Il Traffic è un pezzo di storia della musica live “alternativa” a Roma. In molti ricorderanno come fosse ieri il locale piccolo, accogliente e impavido nella mitica via Vacuna in zona Tiburtina, il cui spirito ha traslocato nel 2010 nell’ampio “capannone senza tetto” al Quarticciolo (che oggi vanta uno dei migliori impianti audio e la coppia di cessi, pardon, più belli che potete trovare in un live club a Roma): dal 2005, quella del Traffic è stata un’esperienza fatta di sudore, sacrifici, ostacoli, ma pure grande rispetto e rivincite. Con la sua militanza underground nei primi anni di vita – quando si dovevano scendere le scalette per assistere a un concerto e si veniva travolti da un muro di suono non appena si accendevano gli amplificatori – il Traffic si è guadagnato la stima presso i circuiti punk, indie rock, ma soprattutto presso chiunque frequenti i concerti a Roma da più di qualche anno. Col passaggio in via Prenestina, ha confermato che a fronte di problemi “territoriali”, è possibile sopravvivere se si rimane “kids” tenaci che continuano a farlo per passione. In questi mesi il Traffic compie i suoi primi 10 anni: abbiamo parlato della sua storia e della musica live in una città come Roma con colui che porta avanti questa missione fin da quel settembre 2005, Davide Iacoangeli.
ZERO: Andiamo per ordine: quando e come hai iniziato ad appassionarti di musica?.
DAVIDE: Ho iniziato a 15 anni, divoravo con le orecchie ogni genere musicale, volevo conoscere ogni suono che fino a quel momento era stato tirato fuori. Per questo iniziai a suonare parallelamente sia basso elettrico che contrabbasso classico e jazz.
Che rapporto hai con Roma e quando hai cominciato a occuparti di concerti?
Amo molto la mia città: anche in ambito culturale è piena di gente che si sbatte nel quotidiano e non scappa per andare a fare il lavapiatti a Parigi/Londra/Berlino, ma rimane qui e cerca di far crescere le sue zone, comprese le periferie. Personalmente prima di aprire il club non avevo alcuna esperienza in ambito organizzativo, frequentavo molto i concerti e suonavo in giro.
Ci sono luoghi o locali di Roma che sono stati nel tuo caso particolarmente formativi?
Più che i locali i centri sociali, penso al Forte Prenestino e al Villaggio Globale, che negli anni 90 erano gli unici posti disposti a ospitare spettacoli dal vivo degni, a mio parere, di questo nome.
Ti ricordi il primo concerto a cui sei stato? Come è andata?
Un concerto punk di un gruppo tedesco di cui non ricordo il nome al Forte Prenestino. Avevo 16 anni, mi buttai nel pogo, mi spaccai un labbro e persi lo zaino. Ero felice.
Dieci anni di Traffic: come hai iniziato nella mitica via Vacuna?
Eravamo in due, io e Lorenzo, venivamo da esperienze simili legate perlopiù alla scena punk skinhead hardcore di quegli anni. Non avevamo idea del mercato, non facemmo alcun “business plan”, nessuna startup. Noi volevamo solo un club simile ai tanti che esistevano in Europa, ma che a Roma ancora non c’era. Volevamo un luogo in cui i kids potessero sentirsi a casa, dove 7 giorni alla settimana potevi venire, bere una birra, scendere al piano di sotto e ascoltare di tutto da qualsiasi parte provenisse. Penso di esserci riuscito.
Allora a Roma non c’erano tutti questi Circoli Arci, che oggi sono diventati un po’ l’ancora di salvezza per il circuito alternativo e per andare a sentire un certo tipo di musica “underground”. Il Traffic è stato per alcuni anni uno dei pochi locali per la musica dal vivo con un certo tipo di approccio, si passava da band del circuito romano che hanno mosso i primi passi lì a memorabili concerti di gruppi internazionali tipo i Modey Lemon. Come era la situazione proprio dal punto di vista del fermento e dei rapporti, con le band e con il pubblico?
Senza alcuna esperienza alzammo quella serranda e il resto venne da sé. C’era voglia, molta voglia di cercare uno spazio che desse la possibilità alle persone di esprimersi: chi suonava, chi scriveva, fotografava, riprendeva o montava. Noi lo abbiamo dato e siamo stati premiati.
C’è stato, nella “prima fase” del Traffic, qualche segnale attraverso cui hai capito che si trattava di un’esperienza che poteva andare avanti?
I segnali andavano tutti quanti dalla parte opposta, in realtà!
E in effetti ci sono stati molti problemi, soprattutto con il vicinato, per cui se non sbaglio avete aperto e chiuso alcune volte. Quali sono stati i maggiori ostacoli e cosa ti ha insegnato l’esperienza in via Vacuna?
Siamo stati chiusi per 8 mesi, ma anche prima avevamo problemi continui, i vicini che si riunivano in assemblea e ci assediavano il locale… Ahahah, poverini avevano ragione. Le fasi negative sono state queste, i controlli continui e le grane burocratiche non finivano mai. Tutta la mia vita attuale si basa sull’esperienza “Traffic”, errori innumerevoli come innumerevoli le soluzioni trovate. Le relazioni che si sono create sono state di grande stimolo per me, sia positive che negative.
Poi c’è stato il passaggio in via Prenestina… Con che tipo di progettualità hai approcciato questo cambiamento? In un certo senso hai cominciato a pensare al Traffic come a un locale diverso, anche solo per le dimensioni?
Nel 2010 abbiamo preso questo capannone senza tetto, senza fogne, con 2 muri e al solito senza nessuna progettualità. Pensai a un Traffic diverso: più grande, più accogliente e che potesse fare degli spettacoli di uno livello superiore rispetto alla vecchia location. Con mio grande stupore il supporto delle persone che mi avevano accompagnato fino a quel momento diminuì drasticamente. Molti ebbero paura delle dimensioni e della zona. Ho faticato moltissimo, ho pensato spesso di mollare, ma col tempo abbiamo costruito una nuova rete di persone molto professionali che ci stanno aiutando a migliorare in continuazione. E il pubblico ha compreso che la periferia dà una libertà in più per divertirsi. Non sei soggetto alle direttive comunali in estate, abbiamo montato un palco all’aperto senza grossi problemi coi vicini, non hai personaggi in cerca di rogne che cadono dentro al locale creando problemi, non hai parcheggiatori che ti taglieggiano…
Oggi il Traffic è, fra le altre cose, il “tempio del metal” a Roma. Il pubblico è diverso da prima? Quanto ci ha messo a fidelizzarsi?
Non facciamo solo metal, e poi dire “metal” significa dire un milione di cose, ogni sottogenere ha le sue band e il suo pubblico. Il pubblico che io chiamo “ROCK” – quindi metal, punk, hc e oltre – ti premia se sei credibile, gli “opinion leader” quasi non esistono. Se fai cazzate ti criticano, se sei onesto ti premiano. Siamo orgogliosi del nostro pubblico.
L’episodo più “metal” a cui hai assistito al Traffic?
Hai nominato i Modey Lemon, ricordo che mi chiesero di metter su dell’acqua calda, poi entrarono nella cucina con una busta di funghi presi chissà dove. Erano giusto le 5, ci scappò un gran té per tutti!
Oggi a Roma è un momento non particolarmente brillante per la musica da vivo: ad agosto non c’è stato assolutamente nulla, rassegne tipo Rock In Roma puntano ai grandi numeri e in sostanza restano solo gli Arci al Pigneto e il Monk, ovviamente insieme al Traffic. Ti ricordi delle “epoche d’oro” per la musica live a Roma, che hai vissuto in prima persona?
Epoche d’oro non le ricordo. So che la maggioranza delle persone che fanno il mio lavoro lo fanno per passione e non certo per i guadagni. Ad agosto non c’è stato nulla, ma come negli anni passati ci sarebbe potuto essere il festival al Parco del Torrione, la cui esperienza è stata ostacolata. Il problema è sempre lo stesso: nepotismo, clientelismo, “chi ti manda”… Ma di questo non mi va di parlare, sappiamo già tutto.
Dovendo dare uno sguardo ampio alla situazione, bilanciando lati positivi e negativi, quali sono i maggiori limiti di Roma nei confronti della musica dal vivo?
I limiti sono quelli burocratici/amministrativi. Ci sono band e artisti validi, persone piene di energia che organizzano e realizzano le loro idee, ma lo spettacolo dal vivo non ha la possibilità di reggersi in piedi da solo, questo sia chiaro per tutti. Poi c’è l’aspetto delle mafiette da condominio, le guerre tra poveri o come vogliamo chiamarle. Queste ce le facciamo da soli ed è un altro grosso limite per la città, ci sono gli opinion leader che se dicono che un concerto è “giusto” allora molti li seguono. Ma credo che sia un limite universale, non circoscritto a Roma. Personalmente mi sono sempre sforzato di creare rete, anche con gli altri club simili al Traffic.
Di locali veri e propri (escludendo gli Arci) sono più quelli che chiudono che quelli che aprono: in dieci anni di esperienza, quali sono le cose fondamentali che hai imparato per sopravvivere in una città poco amica della musica dal vivo come Roma?
Per sopravvivere, il club non deve essere di intralcio alla vita quotidiana della collettività, il pubblico ha bisogno di libertà per potersi divertire e devi osservare molto il lavoro degli altri riportandolo però a una tua dimensione senza scopiazzare. La gente se ne accorge.
Domanda diretta: quanto credi penalizzi il fatto di essere un po’ fuori mano in una città già grande come Roma?
Sicuramente i primi mesi sono stati durissimi, ma ora la zona è in crescita: molti si sono spostati nel quadrante est dalla Collatina alla Casilina e noi siamo in mezzo. Le persone hanno iniziato ad apprezzare e a far proprie le motivazioni che ci hanno spinti ad allontanarci dal centro.
Mi dicevi che avete presentato una nuova birra che si vende solo al Traffic: ce ne parli?
Col birrificio dei Castelli Romani abbiamo prodotto questa Black Ipa per i 10 anni del club. L’etichetta è stata disegnata da Marco About, quindi “griffatissima”.
Tu gestisci anche il Trabant Bar: come è nata l’idea e come concili la gestione di entrambi i locali? Pensi ci potrebbe essere mai un posto che metta insieme le due cose?
Mettere insieme le due cose sarebbe l’ideale. L’idea Trabant è nata per ritrovare il contatto col pubblico che avevo perso in questi anni in cui mi sono occupato giorno e notte della direzione artistica, dei rapporti con i musicisti… Volevo offrire alle persone altre cose oltre la musica. Conciliare è difficilissimo, ma sto imparando a delegare.
Quali sono stati i sacrifici più grandi fatti per portare avanti il Traffic? E le soddisfazioni maggiori?
I sacrifici sono stati le chiusure, il trasloco, il far capire alle persone che la via Prenestina è una consolare con dei mezzi pubblici notturni ecc… Le soddisfazioni non saprei. È ciò che so fare, mi piace e ancora provo un’emozione particolare quando la band fa il primo accordo e la gente si accalca sotto al palco.
Cosa hai imparato in questi anni sul pubblico romano?
Che se piove non esce e neanche se fa caldo. È umorale, di una volubilità contagiosa, ma non potrei pensare di far altrove questo lavoro.
Ci sono delle altre realtà sul territorio con cui il Traffic collabora spesso?
Ho collaborato con l’Init, DalVerme, Orion, Sinister Noise e il Circolo degli Artisti.
In qualità di persona che ha due locali non posso che provare a farti vestire i panni dell’ottimista. La tendenza è quella di lamentarsi (dei biglietti cari, delle band coi cashet alti, delle persone che non vanno ai concerti, delle istituzioni che non supportano): dovendo guardare al futuro, della città in cui vivi e della tua attività, vedi qualche soluzione che invogli le persone ad andare ai concerti e le band a passare da Roma (anche se non è geograficamente comoda come Milano)?
Il problema geografico è certamente reale, insieme al fatto che c’è poco lavoro per i giovani. Inoltre le amministrazioni sono miopi e investono nelle solite manifestazioni, probabilmente se non andasse spesso così ci potrebbero già essere più alternative.
Per finire: un buon proposito per la nuova stagione?
Tenere i costi più bassi possibile, ci stiamo scervellando per far quadrare i conti, penso che ce la faremo però!