DayKoda, all’anagrafe Andrea Gamba, è un producer e polistrumentista bresciano con due album all’attivo. “Physis”, uscito il 19 marzo su Beat Machine Records, è la sua ultima fatica. Qualcuno lo ha definito “il Flying Lotus italiano”, eppure nessuno ha fatto notare quanto questo sia vero al punto di speculare che FlyLo sia il DayKoda americano. Ma una cosa alla volta. Nello specifico, la musica di DayKoda si caratterizza per l’alternanza di atmosfere chill-hop fortemente introspettive di scuola Brainfeeder a mezzo di un’elettronica piena di break presa in prestito dai capostipiti dell’abstract hip hop come Shigeto, Teebs e Taylor McFerrin. Le sezioni ritmiche di batteria categoricamente acustica guidano costantemente l’ascoltatore a non perdersi nei vertiginosi drop creati dalla collisione tra elementi di varie tradizioni sonore, in cui ogni pezzo è lanciato verso il futuro. Attenti a non sciogliervi.
Siccome sappiamo che questa introduzione difficilmente potrebbe rendergli giustizia, dimenticate tutto e fate conto che l’unica cosa che avete letto sia “Just vibe on the beat”. Personalmente, ho avuto la fortuna di conoscere questa meraviglia del “melt’n’jazz” all’interno del peculiare ecosistema di Via Tucidide 56, Ortica: un labirinto di mattoni dove, proprio come la musica di DayKoda, è facile perdersi misurandosi continuamente con nuovi stimoli. Abbiamo fatto due chiacchiere riguardo il suo ultimo lavoro, la natura nei centri urbani, le birre artigianali e la creatività come mezzo di introspezione.
Nome, cognome e provenienza. Lo chiedo subito: sei milanese?
Andrea Gamba, in arte DayKoda. No, non sono milanese. Sono nato vicino Brescia, in un piccolo paese della bassa con duemila anime che non mi ha dato particolari spunti musicali: Orzivecchi (risate, NdR). Per chi se lo chiedesse, esiste anche Orzinuovi, ma fa ancora più cagare. Mi sono trasferito a Milano nel 2017 per fare musica e ho frequentato il corso di musica elettronica al Conservatorio; da lì è iniziata la mia collaborazione con Beat Machine Records e ho iniziato ad avvicinarmi al mondo della elettronica.
Da quanto fai musica?
Praticamente da sempre. Dai quattordici anni circa ho iniziato a suonare la chitarra in vari gruppi, facevamo indie rock alla Arctic Monkeys.
La classica fase adolescenziale delle band...
Esattamente! Da lì ho iniziato anche ad avvicinarmi e a scoprire la città. Dalla provincia mi muovevo verso Brescia, che era più aperta, e quindi ho iniziato a esplorare e approfondire nuovi ascolti: musica più “fresca”.
Quando sei arrivato a Milano dove ti sei trasferito?
A parte un periodo iniziale di assestamento, sono arrivato quasi subito in via Tucidide 56, in Ortica, che mi ha aperto di più alla vita della città. La prima cosa che ho pensato appena entrato è stato di non essere in Italia. Un posto assurdo a metà tra Berlino e Christiania. Esperienze mistiche qua dentro, pieno di avvenimenti non calcolabili. Adesso vivo in Ripamonti da circa un anno.
Sempre in merito a Tucidide: come te la sei vissuta la distanza dal centro città? È abbastanza isolato rispetto al resto di Milano. Non trovi?
Effettivamente è un po’ scomodo e isolato, ma in un certo senso è anche il suo punto di forza. Sono le due facce della medaglia: da un lato, se devi andare in centro devi prendere tipo quattro autobus. Però, dall’altro, è come una comunità a sé stante, in cui si coltivano le arti in generale, non solo musica. Si coltiva soprattutto la creatività in senso lato. Tra l’altro ci sono anche tante famiglie, perciò è un po’ come se fosse una città nella città.
In questo senso, credi che Tucidide abbia influenzato il tuo modo di vivere la tua creatività?
Totalmente. Sia Milano sia Tucidide. Aver incontrato persone che fanno musica diversa dalla mia mi ha portato a sperimentare molto di più dal punto di vista creativo. Lo stesso è valso per il Conservatorio, dove ho conosciuto diversi artisti e mondi musicali che prima non prendevo neanche in considerazione. Per fare due nomi, sicuramente Kuthi Jin (fondatore di CLAM, NdR) e Matteo Castiglioni degli Studio Murena. Pur essendo molto diversi tra loro, questi ambienti hanno sempre un punto di contatto, sono parte di un continuum. Questo discorso vale anche per Tucidide: uno snodo che a sua volta mi ha permesso di conoscere un sacco di persone, ognuna con qualcosa da condividere. La mia creatività ha avuto dei picchi non indifferenti.
Anche Beat Machine Records, la tua etichetta, si trova qui in Tucidide. Quando hai iniziato a collaborare con loro?
Prima di venire a viverci. Si può dire che l’inizio della nostra collaborazione è stato uno dei motivi che mi ha spinto a trasferirmi qui.
Per quale motivo fai musica? La senti come un’esigenza?
È sicuramente un’esigenza. Fare musica per esprimere cose che le parole non riescono a comunicare. Ho sempre cercato di raccontare i miei pensieri più interiori. Far capire alle persone come vedo il mondo, attraverso la musica. Quando qualcuno, ascoltando la mia musica, sente un collegamento tra questa e la sua mente riesce a viaggiare in un certo modo nel mondo che ha attorno: in quel momento la musica diventa un filo conduttore tra il pensiero, la vita immaginaria e la vita reale.
Per riassumere, possiamo dire che con la tua musica intraprendi un processo di introspezione cercando di comunicare pensieri e sensazioni che non riusciresti ad esprimere altrimenti. È corretto?
Sì, anche perché non sono mai stato bravo con le parole (ride, NdR)
Questo processo ritorna anche in "Physis", il tuo ultimo disco.
“Physis” significa natura in greco, ma non natura in senso stretto – come vegetazione – ma più come natura umana. È una riflessione sulla natura dell’uomo e sulla vita. In questo, il tema della morte contrapposta alla vita è ricorrente poiché entrambi fanno parte della natura umana. C’è una interdipendenza tra arte e natura e l’obiettivo è spiegare la natura attraverso l’arte, che fa parte dell’uomo. Ricollegandoci a quello che dicevamo prima, cercare di trasmettere tutti i processi interni che fanno parte della natura dell’uomo: tutto quello che hai in testa fa parte di questo concetto di natura. Ovviamente, anche la natura in senso proprio, come ecosistema, fa parte di questo macro discorso, come sottoinsieme della natura in senso lato. Siamo un tutt’uno con questa. Di conseguenza, un messaggio implicito pro-ambiente è necessariamente presente, anche se l’obiettivo del disco in sé e per sé non è di mandare un messaggio ambientalista – non sono Greta Thunberg e non mi definisco un attivista. Questo disco è stato partorito principalmente in Tucidide, in un periodo in cui ero spesso a casa da solo, modalità che mi ha permesso di sperimentare e di partorire la parte più introspettiva di “Physis”.
Premesso che hai deciso di donare al WWF i proventi delle vendite di "My Abstract Monkey", primo singolo estratto da "Physis", per stimolare consapevolezza in merito alla crisi climatica che stiamo vivendo, qual è il tuo rapporto con la natura? Qui in Tucidide confiniamo con degli spazi verdi nei quali l’impressione è di non essere a Milano. Ci passavi del tempo quando abitavi qua?
Sì, decisamente. Mi capitava spesso di andare a camminare e di godermi gli spazi aperti, magari ascoltando della musica e in generale quando ho del tempo libero cerco di passarlo in mezzo alla natura. Tra l’altro, il concept di DayKoda riprende molto la contrapposizione tra natura e urbano. Tucidide rappresenta bene entrambi questi aspetti. In Ripamonti, dove sto ora, soffro di più l’ambiente a tutti gli effetti urbano.
A proposito della città, quali sono i locali che hai frequentato di più a Milano negli anni? Ti senti di appartenere a una scena, magari rappresentata dai posti che frequenti?
Nei primi tempi soprattutto locali in cui si sperimenta con l’elettronica più industriale: glitch, noise, nu bass in locali quali Macao, Tempio del Futuro Perduto e Discosizer. Queste frequentazioni mi hanno aiutato nel periodo di apertura e ricezione di nuovi spunti utili per la mia creatività. Il Biko invece è stato essenziale soprattutto per alcuni concerti. Mi ricordo ad esempio quello di Joe Armon-Jones. Grandissimo live. Purtroppo non posso dire di sentirmi di appartenere a una scena: ci sono sicuramente delle connessioni sia con posti sia artisti – ne ho appena menzionati alcuni – ma rimangono sempre abbastanza isolati. Per farti capire, a Los Angeles c’era un evento settimanale chiamato Low End Theory in cui suonavano tutta la musica a cui mi sento di appartenere e che mi ha influenzato di più nel tempo. Purtroppo, una situazione come quella a Milano non si è mai creata. Qui “vige” il culto della techno, che non è assolutamente un male nonostante non sia il mio genere preferito.
Una curiosità per concludere: ma da quando ti sei trasferito c’è un posto del quartiere Ortica che ti manca in particolare?
Di tutto quello che ho fatto e passato a Tucidide, sicuramente, le birrette artigianali bevute all’Impronta Birraia, pub di riferimento di questa zona.