Un paio di mesi fa arrivava nella redazione di Zero un comunicato riguardante un ciclo di mostre galleria Operativa Arte Contemporanea un po’ atipico: artisti italiani, giovani, chiamati ad esporre ognuno un’opera e per un periodo molto breve. Atipico anche il nome dell’evento: “Due o tre cose che piacciono a me”. Abbiamo seguito i tre appuntamenti come media partner e dopo aver intervistato i tre artisti coinvolti – Emiliano Maggi, Matteo Nasini e Enrico Boccioletti, quest’ultimo in mostra ancora per pochi giorni – abbiamo deciso che era il turno di interloquire anche con il direttore della galleria. Ecco a voi il risultato.
Iniziamo dalle presentazioni: come ti chiamo e quando sei nato?
Carlo Pratis, sono nato in un fresco e soleggiato pomeriggio romano del 16 Maggio dell 1980.
Quando hai iniziato a seguire l’arte, contemporanea e non?
Sono arrivato all’arte tramite una passione, quasi spasmodica, per il design degli anni 60 e 70. Lo collezionavo senza tregua e, per poterlo fare ancora meglio, ho iniziato a venderlo. In un momento d’oro come quello dei primi anni 2000 avevo tra i clienti i più incredibili arredatori e galleristi di Los Angeles, New York e Bruxelles. Dal design all’arte il salto è stato breve. Era ed è tutto figlio di uno stesso clima, di una stessa visione.
Ti ricordi qual’è stato il quid-che ha fatto scattare questa passione?
La passione me l’ha fatta scattare un quadro di un grandissimo artista pop degli anni sessanta, Franco Angeli. Mi ricordo ancora il nome dell’opera, “Verde Vittoria”. Scoprii piú tardi che l’opera era falsa. A parte il crollo di certezze momentaneo, questo mi portò, anzi, mi costrinse ad approfondire quell’artista e quel periodo in genere. Ad oggi direi che quel falso è stato più importante di decine di altre opere autentiche che mi sono passate per le mani.
Prima di seguire gli artisti con una galleria, hai mai provato ad essere tu l’artista, creando qualche opera?
Assolutamente no. Ma ho collezionato tanto. E poi col tempo mi sono reso conto che facendo il gallerista, desiderandolo o meno, entri nel processo di produzione dell’opera. Ne modifichi le aspettative e gli orizzonti e così facendo aggiungi o sottrai sempre qualcosa. Entri comunque nel processo di creazione dell’artista.
Quando e perché hai deciso di aprire una galleria?
Un momento preciso a tutt’oggi non saprei individuarlo. Ma ti posso dire che tutto é nato da una fuga. In un’altra vita sono stato avvocato, erano dei ritmi e degli ambienti che non mi divertivano affatto. Quindi velocemente mi sono scavato una via di fuga, un felice piano B. Prima con una piccolissima galleria (17mq) a via del Biscione, poi altrove a Roma e Berlino…
C’è stata una galleria che hai sempre guardato come modello, soprattutto agli esordi?
Senza dubbio sì. Fabio Sargentini, illuminato e visionario gallerista de L’Attico. Ha reso possibili mostre epocali come “Lo Zodiaco” di Gino de Dominicis o “I Cavalli” di Kounellis. Ha reso Pino Pascali quello che per noi è oggi. Poi però si cresce e le gallerie di riferimento diventano altre. Ma sono sicuramente più noiose e meno visionarie dell’Attico.
Se non mi sbaglio, la tua prima esperienza è stata con la galleria Delloro, puoi raccontarci di questo progetto?
Quella galleria, appunto, è nata come una fuga, direi come una doppia fuga perché la aprii con Rolando Anselmi, che scappava come me (lui dalla carriera di architetto). La linea era sopratutto concentrata su artisti concettuali e analitici degli anni ’70 o comunque su artisti già avanti con la carriera. L’esperienza è semplicemente terminata perché io avevo smesso di credere a Berlino e Rolando aveva smesso di credere in Roma.
Ecco, a proposito della sede berlinese della Delloro: immagino le infinite differenze che ci siano tra lavorare lì e a Roma, ma te le chiediamo ugualmente, almeno le principali.
Inutile dilungarsi troppo, ma in sintesi: Berlino è una città con delle istituzioni incredibili ed efficientissime
istituzioni dedite all’arte contemporanea che riescono a creare una rete spettacolare nella città. Ma a fronte di questo una quasi totale assenza di una classe media in grado di acquistare arte. E poi una quantità allucinante di altre gallerie che ti fa sparire in una costellazione infinita di proposte. E sopratutto una città che difficilmente ti fa mettere delle vere radici.
Tornado al presente, con quale obiettivo nasce il progetto Operativa?
Operativa è nata da un desiderio ovviamente egoistico e da una paura non troppo piccola. Nasce dalla paura di non trovarmi fra 15 anni ed essermi perso tutto della mia generazione. Nasce dalla necessità di riabituare i miei occhi (dopo tanti anni di lavoro sul passato) alle visioni della mia generazione. Nasce dal desiderio di crescere insieme agli artisti, non accostarcisi quando sono già cresciuti.
Tra i tanti artisti che in questi mesi hai avuto in galleria ce n’è qualcuno che ti ha colpito di più?
Sì ma non si dice. O semmai si dice solo all’orecchio.
Si è appena concluso un ciclo di mostre molto interessante di cui Zero è stato media partner: innanzitutto hai scelto tu il nome “Due o tre cose che piacciono a me”? Che giudizio complessivo dai a questo “esperimento”?
La storia è lunga ma te la faccio breve. Avevo voglia di presentare qualcosa di forte ma in maniera fresca e velocissima. Superare i tempi pachidermici della “mostra personale” e allo stesso tempo la noia delle mostre collettive che ti dimentichi il giorno dopo. Quindi ho pensato alla presentazione di tre singole opere, abbastanza forti e incisive da reggere da sole, a distanza di 20 giorni circa l’una dall’altra. Tre opere che mi avevano catturato davvero. Quindi senza barare ho semplicemente chiamato il progetto “Due o Tre Cose Che Piacciono a Me”.
Com’è lavorare con l’arte contemporanea a Roma? Meno impossibile di quello che sembra?
Assolutamente è possibile. C’è una nuova generazione che si sta facendo coinvolgere in maniera incredibile. Forse è il vecchio mondo dell’arte a Roma che si è incagliato nella sua autoreferenzialità. Ma tutto si rigenera velocemente.
Cosa manca a Roma per affermarsi come altre capitali e città che sono dei riferimenti per l’arte contemporanea?
Manca una classe politica colta e non corrotta. Che non mette l’amico a dirigere un museo e l’amante ad esporci i quadri dentro.
Cosa ha in più, invece?
Luoghi magici, tramonti impossibili, l’incredibile capacità dei romani di non stupirsi di nulla e di accettare comunque con un sorriso le novità.
Come vedi l’arte contemporanea a Roma tra 5 anni?
Una bomba.
E tra 10?
Una bomba atomica.
Chi sono i tuoi artisti romani preferiti? Sia del passato che del presente?
Del passato, appunto, Franco Angeli, Francesco Lo Savio e il meno conosciuto Paolo Cotani. Del presente i ragazzi che lavorano con me, ovviamente.
Il tuo scorcio preferito della città?
Pietralata, quando poi si apre sul verde dell’Aniene, e poi certi tramonti dietro Monte Mario che alla fine puoi solo immaginare.
Un luogo di Roma dove vorresti organizzare una mostra?
Un mercato rionale di frutta e verdura. Non per forza al centro, sarebbe perfetto ai Parioli o a Via Val Melaina.
Quando non sei al lavoro dove ti piace andare in città?
Ancora Pietralata, lungo il corso dell’Aniene. E poi alle feste che il Goa organizza fuori dal Goa, dove c’è la mia famiglia.
I tuoi 5 artisti preferiti in assoluto?
Superati i tanti miti che poi nel tempo ho ridimensionato, sicuramente ora amo il lavoro di Anselmo, Vincenzo Agnetti e Salvatore Scarpitta. Ma senza dubbio mi fa battere il cuore anche carsten Nicolai quando è lui e anche quando è Alva Noto (nel conteggio lui vale due).
5 artisti italiani su cui puntare per il futuro?
Non ti dico i miei che altrimenti non vale, però dopo di loro ci sono Yuri Ancarani, Luca Vitone, Diego Perrone, Giorgio Andreotta Calò e il fotografo Stefano Graziani.