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Sandro Gorli

La musica contemporanea a Milano, i progetti dedicati ai giovani, la divulgazione musicale, le inutili convenzioni e John Cage: ne abbiamo parlato con Sandro Gorli, direttore di Divertimento Ensemble, alla vigilia della nuova stagione di Rondò

Written by Chiara Colli il 23 January 2016
Aggiornato il 23 January 2017

Puntuale come un orologio, radicale come solo certa musica contemporanea sa essere e ancora piena di obiettivi da raggiungere (come se quelli portati a casa finora non bastassero), il 26 gennaio avrà inizio la tredicesima edizione di Rondò, la rassegna di musica contemporanea a cura di Divertimento Ensemble: una certezza a Milano (ma anche in Italia e in Europa), per la diffusione e soprattutto la produzione di musica contemporanea, con particolare attenzione ai più giovani. Poco prima che questo appuntamento fisso torni (non a caso, Rondò) ad animare le sale da concerto – e non solo quelle – della città, con circa trenta appuntamenti fra concerti e incontri di approfondimento, di cui Zero vi ha già parlato qui, il suo direttore Sandro Gorli ci ha parlato dell’Ensemble, della nuova stagione alle porte e di alcuni temi legati alla diffusione della musica contemporanea, soprattutto in Italia. A proposito, gli ascolti che trovate consigliati nell’intervista costituiscono una selezione di brani “fondamentali” di contemporanea e sono scelti dal maestro Gorli. Il sottofondo giusto per accompagnare questa lettura.

Divertimento-Ensemble
Divertimento Ensemble in occasione del Concerto al Budapest Music Center, 9 novembre 2015

ZERO: Con quali obiettivi è nato, nel 1977, Divertimento Ensemble e come si sono trasformati nel corso del tempo?
SANDRO GORLI: Quando abbiamo cominciato eravamo tutti molto giovani, avevamo semplicemente voglia di far conoscere la musica contemporanea in cui credevamo e che suonavamo. E quindi abbiamo pensato di organizzarci per farlo. Io fui chiamato come compositore e poi come direttore e nel corso degli anni ci sono state molte mete ambiziose da raggiungere. Saltando tutte le fasi intermedie, la cosa fondamentale è che oggi abbiamo ancora molti obiettivi e sogni ben precisi: può suonare strano, perché in genere sono i giovani ad avere sogni, che poi magari col tempo si abbandonano… Dopo oltre 35 anni di lavoro, abbiamo capito che è necessario che a Milano si formi un importante centro di produzione della musica contemporanea, al pari di quello che c’è in tutte le capitali europee, che porti al pubblico le esperienze più nuove, anche internazionali. In un certo senso, ci sostituiamo a delle istituzioni pubbliche che in Italia mancano.

Ci racconta qualcosa di più su cosa rappresenta per voi “Rondò” a questo punto del vostro impegno ultra trentennale?
Rondò è in gran parte la vetrina di alcuni progetti che dedichiamo ai giovani. In questa stagione torneranno il Corso di Direzione d’Orchestra per il repertorio da camera dal primo Novecento ad oggi e Call for Young Performers, masterclass di pianoforte (negli anni passati dedicato anche agli ottoni e alle percussioni), quest’anno dedicato alla recente produzione italiana per pianoforte, tenuto dalla pianista Maria Grazia Bellocchio e dove ogni anno Divertimento Ensemble offre ai giovani che hanno partecipato la possibilità di eseguire dei concerti in pubblico. In particolare, con Call For Young Performers abbiamo per questa stagione lanciato una sfida, decidendo di dare un premio di 1000 euro a quei pianisti che hanno partecipato alla masterclass e che riusciranno nel tempo di due anni a inserire in cinque loro concerti almeno una delle composizioni che hanno studiato durante il laboratorio. Tale scelta ha lo scopo di sostenere i giovani pianisti, ma anche di favorire la musica d’oggi: se tutti riusciranno nell’obiettivo, il progetto avrà ottenuto l’esecuzione di queste composizioni in 40 concerti. Anche in questa stagione si aggingono alcune importanti novità, tra cui Sul Palco!, progetto nato dalla convinzione che in Italia esistano giovani con buone idee e progetti, ma magari senza l’opportunità e le possibilità economiche per portarli a un pubblico. Abbiamo quindi aperto il nostro palcoscenico e uno spazio nel nostro cartellone a questi giovani, ideando un concorso attraverso cui abbiamo ricevuto 30 proposte, tra cui abbiamo scelto quella di un gruppo viennese che realizzerà il proprio progetto nel mese di giugno. Ci sono sicuramente scelte radicali nella stagione di Rondò, ma quello che ci preme è rivolgerci a giovani esecutori che abbiano voglia di avvicinarsi alla musica contemporanea: con la guida di cultori esperti dell’ensemble, offriamo loro da una parte formazione e dall’altra un luogo, come la nostra stagione, all’interno del quale tenere un concerto pubblico. Li formiamo e li aiutiamo a fare i primi passi nell’attività professionale.

Mentre in molti provano a trovare certezze sul vecchio, voi puntate sul nuovo.
È vero, ma nella stagione c’è anche uno sguardo al passato, infatti una parte importante della nostra programmazione sono i concerti che si svolgono al Museo del 900, appuntamenti domenicali dedicati ai grandi autori della seconda metà del 900. Qui abbiamo presentato tutte le sequenze di Luciano Berio, tutte le composizioni solistiche di Franco Donatoni e lo scorso anno abbiamo dedicato sei monografie a sei grandi compositori viventi. Quest’anno dedicheremo cinque concerti cameristici a Niccolò Castiglioni, uno dei maggiori compositori italiani della seconda metà del secolo scorso, morto esattamente 20 anni fa, nel 1996.

Il fatto che Rondò abbia raggiunto la tredicesima edizione, che Divertimento Ensemble sia un riferimento fisso a Milano, una specie di istituzione sebbene privata, sembrano suggerire che la contemporanea non sia più una presenza estranea e terribilmente ostica, ma un tipo di musica capace di sconfinare da un circolo elitario. Come considera il rapporto fra la diffusione della contemporanea e la possibilità di ampliamento del pubblico?
Credo ci si possa occupare di musica contemporanea in due modi: o cercando di diffonderla al massimo attraverso un pubblico trasversale, oppure incrementando le nuove produzioni. Noi abbiamo puntato radicalmente su questa seconda scelta. Ci sono rassegne, a Milano come a Roma, che tentano di avvicinare il grande pubblico alla musica contemporanea. A Milano, ad esempio, c’è un festival piuttosto importante da alcuni anni, Milano Musica, il cui obiettivo è avvicinare il maggior numero di persone a questo tipo di composizioni. Ciò è fattibile cercando di coinvolgere anche lo “star system” che segue la classica, magari invitando anche grandi nomi come Pollini, Boulez o magari l’Ensemble Intercontemporain. Anche questa strada va bene, ma noi preferiamo contribuire ad agevolare le nuove produzioni – attraverso commissioni ai giovani, possibilità di collaborazioni con altre arti – cercando di stimolarne la creatività.

Sono rimasta colpita da un passaggio di una sua intervista in cui diceva espressamente che in Italia abbiamo i “migliori giovani compositori”. C’è una ragione secondo lei, qualcosa che è nel dna del nostro Paese, in qualche tradizione o atteggiamento che arriva dai secoli passati?
Se si riferisce alla “grande tradizione Ottocentesca italiana” non credo sia per quello… (risate di entrambi, NdR). Quello che noto è che sembra non esserci un rapporto diretto fra le buone condizioni di lavoro di un compositore e la sua produzione. Da sempre, per esempio, l’Olanda è un paradiso per i compositori, il Paese che li aiuta di più attraverso borse di studio, alloggi, sussidi: eppure non c’è un compositore olandese che valga un italiano! Quel che è certo è che nel dopoguerra e nella prima metà del ‘900 abbiamo avuto grandissimi compositori di contemporanea: Donatoni, Maderna, Berio, Nono. Fra questi, molti sono stati anche ottimi insegnanti.

A proposito di “maestri”: lei ha suonato molto John Cage. Come descriverebbe il suo contributo nella musica contemporanea?
A mio parere, Cage è stato uno dei compositori più importanti in assoluto. È colui che ha fatto capire qualcosa di forse già intuibile prima, ma che nessuno ha esplicitato come lui: la creazione non è solo frutto di un io volontario che fa tutto da solo, ma è il risultato di una serie di fenomeni casuali, indeterminati – fra cui, per esempio, l’inconscio. Cage è il contraltare di Freud. Bisogna mettere insieme Freud e Cage per capire il grosso salto che ha fatto la contemporanea; da una parte parlare dell’esistenza dell’inconscio e dall’altra del caso ha fatto comprendere al compositore, come dice Shakespeare, che “ci sono molte più cose nella realtà che nella fantasia”. Spero che questo spieghi quello che per me è stato Cage: non c’è compositore del ‘900 che non abbia dovuto fare i conti con lui. Tutti i nostri maestri, quelli della generazione di Donatoni per intenderci, ne sono stati influenzati. Quelli della mia generazione e quelli più giovani magari oggi non ci pensano più, ma perché ce l’hanno nel dna.

Spesso la musica contemporanea fa ascoltare partiture estremamente ardite, radicali, musicalmente assai vicine al nostro tempo. Eppure è ancora legata a un rituale formale tipico della musica colta e classica, in un certo senso “datato”: ad esempio le entrate durante i concerti, una serie di passaggi che creano una distanza fra il musicista e l’ascoltatore. Crede che queste abitudini possano, prima o poi, cambiare, almeno nella musica contemporanea?
Sì, credo che questa ritualità possa essere cambiata: se è riuscito a trasformarsi il rito della messa – così mi dicono, perché io non la frequento – se ha cambiato la Chiesa, figuriamoci se non può farlo la musica contemporanea… (ancora risate, NdR). Non è neanche semplice, però, e a volte i tentativi di cambiamento sono talmente pretestuosi che alla fine non portano alcunché di buono. Noi ci sforziamo di rendere meno distaccato il rapporto tra chi suona e il pubblico. Per esempio, siamo abituati a precedere il concerto con un dialogo fra i compositori e la sala, in modo che chi ascolta capisca che il musicista è un uomo come tutti gli altri, che parla, ha i suoi problemi… Attraverso questo tipo di approccio credo si smitizzi un po’ la formalità della musica colta. Lo facciamo in parte per contestualizzare, spiegare quello che si andrà ad ascoltare, e in parte per mostrare la faccia del compositore. Facciamo dei tentativi non per cambiare il rito, ma per far sì che sia più “abbordabile”.

Rimanendo in tema di “convenzioni”, non crede che, come accade per altri campi dell’arte contemporanea, sia possibile portare anche la musica in altri luoghi, oltre a quelli tradizionalmente adibiti alla musica colta?
Credo di sì. E infatti, per la stagione che sta per iniziare, abbiamo una novità legata al nostro interesse nel trovare nuove strade attraverso cui il pubblico si possa avvicinare alla contemporanea. Si chiama Take Your Time e consiste in sei lezioni pubbliche in sei librerie milanesi, tenute da Alessandro Solbiati e Alfonso Alberti: saranno lezioni su autori contemporanei, messi in realazione a qualcosa del passato, alle loro origini. Abbiamo capito che il concerto di musica contemporanea è effettivamente qualcosa di molto impegnativo per qualcuno; non è come una mostra, in cui ci si fa un giro e se non piace si può uscire. Un concerto può durare un’ora, un’ora e mezza, due ore, bisogna stare seduti, magari senza capire nulla, magari annoiandosi… Può essere frustrante; non è sempre facile andare a un’esibizione e soprattutto in luoghi istituzionali, nelle tradizionali sale da concerto. Per questo stiamo cercando di portare la nostra musica anche in altri luoghi, già frequentati da persone che si occupano di contemporaneo. I concerti che facciamo al Museo del 900, ad esempio, sono piuttosto corti: 30/40 minuti di bella musica bastano e sono più facili da apprezzare. È giusto offrire possibilità di fruizione “semplificate”, cercando di aprire strade nuove. Noi lo facciamo con questi appuntamenti, con incontri in cui si parla di musica, oltre che farla sentire. Non dai salumai, sia chiaro, ma in negozi di libri, gallerie d’arte… Luoghi anche “commerciali” dove le persone, cercando altro, trovino anche la musica.

Crede di poter ravvisare un cambiamento, plausibilmente un ampliamento, del pubblico della contemporanea a Milano?
Credo che il pubblico sia un po’ aumentato, ma soprattutto che abbia più consapevolezza di quello che va a sentire – non è più come 30 anni fa, quando la musica contemporanea era davvero per pochi. C’è un pubblico che ha aspettative, che resta contento o deluso, un pubblico ancora piccolo purtroppo, ma che è cresciuto nella consapevolezza. Giovani, devo dire che sono ancora pochi. Ma questo anche quando Pollini suona Beethoven…

Torniamo sul punto che sta più a cuore a Divertimento Ensemble, i giovani. Qual è la marcia in più che riscontra nei compositori meno avanti negli anni, l’approccio alla musica che ricercate nelle nuove leve e che, a quanto pare, continua ad alimentare il vostro lavoro in primo luogo “formativo”?
La cosa che personalmente suscita la mia attenzione è la necessità interiore di scrivere. Quando un giovane scrive perché ha bisogno di scrivere – e non per manierismo o perché segue delle scuole, ma perché ha l’urgenza di scrivere qualcosa – allora questo è quello che reputo nuovo. Il nuovo è il contrario del manierismo, un’urgenza che è sempre nuova e diversa per ciascuno. Ci sono cose nuove belle e cose nuove brutte, intendiamoci. Il nuovo scaturisce dalla somma dei singoli individui che cercano dentro sé stessi, noi lo cerchiamo nei giovani ma ci sono anche persone meno giovani che perseguono in questa strada, in questa ricerca.

An-Experiment-With-Time
An Experiment With Time, istallazione per video ed elettronica di Daniele Ghisi

Cinque giovani compositori che ci consiglia di tenere d’occhio?
Daniele Ghisi (compositore in residence dello scorso anno e protagonista dell’inaugurazione della stagione con An Experiment With Time, NdR), Giovanni Bertelli, compositore in residenza di quest’anno, Stefano Bulfon, Marco Momi, e Federico Gardella.