dà le spalle. Quella del Cristo è probabilmente l’immagine più riprodotta nella storia, ma in questo caso ciò che mi interessava era entrare in una dimensione di riflessi infiniti creati dalla luce e dal vetro. La mitologia classica è per noi qualcosa di molto lontano: è diventata una leggenda per raccontare il mondo. La religione cattolica, invece, è ancora molto vicina, ma immagino che un giorno sarà considerata come la mitologia, semplicemente un modo per spiegare il mondo e la condizione umana. Per me è così: rappresentare qualcosa di religioso non implica esserlo. Inoltre, l’iconografia cattolica è buona parte del nostro background artistico europeo e vorrei in qualche modo slegare l’immaginario sacro dalla fede. Come nel Rinascimento, quando gli artisti dipingevano i miti della Grecia antica. Inizialmente volevo chiamare l’installazione “Prometeo”. Trovo la storia di Prometeo interessante e la sua figura simile a quella del Cristo: figure che invece di aiutare l’umanità a evolversi hanno trovato la propria condanna. Ci sono molti collegamenti: sono tutti e due figli di divinità e vogliono il bene degli uomini, ma per questo alla fine vengono puniti, sacrificati. Anche il sacrificio è un tema che mi interessa molto.

Stessa domanda, ma riferita all'architettura

Come dicevo prima, sono uno che osserva molto il paesaggio quindi è logico che ci sia una forte componente architettonica nei miei lavori. Riflettevo l’altro giorno sul fatto che in qualche modo le mie figure sono diventate sempre più rigide e invece le mie architetture sempre più fatte di carne, chissà perché… In questa installazione c’è assolutamente Roma come sfondo: gli archi, le colonne e i Cristi sono probabilmente gli elementi più diffusi e visibili in città; sono elementi che sicuramente hanno scolpito il mio inconscio e il mio periodo romano. Non so bene perché, ma sento che in qualche modo quest’opera è il mio modo di salutare Roma.

"Non Plus Ultra" è stato presentato in anteprima al Macro e poi sarà esposto all'Ex Dogana a partire dal 30 novembre. Al Macro hai dato anche la possibilità di seguire la parte finale dei lavori e l'allestimento, come mai questa scelta?

Quando lavoro in studio ho bisogno di totale intimità. Come dicevo prima, è la mia toilette. Nei progetti che coinvolgono lo spazio pubblico, invece, sono più che abituato a essere osservato durante il processo e ogni volta l’esperienza è diversa in base al tipo di pubblico che c’è. Questa volta abbiamo scelto di stampare le lastre e installarle nel cortile del Macro per condividere il processo creativo in uno scambio di conoscenze e stimoli, per concepire il Museo come uno spazio pubblico vero, dedicato alla cultura e al sapere, dove artista e fruitore si incontrano.

Esporrai "Non Plus Ultra" anche altrove?

La volontà è proprio quella di fare di “Non Plus Ultra” un’installazione itinerante, grazie alla sua natura modulare e adattabile a molti tipi di situazioni, mantenendo i temi universali trattati, ma adattandola allo spazio e al contesto che la ospita. Per adesso stiamo chiudendo accordi per farla esporre a Berlino e a Bordeaux, ma quando sarà finita e documentata potremo iniziare a proporla davvero in tanti altri spazi.

Contenuto pubblicato su ZeroRoma - 2018-12-01