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Giovanna Castiglioni

L’appartamento che racconta Achille Castiglioni, che ha fatto del gioco il suo mestiere

Written by Elisa Mencarelli il 18 May 2023
Aggiornato il 22 May 2023

Photo ICTM, Marta Marinotti, Federico Floriani

Ci sono luoghi fuori dal tempo e dallo spazio. Luoghi inaspettati, nascosti all’interno di palazzi d’epoca, al di là di cortili rigogliosi. Luoghi fatti di cose, ma soprattutto di persone. Persone che raccontano di storie lontane, che fanno un lungo viaggio per poi giungere fino a noi. In una wunderkammer popolata da oggetti e progetti meravigliosi, una voce narrante, quella di Giovanna, racconta la storia di suo papà, che è la storia del design, che è la storia di Milano.

«Munari e Castiglioni sono stati i miei compagni di banco. Quando lo racconto oggi le persone sobbalzano ma in realtà è vero, loro riuscivano a farti sentire grande quando eri piccolo e bambino quando eri adulto.»

 

Figlia del progettista Achille Castiglioni, nipote dell’artista Giannino Castiglioni. Nonostante tu sia nata a cresciuta in questo fervore culturale, a un certo punto hai intrapreso un percorso differente, studiando geologia. Quando ha capito di voler ‘tornare in famiglia’ e portare avanti l’eredità di tuo padre?

In verità non l’ho capito nemmeno adesso perché sono un’eterna bambina, però ci siamo accorti di quanto fosse bello poter aprire questo posto quando mia mamma ha detto: «Va bene occupiamocene, rendiamo questo studio visitabile». Per me voleva dire creare un luogo accogliente. Evito di pensare al peso di questo papà così importante, e tutte le volte che raccontiamo questo spazio, parlo di un papà che ha giocato con me fino a quando ho compiuto trent’anni. Noi lo descriviamo con quest’aria un po’ fanciullesca attraverso gli oggetti con cui sono vissuta. Per questo non mi sono resa mai conto di cosa rappresentasse Achille Castiglioni. A casa avevo il Basello perché era la scrivania di quando ero piccola, oppure mia mamma si sedeva su Primate perché aveva mal di schiena, e poi la lampada dedicata a me che si chiama Giovi. Non ho mai percepito gli oggetti con soggezione pensando “oddio questo poi andrà nei musei”. Una persona compra un pezzo perché è di Castiglioni, io invece te lo racconto come un oggetto che fa compagnia, perché è stato ben studiato e progettato per una funzione specifica.

Quindi non c’è mai stato per te un momento in cui la figura di Achille Castiglioni è passata dall’essere il padre giocherellone a un grande maestro della progettazione?

Non me ne sono mai resa conto veramente, per me è stato un papà che amava il suo lavoro, progettava, portava anche molto poco il lavoro a casa. Lui lavorava in questo studio in Piazza Castello 27 ed era la sua bolla, poi tornava casa e andava avanti a giocare. Ecco oggi mi rendo conto che quando giocava con me in realtà andava avanti a progettare. Anche con mia mamma, e perché lei era quella colta di famiglia, che io chiamavo miss google; sapeva tutto, leggeva tantissimo, fumava tantissimo e apriva ad Achille un mondo sulla cultura generale, sull’interdisciplinarietà, che lo arricchiva. Io invece ero una sorta di cavia. Quando ho aperto lo studio, le prime volte che facevo le visite guidate i visitatori arrivavano dalla Cina, dal Turkmenistan, dall’America o dall’Australia e io pensavo: «Ma tutta questa gente per papà?». Ecco lì ho capito che forse avrei dovuto studiare meglio la figura di Achille Castiglioni. Confesso di essere tornata all’università, andavo a seguire le lezioni per sentire che cosa dicevano gli altri di lui. Non percepisco il peso del grande maestro del design, per questo oggi lo trasmetto in maniera serena e tranquilla. Lui non è mai stato un archistar, non l’ha mai fatto pesare.

Tu e la tua famiglia frequentavate lo studio?

Io venivo qui molto poco e perché ero una trottola: sempre con la palla o lo skateboard, ed ero solo di intralcio. Però proprio per questo non mi ha mai fatto mancare quel lato ludico in casa. Munari e Castiglioni sono stati i miei compagni di banco. Quando lo racconto oggi le persone sobbalzano ma in realtà è vero, loro riuscivano a farti sentire grande quando eri piccolo e bambino quando eri adulto. Questa dimensione per me è bellissima e anche oggi con i miei strumenti cerco di replicarla, senza scimmiottare né uno né l’altro. La Fondazione dev’essere casa, non un museo. Qui tutto è a portata di mano. Ne è un esempio la mostra che vedi, “Fa ballà i man”; vi portiamo dentro con le mani a toccare gli oggetti originali del papà, non troverai da nessuna parte il cartello “vietato toccare”.

In questi anni di ricerca, di studio e di analisi che hai fatto di Achille Castiglioni designer, c’è stato un aspetto del suo lavoro e del suo approccio, che ti ha particolarmente colpito?

Lui ha sempre detto una frase, che non avevo mai completamente fatto mia: «Se non siete curiosi lasciate perdere», che è un po’ il nostro tormentone, talmente bello, attuale e per tutti. L’ultima parte della frase dice: «E se non siete curiosi e non vi piacciono gli altri, ecco il designer non è il mestiere per voi». Questa parte è legata ai designer, ma in realtà può essere applicata a tutti i mestieri. La curiosità è uno strumento che deve essere insegnato, raccontato fin da bambini. Molti ragazzi oggi sono un po’ lobotomizzati davanti al cellulare, sono privi di curiosità e perché non sfruttano al meglio questo mezzo così potente. Così si finisce per non avere idee. Io giocavo un sacco con papà, con mille cose diverse, ma questo aspetto non l’avevo mai approfondito. Allo stesso modo l’autoironia: non prendersi troppo sul serio. L’altro problema che affligge i giovanissimi è che hanno paura di sbagliare. Ma invece no. Va bene provare, e se va male puoi sempre ricominciare. Questi sono due aspetti che ho imparato lavorando qui. Di errori ne abbiamo fatti anche noi, alcune volte non sapevamo come accogliere le persone, magari abbiamo sbagliato alcune mostre, ma va bene si può sempre rifare, ti rimbocchi le maniche e vai avanti. Questa leggerezza nello spirito, ma serietà nei progetti, papà l’aveva insita. Io invece ho ereditato il lato più umano, mi metto costantemente in discussione, quando finisco una visita chiedo sempre se le persone sono state bene, se sono contente. Non puoi dare tutto per scontato, è fondamentale interrogarsi, porsi delle domande.

Come hai detto anche tu quella del pubblico è una dimensione cardine. In che modo è cambiato il vostro interlocutore negli anni?

Ancora una volta negli anni mi sono plasmata rispetto a quello che il pubblico voleva da questo posto. Mi sono resa conto che cambiare la visita tutte le volte non annoiava me, e non ascolti un disco registrato. Cambiare le mostre all’interno dello spazio era molto funzionale, un po’ perché utilizzi materiale d’archivio che poi noi digitalizziamo, allo stesso tempo trovo nuovi progetti da studiare e da raccontare. Poi personalizzo la visita anche in base al sorriso che vedo davanti, se una persona è triste cerco di dargli un po’ di energia, al contrario se vedo un pubblico molto carico cerco di smorzare. Ecco il mio è un grande lavoro di psicologia, adattare la visita al visitatore è anche mettersi a disposizione. La parola accoglienza è fondamentale: più che il museo fatto bene, dobbiamo veramente tornare a essere più umani, aprire la porta e sorridere, ovviamente è un lavoro di squadra e io sono la voce narrante. Siamo pochi ma buoni, tutti con dei ruoli definiti (è una macchina che deve funzionare in maniera perfetta, perché le risorse sono minime). Questo luogo è il cuore pulsante della Fondazione, però noi cerchiamo anche di portare la Fondazione fuori, attraverso conferenze, mostre e workshop. Come ti dicevo io mi interrogo molto, soprattutto sul domani; se questo posto dovesse chiudere cosa lasciamo agli altri? È possibile fare questo lavoro anche fuori da qui? In 20 anni abbiamo dimostrato che sì, è possibile. Pochi mesi fa ero a Tel Aviv con l’ambasciatrice del design italiano, prima ero a Bruxelles. Sono tipo Mary Poppins, arrivo con dei borsoni, metto due magliette e un jeans e tutto il resto sono oggetti del papà che porto in giro per il mondo. Se riusciamo a farlo anche fuori va da sé che questo luogo ora va bene perché è il fulcro, però effettivamente se non vogliamo affezionarci troppo ai luoghi che possono un domani sparire è bene imparare a portare questi bagagli altrove.

C’è un luogo nel mondo, in cui, più di altri, hai percepito il calore e l’entusiasmo per il lavoro di tuo padre?

Qui a Milano siamo tutti abituati a sentire parlare di design. Capita che in un giorno ci siano contemporaneamente quattro eventi legati al design. Ma quando sono stata a Tel Aviv, ho parlato a 300 studenti, poi sono stata in Arabia Saudita, a Jeddah, lì alla fine del talk ci sono state 3 ore di domande, in cui abbiamo smontato e ricomposto lampade. Poi vai in America e la gente è curiosissima. In Australia ho avuto 4 tappe in giro per la nazione dove la gente veniva ad ascoltare le mie storie, io ero all’inizio della mia carriera di voce narrante e quell’esperienza mi ha dato un’energia incredibile, per questo ho deciso di affrontare il mio lavoro così, portandolo in giro per il mondo. L’Australia è forse il posto dove ho ricevuto veramente tanto calore dalle persone. Riuscivano ad organizzare le conferenze non solo on stage nei musei, ma anche negli showroom, in una dimensione più intima, e lì preparavano delle cene. Questa parte conviviale era un punto fondamentale del racconto. Si parlava di mio papà seduti a tavola con le posate di Castiglioni, i piatti di Castiglioni, ed è stato bellissimo. Il Giappone è un altro posto meraviglioso, e nonostante la distanza che creano i giapponesi sono in realtà tutti molto attenti e curiosi. Il papà senza saperlo mi ha fatto un dono incredibile. Tutti i giorni quando esco dallo studio lo ringrazio.

E invece tra mostre e gli eventi organizzati qui in sede, c’è un momento che ti è rimasto particolarmente nel cuore?

Una mattina ero in bagno e mi sono chiesta cosa fare per il compleanno del mio papà che sarebbe stato il 16 febbraio, era il 2018. Facciamo una grande festa, chiediamo a 100 designer di spendere poco e portare un regalo al papà come se fosse vivo. Jasper Morrison, Patricia Urquiola, Mendini, De Lucchi, Enzo Mari, insomma tutti, dai più ai meno giovani hanno partecipato a questo grande evento. E oggi mi ritrovo con un’altra collezione di oggetti anonimi regalati da più di 100 designer. Non mi aspettavo una partecipazione così sentita. Qui tutto è emozione, è un atto d’amore nei confronti di un luogo e per me nei confronti del papà.

La prima cosa che si nota entrando nella Fondazione è la dimensione domestica di questi ambienti, fuori dal tempo e dallo spazio. Quanto è cambiato e quanto è rimasto intatto questo studio negli anni?

Dal 1962 fino al 2002, il papà aveva usato questo spazio come studio professionale. Noi l’abbiamo trasformato in un museo, ma senza dire che è un museo, infatti tu non percepisci questa dimensione ma è indubbio che le persone quando entrano si sentono come in un luogo di esposizione. Mi rendo conto che lo studio nel tempo è cambiato, noi facciamo mostre temporanee e spostiamo gli oggetti, è vero che questo è il luogo originario, ma allo stesso tempo se noi creiamo ogni volta una mostra diversa le persone tornano con gli amici per vedere delle cose diverse, quindi non fossilizzi il passato, te lo dico da geologa, non sedimenti. Non dobbiamo cristallizzare la storia, fermarla in un tempo passato, ma dobbiamo guardare oltre. Un luogo così deve parlare alla pancia ma anche al futuro, e fare in modo che i progettisti prendano spunto da ciò che vedono qui, che si portino via delle idee. Sicuramente ci sono delle mostre che sono venute meglio di altre, abbiamo accolto designer da fuori che hanno fatto qui la loro mostra. Designer che sono entrati a gamba tesa e altri più delicati. Oppure le nostre mostre, che peschiamo dal materiale d’archivio e a cui diamo nuova vita. Alcune più di ricerca, di sperimentazione. Ma il tema fondamentale oggi è uno: se questo studio domani – visto che siamo sotto sfratto – dovesse chiudere cosa facciamo? Una domanda aperta che io lancio alla comunità del design, perché non voglio essere sola in questa decisione. Da un lato sicuramente questo luogo potrebbe essere salvato, oppure proviamo a portarlo da un’altra parte, mettendo in campo tutte le nostre energie per far sì che le mostre avvengano altrove e così andare avanti.

E se tuo papà fosse qui oggi, preferirebbe rimanere in questo luogo o sarebbe il primo a cambiare e cercare un altro spazio?

Questa è un’altra domanda che mi sono posta anche io. Secondo me se al papà, che era un visionario, avessero detto di andarsene – com’era già successo nel suo primo studio in Porta Nuova – ieri come oggi avrebbe detto: «Va bene, troviamo un altro spazio». Anche perché un altro posto più grande ci permetterebbe di dare una migliore destinazione a tutti i progetti che ora sono in cantina e in magazzino. Milano poi è una città che muta in continuazione, siamo sempre in corsa, è il dinamismo alla Balla o alla Boccioni che fa parte del mio essere. Però a volte forse sarebbe meglio fermarsi e riflettere. Così come i designer che non vorrebbero farsi fagocitare da questo lavoro che ormai è solo comunicazione e poco progetto. La Fondazione è uno specchio sul mondo. Mi sono resa conto che qui abbiamo un occhio sulla società, quando ho aperto questo spazio, timida, con le ciabatte, ho scoperto che tutti gli stranieri che vengono ti raccontano le loro storie e anche loro percepiscono una città che cambia, a volte in maniera positiva a volte quasi frastornante.

E secondo te la Fondazione è tale e ha senso perché è qui a Milano, in Piazza Castello, oppure potrebbe essere la medesima e avere lo stesso significato in qualsiasi altro posto?

Achille e Pier Giacomo decidono di aprire questo studio nel ’62 poco prima dell’apertura della metropolitana. Arrivano qui e scelgono questo spazio perché era sufficientemente grande per ospitare tutti i collaboratori, perché mio papà abitava a poca distanza, perché qui vicino c’era la Triennale ma soprattutto perché da qua in 10 minuti sei in autostrada, e puoi arrivare facilmente nelle varie aziende dell’hinterland milanese. Ecco all’epoca la scelta di questo posto non era stata fatta perché lo spazio era di fronte al Castello o perché qui accanto c’era Marco Zanuso o Umberto Eco – certo anche questi sono stati aspetti molto interessanti – ma prima di tutto questo era un posto facile, non strategico e piuttosto umano. Da quando la Fondazione è stata costituita nel 2011 pensa a come è cambiato tutto: la metro è qui e i turisti arrivano facilmente, da qui puoi visitare il Castello e la Triennale, e questo per noi è fondamentale perché crea un percorso per i turisti che vengono a Milano. Quindi sì: oggi ha senso essere qui. È vero anche che se io trovassi una vecchia fabbrica e riuscissi a portare tutti gli oggetti in un altro luogo, questo deve essere ben servito perché è un po’ la stessa strategia che aveva usato anche Achille. Credo che sia proprio questa la grande differenza, all’epoca mio papà la scelse con una comodità personale oggi dobbiamo pensare al pubblico.