La nostra chiacchierata con il fondatore di Mousse
Written by Lucia Tozzi il 22 November 2015
Aggiornato il 30 January 2017
Edoardo Bonaspetti
Foto di Delfino Sesto Legnani
Per MiArt, «Mousse» cura tutta l’immagine coordinata. Cogliamo l’occasione per riproporre una chiacchierata con chi, dieci anni fa, ha fondato la rivista pensandola come freepress, per poi trasformarla in una casa editrice diventata riferimento di ogni appassionato d’arte.
Edoardo Bonaspetti ha fatto moltissime cose prima di fondare «Mousse» nel 2006, quasi dieci anni fa, ha anche imparato il cinese. Ma il successo del freepress poi ampliato in casa editrice ha oscurato il resto. Due anni fa è stato nominato curatore delle arti visive in Triennale. L’impronta di uno stile diverso è stata riconoscibile fin dall’inizio, nella scelta di artisti e curatori e moltissimo negli allestimenti, nell’aspetto delle mostre: Ian Cheng e Michael E.Smith curati da Filipa Ramos e Simone Menegoi, Marcus Schinwald a cura di Paola Nicolin, Baruchello e Latham a cura di Alessandro Rabottini, la collettiva alla fondazione Castiglioni con Luca Lo Pinto. A molti non sembrava neanche di stare a Milano.
Zero: È stato complesso costruire un programma del genere, o è filato tutto liscio?
Edoardo Bonaspetti: Una programmazione si costruisce in relazione alle specificità del luogo e la Triennale è uno spazio meraviglioso e singolare nella sua permeabilità di settori e discipline, dall’architettura al disegno, dalla moda alle arti visive. Questa specificità emerge nelle diverse tipologie di percorsi espositivi e deve mettersi in comunicazione con una molteplicità di interessi e bisogni dei visitatori. La Triennale non è un museo, né un’istituzione d’arte e spesso il pubblico arriva senza competenze determinate o aspettative. È una delle ragioni per cui mi piace molto sperimentare nei formati e nella programmazione. Oltretutto le aree espositive agevolano questa propensione, sono open space che permettono una grande libertà di articolazione. Ogni mostra che rientra nella mia direzione artistica diviene così l’opportunità per un progetto inedito, realizzato ogni volta con il contributo di un curatore italiano diverso, naturalmente tenendo conto delle ricerche e degli interessi di ciascuno. Ovviamente alcune mostre sono più facilmente fruibili rispetto ad altre: mi ricordo ad esempio che all’apertura di una esposizione che ho molto amato – Michael E. Smith – un visitatore mi ha chiesto dove fosse la mostra… L’istituzione ha sempre dimostrato fiducia e supporto nel mio percorso.
Quale di queste ti ha dato più soddisfazione?
In realtà non c’è stata una mostra che abbia preferito. Sono state tutte molto diverse. Quello che mi dà soddisfazione è lavorare con persone che stimo. A volte all’inizio del progetto non sappiamo esattamente dove si andrà a parare, si lavora a istinto e a volte sono il primo a stupirsi dei risultati inattesi, che emergono lungo il percorso.
Ora che si liberano gli spazi della Triennale, occupati per sei mesi da Arts and Food, ritorna visibile il tuo lavoro di programmazione e direzione artistica con la “mostra di mostre” Ennesima, che hai affidato a Vincenzo de Bellis. Ci puoi raccontare com’è nata e come si è sviluppata l’idea? Le scelte sono state comuni?
Gli spazi si liberano temporaneamente perché a marzo si inizierà ad allestire la XXI Triennale, che durerà sei mesi circa.
Ennesima rientra in un progetto ambizioso, che coinvolge tutti i dipartimenti, ognuno ha lavorato su una mostra legata all’Italia, e inaugureranno a pochi giorni l’una dall’altra.
Con Vincenzo non si voleva certamente produrre l’ennesima mostra “sull’arte italiana”, così abbiamo deciso di esagerare e di farne sette! L’idea è di frammentare questa meta-mostra in sette tipologie di formati e altrettanti possibili percorsi. Stiamo ricostruendo interi spazi espositivi, facendo casting per performance e tableaux vivants che non vengono messi in scena da decenni, riportando in Italia lavori quasi dimenticati e rendendo praticamente irriconoscibile l’architettura della Triennale.
Io e Vincenzo ci siamo sempre trovati molto in sintonia e mi sono particolarmente divertito.
Nonostante la pluralità di format e di prospettive che avete voluto dare a questa mostra, molti la leggono come un bilancio dell’arte italiana dagli anni Sessanta a oggi, con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano delle esclusioni/inclusioni. Ritieni sia una lettura illegittima?
Non parlerei proprio di bilancio, poi ognuno è libero di trarre le proprie conclusioni. Naturalmente Vincenzo ha le sue letture e predilezioni, ma sono sicuro che gli piacerebbe che la mostra fosse un punto di partenza, o una tappa per ulteriori progetti alternativi sul tema.
In questi giorni esce il numero 51 di «Mousse». Il magazine, fondato nel 2006, è sopravvissuto alla botta di una crisi finanziaria ed editoriale che ha affossato giornali e riviste di tutti i tipi, da quelle che appartenevano a grandi colossi, di lungo conio e alto prezzo, alle freepress più fresche e giovani. Come è andata? Come si è evoluto?
«Mousse» 51 sarà un numero speciale: abbiamo raccolto centinaia d’immagini di mostre tenutesi tra il 1985 e il 1995, pre-internet dunque; sono immagini circolate poco, è una sorta di rivalsa dell’analogico sul digitale, dalle mostre fondamentali a quelle underground. È fantastico osservare come certe logiche di display e documentazione siano mutate radicalmente da quegli anni. Pensando anche a questo numero ti direi che il piacere di sperimentare unito all’autorevolezza, e l’influenza che ne deriva, sono forse gli aspetti che permettono a Mousse di essere la rivista che è! La nostra realtà è cresciuta molto negli anni e ora è una piattaforma complessa e sfaccettata che comprende, oltre alla rivista, una casa editrice, un’agenzia di comunicazione e altri progetti curatoriali e di informazione.
Continui a occuparti a tempo pieno della rivista, o la parte dei libri ti rapisce sempre di più?
Sì, mi occupo sempre della direzione editoriale della rivista, anche se non ho più tempo per scriverne i pezzi.
«Mousse» (sia magazine che publishing) funziona come una specie di filtro osmotico fra Milano e una grande rete di artisti internazionali. Mentre emerge con grande chiarezza un circuito di critici e curatori milanesi e italiani che «Mousse» ama, apprezza, in certi casi promuove; ci dici chi sono gli artisti di qua che osservi con maggior interesse?
Ce ne sono tanti. È una delle ragioni per cui sono felice di aver lavorato a Ennesima, o a Le regole del gioco con Luca Lo Pinto alla Fondazione Achille Castiglioni, o con Alessandro Rabottini alla mostra di Baruchello. Non sono mai stato bravo a stilare liste così, in velocità, per un motivo o per l’altro mi dimentico sempre qualcuno e me ne dispiaccio. L’altroieri ho comprato Lettere e scritti di Domenico Gnoli, mi piacciono molto i suoi dipinti e conosco poco i suoi scritti, però non è certo una risposta alla tua domanda. Scusami.
Prima di tornare a Milano hai vissuto in Cina abbastanza da imparare il cinese. Quali sono i lati positivi di questa città che ti spingono a tenere la base qui, a costruire da qui i tuoi mille progetti invece che da Berlino o da Shanghai o da Los Angeles? Quali sono i sintomi di vitalità, in campo artistico, ma anche non artistico? Quali le istituzioni che ami e frequenti (Triennale a parte)?
Ho sempre sentito il bisogno di una certa distanza dai centri più attivi del sistema dell’arte: magari, inconsciamente, è anche una strategia per garantirmi una certa libertà. Del resto alcune discussioni e materiali possono circolare altrettanto efficacemente attraverso il filtro del tuo computer. Oltretutto Milano sta vivendo un periodo particolarmente felice: penso a quello che stanno facendo la Fondazione Trussardi, la Fondazione Prada, l’HangarBicocca, alcune mostre organizzate a Palazzo Reale, come quella di Giotto, gli spazi non profit come Peep-Hole, Armada e ora anche Fanta. L’attuale sistema privato è sempre forte, ma mi piacerebbe vedere aprire nuove gallerie. Inoltre penso che il sistema dell’arte sia ancora troppo chiuso. Ci vuole un’apertura più consapevole al grande pubblico. In ultimo non mi trasferisco perché lavoro con persone fantastiche.
Guardando all’editoria indipendente italiana e milanese in particolare, chi ti piace? Con chi collaboreresti? Quali dei molti festival di editoria indipendente sono veramente interessanti secondo te? A quali partecipi?
Rispetto al mondo dell’arte, mi interessa la saggistica di Johan & Levi – l’altroieri ho acquistato un loro titolo su Yves Klein -, le pubblicazioni di Humboldt e RawRaw. Non è che ci siano tanti festival di editoria indipendente in Italia… a giorni apre la nuova edizione di Sprint, un bel progetto diretto da Dafne Boggeri a cui partecipiamo con piacere.
Che libri compri? e come/dove li compri?
Da Feltrinelli, Hoepli e Koenig. Mi piace anche curiosare da The Art Markets. Tante sono cose di settore ovviamente. Sono anche fortunato, perché in redazione arrivano spesso bei titoli. Poi mi piacciono le scienze, la tecnologia, la manualistica informatica, gusti eclettici direi.
Ti piace sempre organizzare le feste? Quale ti ricordi come la più memorabile?
Ce ne sono state tante: Milano, Roma, Venezia… poi all’estero Londra e Parigi. Accade sempre qualcosa che rimane memorabile, nel bene e nel male… non è il caso di entrare nello specifico. Magari l’anno prossimo ne organizzeremo una indimenticabile per i 10 anni di «Mousse»…
Se la memoria non mi inganna in questi 10 anni la base di «Mousse» è sempre stata localizzata in zona corso di Porta Genova, un po’ più a est o a ovest. Che cosa ti attrae in quell’area? Dove vai a bere, a mangiare, dove porti i tuoi ospiti? Abiti anche nelle stesse strade? E fuori da lì, quali sono i tuoi locali di riferimento?
Certo, casa e bottega! Per queste cose sono un po’ pigro e mi piace condurre una vita di quartiere. Se dovessi triangolare tutte le passate redazioni, al centro troveresti casa mia.
I locali del quartiere sono sempre quelli: Cucchi, la Coloniale, Peppuccio, “il Cape”, il De Togni. In redazione abbiamo fatto una mappatura dei nostri posti del cuore che puoi trovare su milanoartbulletin.com
Che ne pensi della Darsena?
Credo di non aver mai visto l’acqua in Darsena e quindi sono contento del ripristino. Vediamo come verrà vissuta dalla città nel periodo post-Expo; finora è stato uno spazio un po’ invaso da sponsorizzazioni e pubblicità…
Non so se hai notato che ogni piccolo intervento di arte pubblica, come il dito di Cattelan o il Teatro Continuo di Burri, tanto per fare degli esempi diversissimi, viene accolto da polemiche implacabili, mentre i grandi interventi di trasformazione urbana diventano mete di culto e oggetto di propaganda. È solo effetto del marketing secondo te?
Gli interessi e i poteri in gioco sono ben diversi. E di certo non è un discorso soltanto milanese. L’arte, rispetto ad altre discipline, come l’architettura, ha una dimensione più individuale, che spesso tende a legittimare espressioni e giudizi a volte ben più forti che per un intervento urbanistico. Inoltre l’opera d’arte ha una serie di valenze simboliche più immediate.
Sai dirci cosa succederà in occasione della XXI Triennale?
La Triennale riprenderà le sue mostre internazionali dopo 20 anni, l’esposizione non sarà solamente al Palazzo dell’Arte – la sede storica di viale Alemagna -, ma sarà diffusa in tutta la città, dalla Villa Reale di Monza all’HangarBicocca, dal Politecnico all’Ansaldo, ma anche allo IULM e alla Fabbrica del Vapore. L’evento del 2016 si intitola 21st Century. Design After Design, un orizzonte tematico vasto e ambizioso. La Triennale cercherà di rispondere a diversi interrogativi attraverso un grande numero iniziative e il coinvolgimento di un ricco spettro di professionisti.