In dieci anni le proiezioni estive realizzate dal Piccolo America si sono ritagliate un “posto fisso” nel panorama culturale di Roma, entrando a far parte di quella cerchia di iniziative che si sa che sono là, in quel luogo e in quel periodo dell’anno, e si danno anche un po’ per scontante, dimenticando il percorso, spesso tortuoso, che le hanno segnate. Pur conquistando una eco e un riscontro sempre più internazionale, con registi e attori che arrivano da ogni parte del mondo a raccontare le proprie storie e le proprie pellicole nelle tre arene di San Cosimato, Monte Ciocci e Cervelletta, il Cinema in Piazza ci racconta ancora tanto, tantissimo, di Roma e delle sue contraddizioni: gli spazi che chiudono o rimangono in disuso; l’iniziativa privata che non riesce a immaginare il centro storico se non nei termini di un pozzo da prosciugare; i fantasmi nicoliniani che aleggiano attorno a politiche culturali sempre troppo timide e kafkiane; l’industria cinematografica che c’è ma non si vede, con i suoi protagonisti che sembrano quasi più voler evitare la città che viverla. Con questa intervista abbiamo quindi voluto non solo aprire il baule dei ricordi, ma anche stimolare una riflessione attuale su queste tematiche. Ne abbiamo parlato con Valerio Carocci, Alice Catucci e Mariella Lazzarin.
Iniziamo il racconto di questi dieci anni partendo dalla prima proiezione in piazza: quale è stata e con quali sensazioni vi siete avvicinati a quel momento?
Valerio Carocci: Ricordo che avevamo realizzato una locandina con Alberto Sordi nei panni del Marchese del Grillo, immagino sia stato quello il film. Quella prima proiezione risale all’estate del 2014, poi c’è stata una seconda arena dopo lo sgombero. L’idea di andare in piazza è nata dentro l’occupazione del Cinema America e partiva dalla volontà di tornare a San Cosimato, perché li avevamo incontrato i residenti per poi entrare nel cinema. Ovviamente, gestendo uno spazio occupato, tra lavori e ristrutturazione e quant’altro ci eravamo chiusi all’interno e non riuscivamo a fare niente all’esterno. Quindi il nostro primo obiettivo è stato quello ritornare a vivere la piazza assieme ai residenti. Nel momento in cui c’è stato lo sgombero le cose sono cambiate e ci siamo posti il problema di presidiare l’immobile con una sorta di occupazione dall’esterno, in piazza per l’appunto. Raccontammo bene questa idea quando venne a trovarci Benigni. I primi ad arrivare in piazza furono Scola, Garrone, Rosi: quello è stato il primo Cinema in Piazza come lo conosciamo oggi, con ospiti importanti. Quel primo anno ci fu una proiezione speciale di “Uomini contro” di Francesco Rosi che è sempre molto divertente da raccontare. Rosi lo invitammo dicendo che in piazza ci sarebbe stato anche il Presidente Napolitano e, contemporaneamente, invitammo il Presidente dicendo che ci sarebbe stato Rosi, ma nessuno dei due aveva confermato sul serio. Alla fine Rosi ci diede l’ok e Napolitano, ovviamente, non venne. Il Presidente però ci mandò una lettera e Rosi fu molto felice di trovarla al sua arrivo. Siamo stati fortunati perché avevamo completamente bleffato! Rosi lo andammo a prendere in macchina, una volta arrivato davanti il cinema ci disse: “ma questo cinema è chiuso, chi lo gestisce?”. Gli dovemmo ri-ri-spiegare tutta la storia, ma in generale fu molto contento, tant’è che dopo quel momento, che è stato anche la sua ultima apparizione pubblica, continuammo a sentirci perché voleva aggiornamenti sulla situazione. Anche Scola ci chiamava: salvare il Cinema America per loro era diventata una partita politica divertentissima. Poi ogni tanto discutevano perché avevano posizioni diverse e a me toccava mediare. (Il primissimo titolo proiettato è stato “Barricata San Calisto” di Ivano De Matteo, “Il marchese del Grillo” è stato il secondo, nda).
Chi era il più radicale tra i due?
VC: Se la contendevano, erano entrambi radicali nel voler salvare il cinema. Solo una volta ci fu una sorta di silenzio stampa di Scola: fu quando decidemmo di occupare il tetto del Cinema America. Quando Scola lo scoprì – all’epoca Rosi era già scomparso – chiamò Carlo Degli Esposti dicendo che non doveva mettersi a disposizione di queste idee, perché se fosse caduto qualcuno facendosi male la colpa sarebbe stata data a loro. Al che Degli Esposti gli ricordò di un’occupazione del tetto della Sapienza e a quel punto Scola tacque. Una volta scesi, Scola ci richiamò, come se non fosse successo nulla. Diciamo che quello è stato l’unico momento in cui Scola è stato un po’ meno radicale, ma fondamentalmente perché era preoccupato per l’incolumità delle persone.
A quegli anni appartiene anche un'altra vostra esperienza molto particolare, gli Schermi Pirata.
VC: Gli Schermi Pirata nacquero dopo la chiusura del Piccolo Forno, lo spazio che abbiamo gestito tra l’America e il primo vero Cinema in Piazza dell’estate 2015 (lo spazio si trovava esattamente di fianco al Cinema America, nda). In quel momento la nostra esperienza si stava istituzionalizzando: avevamo costituto l’associazione, per i film pagavamo distributori e Siae regolarmente e avevamo la licenza per il pubblico spettacolo. Non avevamo però uno schermo, così decidemmo di rubare quelli della città: i monumenti. Cercammo di scegliere dei titoli architettonicamente o storicamente collegati, ad esempio sul muraglione del Tevere proiettammo “The Wall” dei Pink Floyd oppure “The Rocky Horror Picture Show” su Castel Sant’Angelo. Così gli Schermi Pirata arrivarono poi al drive-in di Casal Palocco, che era il più grande d’Europa e all’epoca era chiuso: un luogo che era nella memoria storica della città – la struttura è stata progetta e costruita da Galdieri, un allievo di Nervi – ma in quel momento totalmente dimenticato. Venne fuori una due giorni con circa 10.000 presenze in cui proiettammo “Grease” e “American Graffiti”. Fu molto divertente il dialogo che avemmo con la municipale per evitare di congestionare la Colombo: portammo tutte le auto che arrivarono da Roma nel quartiere di Casal Palocco, che non si lamentò perché comunque i residenti potevano venire (e vennero) tranquillamente a piedi. Noi organizzatori dormimmo lì in tenda e sempre in tenda siamo stati costretti anche ad affettare la porchetta per i pasti, perché le api ci avevano assalito quando avevamo provato ad aprirla all’aperto. In dieci anni di Cinema in Piazza abbiamo imparato questo: mai tagliare una porchetta in un prato!
Parallelamente al Cinema in Piazza è arrivato a compimento anche il progetto del Cinema Troisi, che del Cinema in Piazza ormai è diventato un quarto schermo che affianca le tre arene all'aperto.
VC: Sì, il Troisi è diventato il quarto schermo. Ci dà una grande mano perché è una presenza fissa e non ci “costringe” a fare quelle edizioni massacranti del Cinema in Piazza con tre arene attive sette giorni su sette per tre mesi, da giugno a fine agosto. Ci aiuta anche da un punto di vista logistico, ad esempio quest’anno per la proiezione di “Tehachapi” di JR (il 24 giugno, nda): lui non poteva in altre date e inoltre il film non ha distribuzione, quindi possiamo fare botteghino per dargli un po’ di sostegno. La sfida che stiamo portando avanti è quella di parlare non solo al pubblico, ma a tutti coloro che vivono e attraversano la città. Vogliamo creare nuovo pubblico e per farlo non possiamo rivolgerci solo a chi al cinema già ci va, ma anche a chi non ci va mai, a chi ha smesso di andarci o a chi addirittura non ci è mai andato. Questo avviene con gli eventi speciali del Troisi con gli ospiti, con le piazze l’estate, anche con le partite: per noi è importante riportare insieme le persone davanti a uno schermo. In Italia il lavoro più grande in questo senso lo ha fatto la Cineteca di Bologna: lì c’è una città che risponde al cinema in maniera quasi militante. A Roma non c’è niente di tutto questo, forse per un momento ci era andata vicino la Festa del Cinema, che però è ritornata a essere un festival. Quello a cui puntiamo è la costruzione di un nuovo rapporto tra il cinema e la città e la speranza è che il Troisi e il Cinema in Piazza diano risultati in questa direzione.
Parlando del rapporto tra cinema e città, tra le vostre proposte c'è anche quella di dar vita a Roma a un cinema diffuso. Di che si tratta?
VC: L’idea è quella di realizzare un multisala “a cielo aperto”, cambiando l’immaginario del multiplex come cattedrale nel deserto collegata a un centro commerciale, ricollocandolo invece all’interno della città. Insomma, sostituire la moquette con i sanpietrini, le sale numerate con quelle esistenti (a cui dare una nuova identità), le casse con le vecchie edicole. Stiamo lavorando in questo senso, ma non abbiamo ancora tempi certi: per il Troisi ci sono voluti sei anni quindi è un percorso lungo che va preso seriamente, ma siamo fiduciosi che sia quello giusto, anche andando al di fuori del quartiere di Trastevere.
Com'è il vostro rapporto il con Travestere?
VC: Trastevere rimarrà il nostro quartier generale e il rapporto che abbiamo è ottimo. Basti pensare che la maggior parte delle attività locali sono partner della manifestazione. Anche i residenti ci sostengo: al tempo della bagarre con la Raggi su piazza di San Cosimato ci furono tantissimi nuclei familiari del quartiere che firmarono la nostra petizione. Ormai il Cinema in Piazza è parte integrante di Trastevere e c’è addirittura chi si lamenta perché la manifestazione dura di meno rispetto al passato. Poi il Troisi in questo senso è stato decisivo: un conto è una rassegna che va avanti solo nei mesi estivi, un conto è fornire in maniera costante un servizio di cinema in un quartiere dove ne sono rimasti pochi. Anche l’aula studio ha dato una marcia diversa al rapporto con la città (nel 2018 l’amministrazione comunale presieduta da Virginia Raggi decise di mettere a bando la concessione di Piazza San Cosimato per l’Estate Romana, nda).
Avete mai pensato che la messa a bando di San Cosimato potesse far terminare l'esperienza del Cinema in Piazza?
VC: No, posso dire che quella partita fu affrontata bene perché riuscimmo a portare a nostro vantaggio tutto il clamore suscitato. Da un punto di visto più squisitamente politico, non vedevamo l’ora di cogliere un’occasione per andare in periferia e dimostrare che non eravamo solamente i ragazzi del centro storico e che la manifestazione non funzionava solo perché era gratuita e a Trastevere. Abbiamo rilanciato andando a Ostia e Tor Sapienza, con gli sponsor che per fortuna ci seguirono. La Siae poi ci ha dato una mano una volta che dal Liceo Kennedy ci siamo rispostati in piazza, perché il bando era andato deserto e si stava ipotizzando anche il danno erariale. Questo sostegno ci ha permesso di aprire non solo un’arena ma tre. Forse il rischio maggiore c’è stato l’anno scorso perché, senza troppi giri di parole, con vari cambi di governo e di amministrazione non c’erano più diverse condizioni per andare avanti. Abbiamo iniziato un dialogo molto lungo con il Campidoglio e alla fine siamo riusciti a garantire alla città questa esperienza, con un nostro sforzo economico che è stato pari a quello del Campidoglio. Quest’anno invece abbiamo una copertura di budget che ci lascia più tranquilli per fortuna.
Tra cultura e istituzioni c'è una relazione tossica?
VC: No, non direi questo. La cultura a Roma è piuttosto organica alle istituzioni ed è piuttosto allineata con quella che è stata la governance di centro-sinistra. Il problema piuttosto lo posizionerei in un conflitto che c’è tra il Piccolo America e le istituzioni. Ripeto questa frase che ho già detto in altre occasioni: siamo sempre stati orgogliosi di fare azione conflittuale nel regime istituzionale, di essere all’interno delle istituzioni ma in maniera critica, com’è stata la partita dell’Antitrust con Anica e Anec, la battaglia per il bando di piazza di San Cosimato e quella per la tutela dello stabile del Cinema America. Abbiamo una posizione “eretica”, che non coincide con i movimenti e i centri sociali ed è fuori anche dal centro-sinistra (anche se a destra ci vedono schiacciati sul PD). Non c’è uno schieramento delineato e netto che ci riconosce e in cui ci riconosciamo e ormai rivendichiamo apertamente questo non apparentamento: non sosteniamo e non vogliamo essere sostenuti da nessuno. Un po’ abbiamo imparato a camminare con le nostre gambe, per cui abbiamo la forza di parlare con chi governa, chiunque sia.
Più che alla politica e agli schieramenti, mi riferivo a una tossicità che nasce, paradossalmente, dagli strumenti che vengono in messi in campo dalle istituzione per "sostenere" la cultura.
VC: Beh, per noi è evidente il fallimento delle politiche di promozione delle attività culturali estive: i bandi escono sempre in ritardo e i finanziamenti non sono sufficienti. Siamo orgogliosi del fatto che, grazie a una vertenza portata avanti dal Piccolo America, quest’anno ci siano più fondi sull’estate romana e sia maturata una presa di coscienza da parte del Campidoglio: se si vuole avere un mese e mezzo/due di proiezioni gratuite, con ospiti che vanno da Edward Norton ad Aronofsky, c’è bisogno di avere delle garanzie economiche prima. E quest’anno per fortuna la copertura è arrivata a febbraio, non solo per noi ma anche per altri nove progetti, oltretutto non tutti gratuiti come invece è il Cinema in Piazza. Questo secondo noi è il punto di partenza per le politiche culturali a Roma: sarebbe preferibile il meccanismo del bando se questo fosse sempre sinonimo di trasparenza, ma così non è. Lo vediamo sia nei bandi pubblici che nei concorsi universitari. Spesso la politica usa lo strumento del bando per non assumersi l’onere della scelta, delegandolo a delle commissioni, che però sono scelte da loro e spesso da loro dipendenti. La legge non dice che i soldi devono essere concessi solo attraverso questo strumento e a questo punto, paradossalmente, può essere più trasparente una delibera di assegnazione in forma diretta, in cui la politica si assume sia l’onere che l’onere del finanziamento dato a un determinato progetto. Anni fa, una delle rivendicazioni del movimento nato attorno al Valle era quella del riconoscimento dell’esperienza al di là del meccanismo del bando con il quale invece si voleva regolamentare la gestione dello stabile. Quando il Piccolo America riesce a scardinare questo meccanismo, ottenendo il riconoscimento di una manifestazione nata dal basso con l’occupazione di un vecchio cinema, allora il bando diventa uno strumento necessario… E di esperienze culturali di che hanno richiesto un riconoscimento diretto, andando oltre lo strumento del bando, Roma ne è piena. Un opzione non esclude l’altra sia chiaro, ma a patto, facciamo sempre l’esempio dell’estate romana, che i bandi escano a settembre dell’anno prima e che le risorse siano adeguate e non limitate a 40.000 euro.
Parliamo della programmazione di questa decima edizione. Cosa c'è in pentola?
Alice Catucci e Mariella Lazzarin: Seguendo l’esperienza dell’anno scorso, abbiamo deciso di dedicare una retrospettiva a una grande costumista: una figura che ha saputo affrontare il mestiere del cinema e che non fosse necessariamente regista o attore. L’abbiamo dedicata a Milena Canonero, il cui primo film è stato addirittura “Arancia Meccanica”. A San Cosimato abbiamo deciso di portare un approfondimento dedicato a due registi lontani nel tempo ma simili nelle storie: Claudio Caligari e Jonas Carpignano. Poi Orson Welles, con “Quarto potere” che sarà presentato da Carlo Verdone. Alla Cervelletta invece abbiamo in programma una retrospettiva documentaristica dedicata a Frederick Wiseman e la maratona “Boris”, con un ricordo di Mattia Torre che sarà fatto da Giacomo Ciarrapico, Luca Vendruscolo e da buona parte del cast della serie. Ci sarà anche un omaggio ai fratelli Coen, da “Barton Fink” a “Non è un paese per vecchi”. A Monte Ciocci i mercoledì saranno dedicati a Godard e ai suoi film più famosi, fino ad arrivare a “Detective” per festeggiare gli ottant’anni dell’attore Jean-Pierre Léaud; il venerdì invece sarà per per Harmony Korine con anche la prima di “Aggro Dr1ft”, che abbiamo deciso di proiettare dopo aver incrociato il film a Venezia. Siamo stati fortunati perché l’ex direttore di IndieWire, Eric Koh, che aveva raccontato anni fa la nostra storia, è diventato direttore della produzione di Lorine, quindi abbiamo avuto un canale diretto. La ciliegina sulla torta dell’arena di Monte Ciocci sarà la collaborazione con Letterboxd, una piattaforma che sta cambiando la fruizione del cinema e che per noi ha curato una selezione di documentari musicali che ricalca il loro format “Four Favorites”. Poi non mancheranno le proiezioni per i bambini che saranno in tutte e tre le piazze: il venerdì alla Cervelletta con Miazaki, il sabato a San Cosimato con Enzo D’Alò, la domenica con i film Dreamworks a Monte Ciocci.
Un ultima domanda. Due delle tre arene sono delle aree verdi. Cosa può far il Cinema in Piazza per spazi come questi?
VC: Il Cinema in Piazza oltre a essere un fine è un mezzo. Il primo tentativo che abbiamo fatto è stato quello di rendere fruibile per i grandi eventi la terrazza del porto di Ostia. Alla Cervelletta il Cinema in Piazza è stato il volano per un progetto di rigenerazione urbana: prima del festival, infatti, il Quartiere di Tor Sapienza e Tor Cervara non erano pienamente collegati alla metropolitana, perché quel parco – che fondamentalmente è una palude, tant’è che è stata l’unica risaia di Roma – quando piove si allaga e non consente il passaggio. Con la forza della manifestazione abbiamo chiesto di costruire una passerella illuminata di circa trecento metri che unisse l’area più alta del parco, dove si trova il Casale, a Colli Aniene. Ora quella passerella è vissuta da tutti e fa parte di uno dei percorsi ciclopedonali più belli che abbiamo in città.