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Ekor CORP

Decontestualizzare la divisa: lo streetwear a partire dai teloni tecnici militari

quartiere Bovisa

Written by Federica Amoruso il 7 April 2022
Aggiornato il 19 April 2022

Foto di Glauco Canalis

Bartolomeo Cevoli è la mente e le mani di Ekor CORP: non un brand, ma un modo di riappropriarsi di materie, linguaggi e proprie del concetto di uniforme grazie a un ciclo di recupero, riutilizzo e ri-pensiero. Un immaginario del fashion che non è fast, dal retrogusto innovativo nell’uso di tende utilizzate per la guerra, che decontestualizza le uniformi.

«I tessuti che utilizzo sono quasi un ready-made, perlopiù deadstock delle aziende, se non ritrovamenti fortunati.»

 

Ciao Bart. Cos’è, chi è Ekor CORP?

Ciao, io sono Bartolomeo Cevoli. Ho studiato Fashion Design ma in realtà è come se facessi questo da sempre, ci sono nato: mia madre aveva un atelier di vestiti da sposa. Terminati gli studi in università ho iniziato subito a lavorare per Nemen. Anni dopo, con l’arrivo del covid ci siamo “separati” e ho iniziato a pensare a un mio progetto. Durante un weekend a Rimini dai miei genitori, vengo a conoscenza di un immenso “archivio” di abbigliamento militare, situato a Santarcangelo di Romagna. Devo dire che, seppur ripudiando tutto ciò che fa parte del mondo delle forze dell’ordine, le divise e uniformi mi hanno sempre affascinato. Sarà anche per questo motivo che quell’archivio mi ha colpito così tanto, facendomi provare un sentimento collocato tra amore e odio. Nella mia esperienza professionale precedente avevo già realizzato molti capi d’ispirazione militare: vuoi o non vuoi, il mondo militare è un ottimo punto di partenza per l’abbigliamento streetwear e non solo.

Il mio progetto è nato per decontestualizzare tutto ciò che è guerra. Raramente creo capi custom. In generale lavoro con enormi teloni degli anni ’30/’40 e ’50. Non è un tessuto convenzionale e mi piacciono perché conservo tutto, scritte, timbri, tagli, bottoni. All’inizio ho deciso di lavorare solo con teloni degli eserciti russi, polacchi, americani e di utilizzarli per creare capi ispirati ai worker di strada giapponesi. L’idea è anche decontestualizzare i conflitti tra queste nazioni e valorizzare quella cultura. La prima produzione è stata fortemente caratterizzata da questa influenza giapponese: kimoni e gonne, tutto rigorosamente no gender. Sono tutti pezzi unici, non conservo nulla in archivio. Parliamo di teloni che in fondo non sono né miei né di chi me li ha dati, piuttosto di chi li ha utilizzati per ripararsi. Negli stessi termini, mi piace pensare che ciò che ne deriva non mi appartenga più, che vada a qualcun altro. Mi rimane solo la foto. Mi piace perché fin da ragazzino ho sempre fatto graffiti e una canzone recitava: “La fotografia è il 50% del nostro gioco. Se fai un graffito su un treno e il giorno dopo quel treno parte, non ti rimane che la foto”. Lo stesso concetto lo applico a quando realizzo un capo.

Insomma, pics or it didn’t happen. Si tratta di un approccio quasi performativo, di cui però ti rimane documentazione, insomma.

Esatto. Oggi siamo comunque vincolati da questa vetrina digitale: alla fine alle persone interessa vedere ciò che faccio, non ciò che possiedo. Da poco ho spedito un cappellino in Finlandia. Questo mi ha entusiasmato parecchio! Pensare che qualcuno dalla Finlandia ti trovi e abbia qualcosa di tuo lì è pazzesco.

La tua prima collezione da un veloce sguardo richiama la tematica dei conflitti armati…

Pensa che non mi piaceva neanche molto il verde come colore. Ovviamente cerco di neutralizzare l’idea malsana della guerra. Dal punto di vista artistico questo progetto è frutto della pandemia. Pensandoci io funziono così: quando sono in crisi – sia per lo stress determinato dai tempi di consegna, che emotivamente – mi ritrovo in una sorta bolla che mi fa toccare dei punti di down dove trovo la spinta per intraprendere nuovi progetti. Al momento, mi occupo anche di consulenze e quando mi ritrovo in quegli attimi frenetici di scadenze pre-sfilate assaporo quella pressione, mi piacciono quei momenti.

Di cos’altro ti occupi?

Al momento oltre alla mia produzione Ekor CORP, ideo e realizzo alcuni capi per un altro brannd. Seguo anche un progetto di cui spero ne possiate sentire parlare a breve. Per la sfilata di Vitelli ho realizzato capi esclusivi realizzati grazie a scarti di filati delle aziende che – tramite un macchinario apposito – vengono tessuti in un unico panno. Il mio ruolo in questo caso è stato complesso: mi sono stati commissionati capi imbottiti a mano con gli scarti dei tessuti. Un lavoro pazzesco con capi che, da finiti, sfioravano i 2 kg di peso. Mi sono occupato di tutto il processo: disegno progettuale, prototipia, modellistica e capo finito. Grazie alle competenze professionali acquisite nella mia esperienza professionale procedente, mi sono ben inserito in un ambiente di alto livello e ho potuto seguire tutte le fasi di progettazione e realizzazione nel dettaglio, dalla ricerca alla produzione.

Al momento crei vere e proprie collezioni Ekor CORP o ti affidi a una produzione più spontanea?

Il mondo dell’abbigliamento sta cambiando e credo fortemente che debba farlo. Soprattutto per quanto riguarda le dinamiche di consumo. Nel mio caso, i tessuti che utilizzo sono quasi un ready-work, per lo più deadstock delle aziende, se non ritrovamenti fortunati. Il militare oggi è figo ma è anche una tendenza di gusto effimera. Per il momento ho creato una prima collezione di “prova”, scattando e allestendo lo shooting dei capi a casa mia. L’idea di partenza era quella di fornire un pacchetto completo, a partire dal logo in poi. Tuttavia per me questo è già troppo “brand”. Alla fine, ho deciso di iniziare da una fase preliminare per suscitare aspettativa e successivamente pubblicare tutti i capi insieme, in modo tale che avessero una coerenza e un corpo solo. La calendarizzazione e la stagionalità tipica del fashion system ha fatto il suo tempo ormai. Ad oggi non ha più senso parlare di primavera/estate e uomo/donna.

Per creare, per stare bene, ho bisogno del mio spazio, del mio ambiente. Ho bisogno di mantenere una certa spontaneità, e non ci riuscirei se il 15 del mese dovessi preoccuparmi di far uscire una collezione. Il mio lavoro è un racconto: è la storia di un anno di ricerca.

Questo progetto l’hai realizzato completamente da solo: realizzi anche progetti in team o devi essere rigorosamente in solitudine per lavorare?

Mi piace moltissimo lavorare da solo ma anche la dinamica del team mi entusiasma. Parlo di team piccoli : lavorare in Vitelli, per esempio, mi ha colpito perché si è creato un ambiente informale ed estremamente positivo. Se invece dovessi pensare al classico environment dell’industria della moda, a compartimenti stagni da chi si occupa della ricerca tessuti, chi del design e chi della produzione, non mi sentirei a mio agio. Mi piace pensare che ogni persona all’interno della azienda debba conoscere almeno un po’ tutto il ciclo produttivo. Rifuggo quel sistema per cui spesso ti relazioni solo con uno schermo e non tocchi nemmeno un tessuto o uno spillo, una macchina da cucire. Io sento invece il bisogno forte di un approccio più materico e meno digitale.

Non credi ci sia attualmente uno shift verso quel tipo di realtà, un ritorno alla matericità?

Sta tornando l’idea del laboratorio, per fortuna. Mi è capitato di lavorare a progetti in cui i prototipi venivano prodotti oltreoceano e tornavano qui con tempi assurdi. Non ha senso. In Italia abbiamo le competenze e le capacità di realizzare tutto in loco. Nel mio approccio, cerco anche di non snaturare la materia con cui mi relaziono. Ad esempio, raramente acquisto tessuti privilegiando il recupero. Tessuti pronti e appena realizzati dalle aziende, credo snaturino completamente il messaggio. Preferisco concentrarmi sulla creazione di un solo pezzo. Se un giorno dovessi produrne cento, troverò un modo di farlo mantenendo un’etica e una metodologia coerente. Ciò che faccio non è legato a logiche di vendita e riscontro economico, dall’esito di successo o fallimento. Ekor CORP, del resto, è il mio viaggio ed è giusto che lo intraprenda e lo gestisca io. I feedback più interessanti sono comunque arrivati spontaneamente da persone che stimo e ammiro professionalmente. Ed è stata una bella soddisfazione!

Hot topic: Milano. Come la vivi?

Milano è una città troppo piccola per essere vissuta in piccole comunità, con il risultato che quando queste si formano diventano comunità disgregate tra loro. Basta pensare a quelle dei centri sociali piuttosto che a quelle d’élite. Penso invece a Rimini, la mia città: lì non ci sono differenze, siam tutti sulla stessa barca. Così quando vedo quegli atteggiamenti esagerati e quel mantenere le distanze tipici di Milano, sorrido un po’. Siamo tutti persone, meglio non hyparsi troppo da soli! Spesso dico che Milano è un “luna park a luci spente” in questo periodo. C’è tutto ma si riesce a fare ben poco. Io son qui da circa otto anni quindi ho una visione parziale delle cose. Ma se penso ad un universitario che arriva oggi a Milano, cosa ti può dare ora questa città? Dovrebbe esserci la maggior offerta culturale possibile, ogni giorno. Non sono mai stato uno troppo da club, ho sempre prediletto spazi occupati e centri sociali… e questo manca. Sono di ritorno da tre giorni a Londra che finalmente mi hanno fatto sentire vivo. Con questo intendo facce, suggestioni, i quartieri. Milano è piccola, da Bovisa a Ripamonti ci metti 35 minuti in bici. Se togli a Milano le situazioni che la rendono Milano, cosa resta?

E il quartiere, Bovisa?

Quando sono arrivato a Milano mia sorella abitava in Piazza Bausan e di primo acchito ho pensato fosse orribile. Ora invece sto cercando di convincere tutti quelli che conosco a venire a vivere qui: c’è tutto, è un paesello. È quel tipo di ambiente in cui puoi creare le situazioni e vivertele. Il ponte della Ghisolfa ti separa dal resto della città; se devi andare in Centrale devi passare in Maciachini. Mi piace il fatto che ti sembra sempre di star fuori da tutto. E poi c’è un mix di culture che genera un’offerta anche enogastronomica differente, che mi piace. Come mi piace il fatto che questo sia un quartiere sembri una piccolissima città non un’area della città.