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Inmotulus e l’utopia del disegno

Stare fermi continuando ad avanzare e viceversa, come il tratto che scorre su ogni superficie e crea interi universi di creature, respiri e azioni politiche

Written by Annika Pettini il 1 July 2025

Le persone sono mondi, nel loro esistere e nel loro sentire creano visioni e connessioni a noi sconosciute, fino a che non ci entriamo in contatto. Colgono dettagli di cui ignoriamo l’esistenza e sentono emozioni, profumi e colori, che possiamo scoprire solo attraverso di loro. E vorrei poter raccontare tutte le loro storie, soprattutto se sono artistə.

Quei mondi futuristici e visionari, che impressionano la pelle e l’anima. E rovistando tra le pieghe della realtà, ho incontrato Inmotulus, nome d’arte di una figura vestita di caos, che riversa fiumi di colori e linee in quelle mani mai ferme, che scattano sul mondo come i suoi occhi curiosi. Quando le cose che senti ti travolgono non ti resta che portarle fuori, a badilate se serve. Fiumi che diventano odissee che trovano vita su ogni superficie che incontrano, prediligono la carta ma accolgono ogni forma terrena e eterea. La sua ricerca è bisogno, pulsione, ossessione, la sua forma sono creature che prendono vita da guizzi di materia informe. Questa è Inmotulus, l’utopia del caos.

Il disegno è una forma di esistenza, un flusso, un rubinetto aperto.

Amo gli impulsi ossessivi e chi ha il coraggio di sposarli. Che relazione hai con il disegno?

Con il disegno ho una relazione di necessità ossessiva. Non riesco e non voglio farne a meno. Sento il bisogno di disegnare in continuazione e quotidianamente, oppure entro in crisi. È come una parte del mio corpo senza la quale non riesco a entrare in relazione con le persone. Ho passato diversi momenti e periodi intimamente difficili e quando dieci anni fa ho iniziato a disegnare, avevo 15 anni, ho cominciato a farlo quotidianamente e da lì non ho mai smesso. È stata la prima volta che ho sentito di valere in qualcosa. Il disegno è un dono, una cosa per me preziosa come nient’altro. Provo sempre piacere nel disegnare, non è mai una costrizione. E le mie emozioni non le devo frenare. La connessione emotiva nel mio disegno è fondamentale.

In questi anni hai sempre lavorato duramente e affrontato con coraggio anche grandi crisi. E alla fine hai scelto di essere fluida, anima e stile liquidi e mutevoli in questo mondo di giustezze effimere.

Disegno per conoscermi e conoscere i contesti che vivo e che frequento. È una relazione continua, un punto di riferimento fatto di emozione e di fiducia. Nel disegno mostro me stessa in tutta la mia complessità, fragilità e vulnerabilità. Mostro tutta la mia rabbia, il mio dolore, la mia gioia. Non ho paura di farlo, nel disegno non ho paura di essere sincera anche quando la sincerità è difficile. È una relazione e un momento in cui non temo di mostrarmi nuda per come sono. 

Una forma di esistenza, un flusso, un rubinetto aperto. Se non ci fosse stata nella mia vita la pratica del disegno io non sarei la persona che sono ora. Forse non mi accetterei, forse senza questa relazione affettiva non avrei saputo apprezzare la persona vulnerabile ed emotiva che sono, e non avrei saputo come decostruire il sistema di oppressione dentro di me: è per questo che è una relazione senza fine. Nel disegno decostruisco prima di tutto me stessa. È come un sistema di deterrenza con il quale tengo queste dinamiche fuori dal mio cuore, il luogo dell’utopia.

In questo flusso di esistere, che cosa cogli del mondo intorno a te?

Colgo un mondo in crisi, attraversato da infiniti paradossi, contraddizioni, rotture. Manca la terra su cui muoversi, colgo apatia e anestesia. Indifferenza. Violenza sistemica normalizzata. Allo stesso tempo intorno a me colgo un disperato bisogno di affetto, di empatia e di trasformazione. Colgo un mondo che corre velocissimo rimanendo immobile. Vedo un mondo, il mondo in cui sono nata e cresciuta, che si sta sgretolando e l’utopia che serve è l’immaginare un altro paradigma, un altro modo di esistere in relazione.
Ora non vedo la pace, ma nel mio cuore sto disertando. Questa consapevolezza, che ho sempre bisogno di allenare, è sempre presente nelle scelte che faccio e nel modo di agire quotidiano, anche quando mi sbaglio.

Infatti il tuo lavoro ha anche una voce politica.

Nel mio lavoro parto facendo sempre riferimento alla cultura in cui abito e in cui sono immersa. La cultura in cui sono nata e cresciuta è una cultura coloniale. Io parlo di me. Una delle basi del colonialismo è definire lə altrə: storicamente è servito alle potenze coloniali per giustificare l’oppressione. Definire lə altrə con l’intenzione di disumanizzare per poter opprimere e cancellare, per poter portare avanti i propri interessi imperialisti. Un colonialismo che non è mai scomparso, che continua a esistere e che è tangibile, anche se continuamente omesso. 

Abbiamo imparato a non vedere. Abbiamo naturalizzato e interiorizzato tutto questo, le persone vivono una pace inesistente perché ignorano e si voltano dall’altra parte. Lavaggio del cervello, è il patto: impara a credere in questo sistema, aderisci alle regole di questo sistema o la tua vita diventerà impossibile. Quando però apri gli occhi e vedi la realtà per quella che è, il disagio diventa insopportabile.

E tu in cosa credi?

Nella mia pratica artistica, partendo dalla definizione di queste dinamiche, cerco, con i mezzi che ho, di decostruirle. Il mio lavoro è antipatriarcale, antifascista, anticapitalista, antirazzista. In cosa credo è qualcosa a cui non so dare risposta. Ciò in cui credo adesso è l’immaginazione. Mi porta ad accettare l’incognita. Credo nel pensare che un’alternativa sia possibile, che sia possibile intravederla anche quando questa è ancora invisibile ai nostri occhi. Il disegno è per me un atto di fede, di fiducia e di speranza.

In cosa credo? Nell’utopia, solo lì posso pensare a un lieto fine diverso. In cui la fragilità e la cura della persona in quanto tale sia tutelata. Un mondo in cui non domina l’oppressione, il potere e i soldi ma un mondo fatto di relazioni umane e non umane alla pari. È ancora un mondo utopico. Quindi, io credo nell’utopia.

Mi parli delle tue creature?

A meno che non stia realizzando un fumetto o un’illustrazione specifica, in cui per forza di cose c’è uno studio dietro, le creature che disegno nel flusso libero e di getto le sento come una figurazione dei miei stati d’animo e di come mi percepisco inserita nel contesto che vivo. 

A volte sono creature arrabbiate, a volte tristi, a volte completamente disorientate. Buffe, goffe a volte. Sono figurazioni dei miei sentimenti mutevoli. Prima di attraversare la crisi che ho attraversato per tre anni, e dalla quale ho sviluppato le creature che disegno oggi, disegnavo usando una struttura anatomica “accademica”, ero ossessionata dal corpo disegnato, e deformato. Ma il corpo che disegnavo era sempre il mio. Autoritratti in cui prendevo l’anatomia del mio corpo e la distorcevo rendendola mostruosa.

In tutto il periodo del liceo ho studiato sia danza, sia teatro e sia teatrodanza: forme di espressione in cui si racconta attraverso il corpo e il suo movimento. Nel teatro e nella danza erano i gesti del mio corpo a raccontare un concetto o a trasmettere uno stato d’animo. Tutto deve essere estremizzato e quasi deformato per essere trasmesso.

E questo approccio me lo porto dietro anche nel disegno. Anche la fotografia e il video sono importanti, perché metto in scena me stessa con la maschera.

Quindi esci anche dalla superficie dei disegni.

Queste creature, oltre che disegnate, stanno diventando anche tridimensionali. Sto cominciando a sperimentare costruendo pupazzi giganti mescolando la struttura e il corpo realizzati con i materiali della quotidianità e parti invece disegnate. Ho cominciato a lavorare tridimensionalmente grazie al riscontro avuto nella costruzione della mia prima mostra personale realizzata a marzo presso Calicanto Spazio Arte, uno spazio a Brescia di sperimentazione espositiva per moltə artistə: oltre ad aver appeso per tutto lo spazio tutti i miei disegni e disegnato sui muri senza lasciare nessuno spazio vuoto, ho costruito anche una creatura gigante fatta di scatoloni di cartone usati per i trasporti che avevo trovato per strada. Il corpo è stato tutto ricoperto di vestiti usati, la testa era con un palloncino gigante su cui ho dipinto la faccia e i capelli erano fili di lana grossa. Le mani e altri parti del corpo le ho disegnate e appiccicate sopra la struttura ricoperta di vestiti.