Chi lavora negli spazi del design e del mobile conoscerà di certo Giacomo Moor. Eccolo, il legno che si disegna nella vostra testa, l’odore della segatura e della vernice, il rumore dei macchinari e lo strofinio della cartavetra. È il confronto tra il design e l’artigianato che trova qui il giusto equilibrio, tra lo studio in cui si disegna e i trucioli che saltano dai bordi delle assi. Mentre le memorie politecniche e laboratoriali si fanno nitide, vi ricordiamo che più o meno da sempre Giacomo ha il suo studio/laboratorio al confine del quartierino, e siamo andati a intervistarlo.
Ciao Giacomo, pensa: io ho studiato design e mi ricordo che si parlava di te al Politecnico, diciamo un po’ ai lettori di Zero chi sei.
Io nasco, cresco e sono laureato come designer, proprio al Politecnico. Se dovessi descrivere il nostro lavoro, direi innanzitutto che la nostra ambizione, il nostro valore aggiunto, è quello di seguire il progetto in tutti gli aspetti, seguendo tuta la filiera. È impegnativo, devi gestire molti aspetti e parecchio diversi tra loro. Ma credo sia vincente, perché il cliente ha un unico referente, sia per il progetto che per la fase esecutiva e produttiva. Una formula semplice ma efficace. Così che lavoriamo principalmente con privati, e il resto è per aziende e gallerie, come Luisa Delle Piane, Memphis e ora Giustini/Stagetti.
Vorrei far sapere ai lettori che stiamo parlando in uno spazio che pare, anzi è una falegnameria. Come mai questo spazio ibrido?
Noi siamo in questo spazio da tre anni e mezzo. Precedentemente eravamo sempre in zona, un posto molto più piccolo, tutto articolato e complesso, in cui era un casino riuscire a lavorare. Non riuscivamo nemmeno a fare entrare i camion nel cortile, ed eravamo molti meno, pensa. Quello che vedi ora è ancora uno spazio abbastanza anomalo, ma perché ci abbiamo racchiuso sia la progettazione che la produzione. E abbiamo qui di fianco anche uno spazio “gemello”, identico, con una nuova macchina a controllo numerico.
Vantaggi di avere lo studio in questa zona?
La scelta onestamente era strategica ed economica. Io abito qua vicino, in Piola, con i miei figli e la mia compagna, ma oltre a essere vicino a casa lo studio si affaccia su via Padova che è da sempre la rotta per la Brianza. Una strada che faccio spesso per andare a scegliere il legname, discutere con un fornitore o incontrare le aziende con cui collaboro. E poi ovviamente per una faccenda di costi, allora era molto conveniente.
E come ti sei trovato?
Contestualmente la zona è cresciuta, e ha la fortuna rispetto ad altre periferie di essere molto vicina al centro. In metro ci vogliono una decina di minuti appena per arrivare in Duomo, e in bici qualcosa di più.
Poi certo, la rinascita del quartiere ha interessato maggiormente le aree di viale Monza, Venini, Ferrante Aporti, insomma tutta la zona che era anche interessata dalla Design Week e dello spazio Alcova. Da lì NoLo è esplosa, direi. Anno dopo anno abbiamo osservato tutta la trasformazione, evidentissima poi, che si è spinta fino a via Padova passando per Crespi, anche se queste ultime mantengono ancora un po’ del carattere più vecchio di questo quartiere. Una certa solidarietà che somiglia più alle realtà di paese che a quelle di città. Pensa che in pieno periodo covid, quando l’intera città era imbalsamata, qui rimaneva comunque quel minimo di movimento che ti lasciava l’impressione di una piccola cittadina a sé. Forse si hanno queste impressioni anche perché c’è una dimensione che ha confini fisici ben delineati e facilmente identificabili, che accentua ancora di più la suggestione di essere nel bel mezzo di un paese.
Come ti relazioni al quartiere?
Beh, relazionarsi al quartiere ora è difficile, perché purtroppo ormai non ho più tempo di viverlo come prima. Tra il lavoro, i miei tre bambini e la mia compagna che lavora con me, siamo un po’ come una pallina da pingpong impazzita, rimbalziamo di qua e di là ma sempre sullo stesso tavolo, per dire. Poi adesso con il covid, è tutto ancora più accentuato.
C’è stato però un periodo dove andavamo spesso al Manaba, un locale sudamericano divertentissimo in via Padova, proprio di fianco al Trotter, con un biliardo all’aperto. Credo che abbia chiuso a un certo punto perché c’era una situazione un po’ losca, ma abbiamo vissuto scene stupende, divertentissime.
Per me poi, in generale, si tratta di un quartiere dal potenziale enorme. Prendi il Trotter: è un esempio virtuosissimo di storie, tra l’importanza storica della scuola, la frequentazione multietnica e le tante lingue che si parlano lì dentro, e adesso con i nuovi campetti lo sarà ancora di più. Prima avevo il laboratorio proprio lì davanti, e ci andavo spesso, appena potevo. Per correre, per fare una passeggiata… e lo stesso vale per la zona di piazzetta Arcobalena, che è davvero molto bella adesso.
Il tuo lavoro, un po’ come il tuo spazio, è un ibrido tra la figura del designer che tutti conoscono e quella dell’artigiano. Dico questo perché mi chiedevo se avessi progettato qualche pezzo anche per qualcuno del “paesino” di NoLo.
Sì, abbiamo fatto un lavoro per Radionolo, con Riccardo. I tavoli che hanno nel loro spazio al Mercato Coperto sono i nostri, sai? Poi ho lavorato con alcune persone del quartiere, ma sempre privati che tendenzialmente sono giovani trasferitisi di recente nel quartiere, per cui abbiamo disegnato e realizzato soprattutto librerie e cucine.