Go Dugong, al secolo Giulio Fonseca, calca da anni la scena dell’elettronica milanese e nazionale. Dall’ep Was all’album Novanta ha dimostrato di sapersi giostrare tra sonorità diverse e generi lontanissimi. Dopo essere partito dalla scena hip hop, aver frequentato il post rock e aver approfondito il seapunk, due anni fa ha pubblicato l’ep TRNT, con cui dava il via alla sua ricerca folktronica sulle musiche tradizionali del Sud Italia.
Dopo aver sperimentato coi tempi della tarantella, Go Dugong è tornato ad occuparsi della sua terra natale nel suo ultimo album, Meridies, uscito per Hyperjazz e La Tempesta. Se a un primo ascolto gli elementi che emergono con più forza sono le ritmiche trascinanti, le fascinazioni occultiste, l’indagine di antiche malie, a una chiacchiera più approfondita si capisce subito che questo lavoro è molto di più: un modo libero e divertito, rispetto a TRNT, di provare a riconciliarsi con le proprie radici.
La tua carriera musicale è un fiume in piena. Sei passato dall’indie e il post-rock con i Kobenhavn Store alla chill wave, al seapunk, alla folktronica e all’afrofuturismo. Come si conciliano interessi per generi così diversi? Come trovi la tua sintesi in questo mare di suggestioni?
Non si conciliano. Coi Kobenhavn Store mi interfacciavo con una band. Nascevamo da un mio progetto solista, ma pian piano ci siamo allargati e siamo diventati una band. Il discorso è un po’ diverso dal progetto Go Dugong. Con Go Dugong mi sono sentito libero, perché ero da solo, di esplorare vari territori musicali. Di solito quando faccio un disco parto da un argomento al quale mi appassiono e poi cerco di trovare un linguaggio giusto, tramite la musica, per raccontare quest’idea. Per raccontare alcune cose uso certe sonorità mentre per farne altre ricerco un altro tipo di musica. Mi piace esplorare diversi territori, mi interessa mettermi costantemente alla prova. Con Go Dugong ho voluto lasciarmi tutte le porte aperte. Non ho mai avuto l’approccio di crearmi un mio stile molto caratteristico e poi fissarmi su quello. Sono più esplorativo. Sono più un appassionato di musica che non un produttore. Poi spero che si senta che c’è la mia mano dietro perché prediligo certi tipi di suoni, certe strutture, certe ritmiche. C’è sempre l’aspetto psichedelico da quando facevo i beat hip hop ad adesso. Non riesco a raccontare storie diverse con un unico linguaggio. Magari un giorno ci riuscirò, ma per ora non è la mia cosa.
Per il Time Zones Festival, a Bari, hai curato "Nella perfida terra di Dio", uno spettacolo tratto dall’omonimo romanzo di Omar di Monopoli. Com’è stata l’esperienza? Leggi tanta narrativa italiana?
Non conoscevo Omar Di Monopoli e non conoscevo il libro. Sono stato contattato da Gianluigi Trevisi di Time Zones che mi ha proposto questa cosa. Mi ha detto “guarda, c’è questo libro che vorrei mettere in scena grazie all’esperienza di Ippolito Chiarello. Le tue musiche sembrano fatte apposta”. Mi sono comprato il libro quest’estate e me lo sono letto d’un fiato perché è stupendo. Era tanto che non leggevo un romanzo. Ultimamente leggo solo saggi. E infatti è stato molto bello perché ho staccato un po’ dalla pesantezza di tutta la saggistica che mi accollo. Credo veramente che la mia musica si sposi con alcune cose del romanzo. Quell’ambientazione western, i fischi alla Alessandro Alessandroni. Siamo entrambi un po’ western del Sud Italia. Perché nel romanzo c’è di tutto: Sacra corona unita, scommesse sui cani, abusi edilizi, occultamenti di rifiuti tossici. Quando mi hanno proposto il progetto ho preso materiale che avevo già prodotto e l’ho adattato al teatro. Si leggevano degli estratti del romanzo e i miei pezzi erano una sigla di connessione tra un estratto e l’altro.
Un elemento che accomuna la musica elettronica che fai tu e la narrativa di Di Monopoli è che richiedono entrambe una soglia dell’attenzione molto alta all’ascoltatore e al lettore. Come si fa a competere con l'intrattenimento più commerciale? Ci si rifugia nella propria nicchia o ci sono altre vie?
Semplicemente non preoccupandosene. Infatti rimango un prodotto di serie B, forse serie C addirittura, ma ci sto molto bene io in serie B. Quella è la verità. Non è una scelta alla fine. Fai quello che ti piace fare senza pensare che la tua musica la devono ascoltare migliaia o milioni di persone. Lo fai perché stai male se non lo fai. Se anche se l’ascoltano in cinque gatti sticazzi. Io però non posso fare cose che non sono nelle mie corde.
Sei molto legato alla Puglia, tua regione d’origine, a cui hai dedicato l’ep TRNT. In Meridies, il tuo nuovo album, ti sei dedicato alla ricerca sulla musica tradizionale pugliese. Che rapporto hai con la tua terra d’origine e la sua cultura?
Questa è una domanda un po’ pesa. Non te lo so dire. Ci sono molte cose non risolte con la mia terra d’origine. Mi auguro che potrò risolverle, ma non è tutto a posto. Però, soprattutto con TRNT, fare una certa ricerca, chiedere in famiglia se tra i miei antenati ci fosse qualcuno che si era occupato di musica tradizionale, mi ha portato a riallacciare alcuni rapporti. Anche riallacciare rapporti con luoghi in cui ho vissuto. Però, a parte quando suono, non ci vado. È un posto dove ancora non mi sento a mio agio e dopo poco devo scappare. Non per colpa della Puglia ma è così. Però la rielaborazione pesante è stata con TRNT, mentre con Meridies la ricerca è stata molto più spensierata.
Sia le ritmiche sia i titoli dei singoli brani evocano, oltre a una vertigine psichedelica, una fascinazione esoterica. L’occultismo è molto di moda negli Stati Uniti (ma anche in Italia). Secondo te perché? Pensi che ci sia una ragione che accomuna te e i millennial americani nella ricerca dell’esoterico?
L’esoterismo c’è e tanto. In Puglia e nel Sud Italia. Ci sono dei rituali magici a cui mi sono appassionato. C’è un libro che è Sud e magia, dell’antropologo Ernesto de Martino che mi ha appassionato molto, che li spiega molto bene. Io non pratico alcun rito occulto, ma sono cose molto legate al territorio da cui vengo, mi affascinano molto e ho voluto che questa fascinazione emergesse. Mentre non sapevo che le nuove generazioni fossero appassionate di occultismo. Credevo di essere solo io e pochi amici freak ad essere invasato da queste cose. Mi piace l’I Ching, sto imparando la meditazione tibetana. Insomma sono un fricchettone.
Abbiamo parlato di musica tradizionale pugliese, di tarantella e di folktronica. Al COC di quest’anno Audi ha proposto The Artech Performance, una proposta di indagine sull’utilizzo dell’AI nella produzione musicale. Quale pensi potrebbe essere l’impatto dell’intelligenza artificiale su stilemi consolidati come quelli della musica tradizionale?
Sai che quando ho cominciato questo tipo di ricerca volevo cercare di ricreare il suono del tamburello in maniera artificiale e digitale? E in parte l’ho anche fatto con l’ep TRNT. Gran parte dei tamburelli sono programmati da me tenendo conto del tipo di colpo (con quale parte della mano il tamburo viene colpito) e dell’intensità. Ho ricercato molto anche quella randomicità “umana”. Mi affascinerebbe molto provare a portare questo ritmiche verso una direzione più digitale e più techno quasi, senza perdere totalmente la componente umana, sia nell’intenzione che nell’errore.
Una particolarità di Meridies è che hai rinunciato in buona parte a uno dei tuoi maggiori tratti distintivi, il campionamento. Da cosa nasce questa scelta?
Ci sono vari motivi. Un po’ per una questione etica. Arrivo anche dall’hip hop, anche se non si direbbe dalla musica che faccio. In quel mondo lì ci ho girato tanto, prima ancora di passare dall’indie. E quindi avevo questa attitudine hip hop e facevo tutto con i campionamenti, senza creditare e fregandomene grandemente. Andavo e prendevo quello che mi serviva. Poi crescendo mi sono reso conto che non era più un modo di fare che trovavo giusto né stimolante. Nello stesso tempo ho cominciato a legarmi a un tipo di produzione che prevede un contatto con altri musicisti. Mi piace molto questa cosa di confrontarmi con altri musicisti e non lavorare più da solo come facevo quando camiponavo. Anche se qualche campione c’è anche in Meridies.
Anni fa, in un’intervista, ti esprimevi sulla difficoltà di portare all’estero la musica italiana. Dicevi che “l’Italia è un Paese chiuso in se stesso, in cui gli addetti ai lavori operano con band italiane, e solo sul nostro territorio”. È cambiato qualcosa negli ultimi cinque anni?
Diciamo che il sistema-musica, bene o male è rimasto sempre quello. Le etichette italiane che producono anche progetti dall’estero sono veramente pochissime eccezioni. Diciamo che se nasce un’etichetta italiana produce solo artisti italiani tendenzialmente. Mentre se nasce una label in Inghilterra è più aperta a lavorare con progetti stranieri, anche italiani. Il sistema è sempre molto chiuso purtroppo. Però c’è anche da dire che dall’estero in questi anni c’è una maggiore attenzione nei confronti di quello che esce dall’Italia musicalmente, ed è più facile farsi ascoltare, il lavoro che in questa direzione sta facendo una realtà come Italia Music Export è encomiabile.