Il suo impianto audio è unico al mondo e la sala del suo Auditorium una sorta di spazio acustico tridimensionale; la sua programmazione comprende musica, cinema, mostre e dibattiti; il cartellone dedicato ai concerti va dalla musica sacra all’elettronica passando per la contemporanea e la musica per il cinema; il suo pubblico, almeno potenziale, è di quelli che potremmo definire da 0 a 90 anni; il suo approccio tende ad annullare la dicotomia, molto diffusa, tra religioso e laico. Il Centro Culturale San Fedele è diventato un riferimento per la musica dal vivo a Milano (e non solo) grazie alla sua orchestra di 50 altoparlanti, quella dell’acusmonium Sator. Ma questo ruolo si è consolidato nel tempo attraverso un approccio, un’attitudine nei confronti della cultura che ha reso il San Fedele come un luogo dove si realizzano nuovi progetti – spesso messi in connessione col passato -, dove l’ascolto è un’esperienza anche spirituale e di scoperta. Espressione massima e in continua crescita di questo ruolo che il San Fedele si è ritagliato a Milano è Inner_Spaces, rassegna di “ascolto immersivo” nell’elettronica contemporanea giunta alla quinta edizione, nata nel 2015 (in collaborazione con il team di S/V/N/) e oggi condivisa con il giovane progetto Plunge che ne cura la direzione artistica. Nel 2018, per ascoltare musica elettronica e sperimentale, italiana e internazionale, come – ehm – Cristo comanda è necessario affidarsi nelle mani di un’istituzione religiosa – seppur fuori dagli schemi? Di questo e di molto altro abbiamo parlato con Antonio Pileggi – sacerdote gesuita, fondatore e responsabile del settore musica della Fondazione Culturale San Fedele dal 2010, con un passato come compositore in Francia e in Belgio a cui è seguita la formazione spirituale. Storia, intuizioni, tecnologie, obiettivi, prospettive e visioni di uno spazio unico nel suo genere.
ZERO: In quale tipo di progetto e visione affonda le sue radici il Centro Culturale come lo conosciamo oggi?
ANTONIO PILEGGI: Dopo quasi due secoli di assenza, i Gesuiti sono ritornati a San Fedele nel 1946. Milano era piena di macerie, il tessuto sociale lacerato dalla guerra e dall’occupazione.
In questo contesto, a San Fedele sono stati scelti subito tre ambiti, ben integrati tra di loro e tuttora operativi. La Parrocchia, per i sacramenti e la preghiera, con la chiesa di San Fedele; il sociale, con l’assistenza sanitaria per i più bisognosi e la pubblicazione della rivista Aggiornamenti Sociali; l’apertura del Centro Culturale da parte di Padre Favaro come un libero ritrovo intellettuale, il cui scopo era di entrare in contatto con le correnti vive del pensiero contemporaneo ricercando particolarmente di porre in luce il loro contenuto spirituale e di favorire il dialogo tra cultura e Vangelo.
L’attenzione per un tipo di messaggio “artistico” che non si adegui o insegua il gusto del grande pubblico non è esattamente una virtù della divulgazione culturale in Italia. In questo l’attività del San Fedele si distingue rispetto a molte “istituzioni”: che ruolo ha l’avanguardia nella vostra ricerca?
San Fedele è un luogo di incontro, uno spazio in cui si realizzano nuovi progetti, centro di formazione per giovani artisti e musicisti con i Premi, quindi realtà aperta ad accogliere gli artisti di adesso con i loro linguaggi, interagendo con loro per la commissione di nuove opere. Tuttavia non come si fa talvolta in altre sedi specializzate nell’arte contemporanea, nel senso che non ci interessa tanto l’avanguardia come pura novità, come superamento di quello che ha preceduto, quanto piuttosto la profondità della proposta artistica. Dunque, portiamo attenzione a quella sperimentazione che non tralascia la dimensione profondamente umana, compreso ciò che la trascende.
Oltre a una proposta culturale di qualità, il sistema di diffusione sonora costituito dall’acusmonium fa sì che, rispetto a parecchie realtà pubbliche e private italiane, siate avanti (anche) per un uso moderno della tecnologia. La domanda sorge spontanea: come è possibile che per sentire bene un concerto di elettronica o musica contemporanea si debba fare riferimento a un’istituzione religiosa, piuttosto che a una struttura “laica”?
Oggi si tende a fare una dicotomia tra religioso e laico, mentre il punto di partenza di qualsiasi centro culturale è lo stesso: l’umano, e l’umano è apertura a tutte le realtà del mondo, anche al divino. È un impoverimento chiudersi negli steccati. Rispetto alla particolarità di San Fedele Musica, ciò che lo rende diverso da altre istituzioni è l’interesse portato all’esperienza dell’ascolto. Si cerca di rendere ogni serata, ogni momento musicale, un’esperienza condivisa che lasci qualcosa a ogni persona, che sia occasione di un cammino e possibilmente di trasformazione interiore. Quindi, una prospettiva ben diversa da quella fruitiva, in cui si vive un momento di svago, cercando ciò che piace. Nell’esperienza di ascolto invece al centro vi è una dinamica più interattiva, che può aprire all’incontro con una realtà sconosciuta, con cui confrontarsi, scontrarsi, che può condurre a una scoperta e a un cambiamento.
Quali sono state le attività che, prima dell’integrazione di una programmazione musicale, hanno caratterizzato la proposta culturale del Centro?
Certamente le attività della Galleria d’Arte e quelle cinematografiche. Basti pensare che sin dagli anni Cinquanta la Galleria ha ospitato artisti di livello internazionale, da Lucio Fontana a Marc Chagall, da Robert Ryman a Henri Matisse, da Marc Rothko a Franz Kline, e oggi da Mimmo Paladino a Nicola De Maria. Inoltre al Premio San Fedele riservato ai giovani artisti hanno partecipato alcuni autori che diventeranno tra i più rappresentativi dell’arte italiana contemporanea, come Claudio Parmiggiani, Michelangelo Pistoletto, Franco Vimercati, Enrico della Torre.
Quali sono le linee guida attraverso cui in questi anni avete costruito la programmazione culturale del Centro?
Fondamentalmente il dialogo con il mondo della cultura e dell’arte, un dialogo che privilegia i “territori di frontiera” all’interno dell’esperienza umana comune a credenti e a non credenti. Più precisamente, come scriveva padre Favaro negli anni 60: il tentativo di stabilire un dialogo fecondo tra fede e arte, tra fede e pensiero.
In che anno il Centro ha cominciato ad approfondire anche la ricerca musicale? Immagino che fondamentale sia stata la scelta di rinnovare e riqualificare la struttura dal punto di vista acustico: come nasce questo progetto?
Sono stato inviato a Milano nel novembre del 2009 con lo scopo di accorpare una programmazione musicale all’insieme delle attività di San Fedele. In quel momento, la nostra sede era in piena ristrutturazione. Calcinacci, rumori e lavori dappertutto. Ma non era stato previsto niente per riqualificare l’acustica dell’Auditorium, molto problematica per la musica strumentale. Non c’era più tempo per avviare un progetto acustico, l’inizio dei lavori in auditorium era imminente. Però, per miracolo, abbiamo subito trovato un ingegnere geniale, Sandro Macchi. In venti giorni ci ha consegnato un piano di interventi per risolvere tutti i difetti acustici, affrontandoli con la più grande economia di mezzi. Il risultato si è rivelato eccellente. Abbiamo pensato di integrare, durante i lavori, un sistema audio ottofonico, su progetto di Alvise Vidolin, grazie ai consigli della signora Luciana Abbado, direttrice di Milano Musica. Oggi, la sala è polivalente, può ospitare concerti strumentali e di musica elettronica, proiezioni, conferenze, spettacoli teatrali e di danza. Sulla base degli spazi – la chiesa rinascimentale e l’auditorium ristrutturato – e delle linee guida di San Fedele, abbiamo lanciato il primo progetto con il titolo: “Per un’epifania dell’ascolto, dal Rinascimento all’era digitale”. Tutto ruota attorno alla dimensione biblica dell’ascolto, disposizione fondamentale dell’incontro, per entrare in relazione con l’altro, che è anche momento epifanico, cioè di rivelazione. D’altra parte, non si può perdere di vista la memoria e la storia perché sono dimensioni fondamentali per comprendere il presente.
L’Acusmonium Sator è il fiore all’occhiello dell’Auditorium, un impianto unico in Italia. Che tipo di ricerca, passione e interesse c’è dietro la scelta di offrire un servizio con uno standard qualitativo così alto?
All’inizio, per un paio di anni, ci siamo orientati perlopiù verso progetti per gruppi strumentali, con compositori provenienti da diversi paesi europei. Ma questo approccio non ci ha soddisfatto, perché bisognava tener conto di un grande cambio avvenuto nell’ultimo decennio. Infatti, le nuove generazioni hanno un immaginario musicale modellato sulle sonorità elettroniche. Come trovare un punto di contatto con i giovani che non hanno più familiarità con quelle avanguardie derivate dallo strutturalismo post-weberniano, oramai non ascoltate? Ho scoperto, con sorpresa, che nell’ambito della techno sperimentale – per esempio l’IDM – e delle correnti vicine all’ambient e al soundscape, fosse un riferimento indiscusso l’opera per acusmonium di Bernard Parmégiani. Ecco il ponte possibile con le nuove generazioni: la musica acusmatica. Non a caso, gli Autechre avevano invitato Parmégiani alla rassegna londinese All Tomorrow’s Parties nell’aprile del 2003. Nel 2011 ho conosciuto Giovanni Cospito, compositore e professore di musica elettronica al Conservatorio di Milano. Mi parlò del suo sogno di realizzare un acusmonium a Milano, l’orchestra di altoparlanti con diversi timbri, colori e frequenze. Mi ha presentato Eraldo Bocca, il disegnatore dell’attuale acusmonium Sator. Ci siamo messi subito al lavoro. Fortunatamente nell’Auditorium San Fedele c’era già un numero considerevole di casse acustiche: l’impianto del cinema (11 altoparlanti), il sistema ottofonico (10), la casse degli impianti precedenti (10). Eraldo Bocca ha aggiunto alcuni moduli da lui fabbricati, ed è riuscito a costituire tre corone di altoparlanti e cablare tutto il sistema pilotato da una doppia console. Il modello di riferimento è stato il sistema francese MOTUS. Ma il nostro acusmonium è unico nel mondo perché fisso e soprattutto perché adattato nei più intimi dettagli all’acustica della sala. Il completamento dello strumento ha richiesto 4 anni di lavoro.
Chi si occupa della regia acusmatica? Ci sono delle tecniche particolari?
Giovanni Cospito e Dante Tanzi sono gli interpreti principali dell’acusmonium. Per ogni concerto, gli interpreti studiano per diversi giorni le musiche per prepararsi all’esecuzione. Si analizza la forma, il linguaggio e la drammaturgia del brano e si elabora uno schema di esecuzione. Ogni brano richiede infatti scelte timbriche, di spazializzazione e di gestione dell’insieme differenti. Va aggiunto che l’interpretazione dello stesso brano può variare tra un’esecuzione e l’altra, anche nello stesso giorno. Quindi, il ruolo dell’interprete, nella musica acusmatica, è fondamentale.
Sempre a proposito dell’acusmonium. Forse non lo sapremo mai, ma è possibile ci sia l’eventualità che una parte del pubblico che segue i vostri appuntamenti reagirebbe allo stesso modo davanti a una regia acusmatica o a due casse lem poste ai lati del palco. Crede che la vostra attività possa educare non solo all’attenzione a un certo tipo di musica ma a anche a un ascolto diverso nei confronti del suono?
Ogni nostra serata vuole essere una proposta di ascolto immersivo, non nel senso abituale del termine, cioè di perdita di contatto con la realtà, ma nel senso esperienziale, ovvero per entrare più profondamente nella realtà dell’ascolto e nella realtà umana, attraverso gli itinerari proposti. Con l’acusmonium viene creato uno spazio sonoro che per certi aspetti è vicino alle condizioni di ascolto nella realtà, i suoni provengono da molteplici fonti sonore disposte nello spazio, si crea una profondità, con effetti di vicinanza e lontananza. Ma al tempo stesso, questo strumento consente la diffusione di trame sonore elettroniche che possono arrivare alla pienezza orchestrale. L’acusmonium è ben diverso, per esempio, dai potenti sistemi frontali con surround, troppo compatti e unidimensionali, oppure dall’ascolto in cuffia, che produce un isolamento del soggetto. Per farsi un’idea di quello che potrebbe essere l’ascolto con acusmonium, non c’è altro modo che fare un’esperienza diretta.
Per quanto riguarda il cinema, due rassegne in particolare segnano la stagione, legandosi alla musica: Cinema Muto & Live Music e Cin’Acusmonium. Come sono nate, che tipo di concept c’è dietro, come scegliete le pellicole da proiettare e i musicisti che suonano dal vivo?
Nel mio soggiorno in Francia e in Belgio ho frequentato a lungo le sale cinematografiche. In particolare, nel Museo del cinema di Bruxelles, ho vissuto esperienze indimenticabili: i film muti di Murnau e di altri grandi registi sonorizzati da musicisti geniali, tra cui il pianista Jean-Luc Plouvier. Per il ciclo Cinema Muto & Live Music scegliamo le pellicole che meglio rappresentano il dramma dell’uomo nella sua vita sociale, familiare e spirituale, storie che aprono al mistero dell’uomo. I musicisti invitati sono degli improvvisatori di razza, capaci di mettersi al servizio della poesia visiva dei film muti, capaci di entrare ammirevolmente nei ritmi e percorsi narrativi delle sceneggiature. Per quanto riguarda il Cin’Acusmonium, tutto è partito dall’opera di Andrej Tarkovskij, arte totale che integra lirismo, fede, pittura, preghiera, filosofia, poesia, questioni di senso e teologiche, la profondità dell’umano e trame sonore di grande ricchezza. Il ruolo dell’Acusmonium è di rendere “vivo” e vicino l’intreccio suono-immagine. Così l’insieme acquista più unità, un’unità intesa come fedeltà alla realtà, e al tempo stesso la realtà del cinema è più presente, più vicina allo spettatore, più reale e naturale. Quest’anno, ci saranno due film di Terrence Malick l’8 e il 23 marzo.
L’unione di musica elettronica e arte audiovisiva è una peculiarità tanto di Inner_Spaces quanto della rassegna di Cinema Muto, una peculiarità in genere nel cartellone del San Fedele. È azzardato pensare che ci siano legami tra l’esperienza immersiva e a “più dimensioni” che proponete trasversalmente nella vostra programmazione e l’esperienza di tipo psichedelico – basata sulla fusione di più esperienze sensoriali contemporaneamente?
Ci situiamo su un altro piano rispetto ai concetti oggi di moda di contaminazione e fusione sinestetica. È vero che noi spesso utilizziamo l’espressione: musica a più dimensioni. Per farla breve, mi pare che quello che diceva A. Tarkovskij a proposito del cinema possa applicarsi anche ai principali aspetti del programma audiovisivo di San Fedele: «Una persona va al cinema per cercare un’esperienza di vita, perché il cinematografo, come nessun’altra forma d’arte, allarga, arricchisce e concentra l’esperienza effettiva dell’uomo e, per questo, non solo l’aumenta ma la rende, per così dire, più lunga, decisamente più lunga. Ecco dunque dove risiede l’effettiva forza del cinema»). Ci interessa una multidimensionalità in cui i diversi linguaggi si integrano nell’unità.
Qual è il pubblico che frequenta il San Fedele?
Molto variegato, anche a causa della differenziazione delle proposte.
Eppure la programmazione, fatta eccezione degli appuntamenti di musica sacra, mi sembra molto mirata a coinvolgere un pubblico più giovane. È così? L’intento è divulgativo, educativo, ludico?
Il nostro desiderio è di raggiungere un largo pubblico, in particolare i giovani, con un intento di tipo “partecipativo”. Cioè, cercando le condizioni di un ascolto contemplativo per cogliere la bellezza e la forza di alcune grandi opere del passato e di adesso. La musica sacra, se ben presentata in programmi trasversali, può esercitare un forte richiamo presso un pubblico giovane. Per la prossima stagione, abbiamo un nuovo progetto che va in questa direzione.
Ci parla del Premio San Fedele?
Le prime edizioni del Premio San Fedele risalgono agli anni Cinquanta, inizialmente riservato al settore delle arti visive. Negli anni Sessanta ci sono state anche tre edizioni per giovani compositori, tra i vincitori risulta Azio Corghi. Nel 1968 il Premio è stato sospeso fino al 2002, anno in cui padre Andrea Dall’Asta l’ha ripreso con questi obiettivi: offrire ai giovani artisti la possibilità di recuperare l’arte nella sua totalità, nei suoi valori più veri e più vivi; di portare una verità sull’esistere dell’uomo, parlando della sua ricerca d’identità, del suo desiderio di assoluto. Dal 2010, il Premio è stato aperto ai musicisti. Funziona così: ogni anno viene scelto un tema, i compositori selezionati seguono vari appuntamenti formativi per studiare la tematica proposta ed elaborare un progetto musicale di equipe, una drammatizzazione musicale, che verrà eseguita nei concerti della stagione e presentata in dvd. Nel 2013 abbiamo realizzato il progetto più ambizioso: “Unirsi al cielo” con l’ensemble Klangforum Wien ed elettronica (Ircam) nell’ambito del Festival MITO, poi ripreso al Centro Pompidou e in Austria. Il Premio di quest’anno è per la musica elettronica e l’audiovisivo, fra poco lanceremo il bando.
Milano è una città in cui, rispetto al resto dell’Italia, ci sono più spazi non solo per la musica classica, ma anche per la contemporanea e l’elettronica. Spesso, però, soprattutto nei primi due casi, si tratta di spazi istituzionali, poco aperti alla contaminazione. C’è effettivamente, da parte vostra, la volontà di sdoganare uno spazio che formalmente sembrerebbe legato alla musica colta e rompere alcune formalità?
Con la nostra idea di “Itinerari di ascolto dal Rinascimento all’era digitale”, cadono gli steccati tradizionali che caratterizzano tante associazioni: lirica, classica, barocca, contemporanea, elettronica, ecc. Non aderiamo all’idea di contaminazione, come speriamo di non cadere nell’eclettismo. Ci interessa di più il dialogo tra presente e passato, il dramma dell’uomo nella storia, l’orizzonte della spiritualità e della ricerca di senso, il dinamismo interno dell’ascolto che è sempre esperienza personale, sociale e condivisa. Uno dei nostri progetti più riusciti, a mio parere, è stata la performance per chitarra elettrica e acusmonium Chaconne Perspective, commissionata da San Fedele a Francesco Zago. Un grande affresco che, partendo dalla Ciaccona in Re di J.S. Bach, ridisegna e attualizza la forma della variazione in un percorso drammatico, con sonorità che vanno dalle diafane note prodotte con l’archetto alle laceranti risonanze delle sirene e ai blocchi timbrici in distorsione.
Prima dei concerti c’è sempre un’introduzione, una sorta di rituale per preparare al concerto. Che tipo di legame si intende creare tra chi ospita il live, il pubblico e quello che si andrà a sentire? Anche questa prassi mi sembra votata ad accorciare le distanze, a uscire dalla formalità del concerto in uno spazio che non è un club o un locale, dove – almeno in apparenza – ci sono meno sovrastrutture.
Esatto, iniziamo con un saluto e qualche breve accenno alla serata per prepararci insieme a entrare nell’esperienza di ascolto. Ad accorciare le distanze aiuta molto anche l’architettura della nostra sala, a misura d’uomo e con qualcosa di affabile, con quella giusta proporzione che rende tutti vicini.
Un aspetto importante sia nella forma che nel contenuto delle proposte musicali mi sembra il rapporto tra passato e presente – la tecnologia talvolta al servizio di opere non contemporanee, l’elettronica e la sperimentazione in uno spazio che ricorda un teatro, il modo in cui anche in Inner_Spaces vengono affiancati ospiti provenienti da aree e periodi storici diversi. Che valore simbolico ma anche pratico ha questa dicotomia?
Partire sempre dall’uomo così com’è, per entrare in un rapporto vivo tra passato e presente. È così che un brano di Monteverdi può evocare un passaggio di Arvo Pärt e anche di Tim Hecker, oppure, le sezioni in crescendo su una sola nota, frequenti nella musica di Parmégiani, possono richiamare passaggi simili delle Sinfonie di Bruckner, tuttavia non per semplice associazione sonora, ma (è qui il nocciolo di tutto) per tensione espressiva e spirituale soggiacenti. Questo mi sembra importante oggi, e al pubblico non dispiace una proposta esigente, fidandosi degli itinerari presentati che abbinano cose più note con terreni sconosciuti.
Ci sono realtà a Milano, pubbliche o private, con cui vi capita di collaborare o che vi hanno supportati nel corso degli anni?
Le più belle collaborazioni le stiamo avendo con la Civica Scuola di Musica di Milano per i progetti di musica sacra in chiesa, con alcune classi del Conservatorio di Milano (musica elettronica, sassofono, viola da gamba) e con tanti musicisti e gruppi di qualità, in particolare Andrew Quinn e Otolab, che sono per noi degli artisti in residenza. Per i contributi, innanzitutto c’è la Fondazione Cariplo, per i Premi giovani compositori. Molto proficua è la collaborazione con il Goethe Institut, l’Instituto Cervantes e l’Institut Français che insieme a consolati e ambasciate ci hanno aiutato a dare alla nostra proposta un profilo internazionale. Speriamo di trovare degli sponsor soprattutto per la rassegna audiovisiva, si tratta di un settore che suscita molto entusiasmo e interesse specie tra i più giovani, credo dunque si possano motivare e coinvolgere.
Come nasce Inner_Spaces? È alla seconda edizione ma mi sembra uno snodo fondamentale nella programmazione del San Fedele, proprio per l’equilibrio tra i vari fattori che la compongono: rispetto allo scorso anno percepite che l’attenzione nei vostri confronti, da parte della città, sia mutata?
Il titolo “Spazi Interiori” era stato utilizzato per la stagione 2014-2015, quando avevamo invitato Stephan Mathieu, uno dei maggiori poeti dell’elettronica. L’idea era di mettere in evidenza l’aspetto di interiorità e spiritualità comune a tanti musicisti di ieri e di oggi e al tempo stesso domandare agli artisti di utilizzare il nostro spazio acusmatico. Poi, abbiamo pensato di creare una prima rassegna milanese di musica elettronica e audiovisiva assieme ad altri partner. Savana ha aderito ed è piaciuto il titolo Inner_Spaces. L’edizione di quest’anno è più coerente. L’inaugurazione, con il De natura sonorum di Parmégiani e l’interazione video di Andrew Quinn, ci ha confermato il grande interesse del pubblico milanese all’iniziativa, soprattutto nella fascia giovanile, la sala era piena e un centinaio di persone non sono potute entrare. Sentiamo che esiste un’attenzione e un pubblico che cerca questo tipo di iniziativa, si tratta di una domanda potenziale dai confini molto più estesi di quanto possa apparire. Stiamo tentando di motivare varie tipologie di pubblico: quello vivacissimo delle università e delle accademie, quello delle gallerie e dei musei d’arte contemporanea e ci interessa rimotivare le platee più esperte delle rassegne musicali tradizionali che faticano a trovare un contatto reale con il presente.
Inner_Spaces è l’espressione più organica di questa attitudine al nuovo e ai “territori di frontiera” del Centro San Fedele. Quanto è importante nell’equilibrio della, stagione, Che tipo di sfida rappresenta?
Ci siamo arrivati dopo 5 anni di tentativi vari. Adesso è una colonna portante della nostra programmazione. Il sogno è di arrivare a una rassegna che abbracci tutto l’arco dell’anno, di realizzare progetti sempre più vicini all’ideale di interiorità e spiritualità. Il nostro progetto è inclusivo, vorremmo essere un punto di riferimento per tutte quelle realtà, e sono molte, che operano sul territorio. Ci sono galleriE, luoghi di aggregazione, piccole associazioni che organizzano eventi davvero eccezionali. Stiamo da tempo tentando di ricomporre l’offerta in città per orientare al meglio il pubblico esistente ma soprattutto farlo crescere, l’Auditorium San Fedele deve essere un luogo di confronto aperto a tutti coloro che intendono condividere la nostra idea di musica e arte nella contemporaneità.
Come è nata la collaborazione con Savana?
Nel 2013, Savana ha portato a Milano Tim Hecker e ci ha chiesto se volevamo ospitare il concerto. Noi abbiamo posto la condizione di avere la prima parte dello spettacolo, con la corrente soundscape di Vancouver (Barry Truax e David Monacchi). Da quel momento abbiamo avuto diversi scambi di idee e qualche collaborazione con questa idea di costruire dei programmi insieme. C’è stato un grande sforzo comune nel trovare un punto di incontro, siamo realtà diverse ma abbiamo dimostrato di essere complementari. Noi poniamo l’accento sui riferimenti culturali mentre Savana ha uno sguardo più attento alla novità e al gusto del presente la cosa più interessante e divertente è che spesso i ruoli si ribaltano, credo sia il sintomo di una sincera attenzione reciproca.
Come vi dividete la direzione artistica del cartellone?
Si parte da una tematica condivisa, si cercano gli artisti appropriati, si studia la composizione delle serate e dell’intera rassegna. Poi, si contattano i musicisti. Il processo è lungo e laborioso ma ci obbliga a una ricerca molto attenta. Cerchiamo di capire al meglio ogni segnalazione che ci giunge da Savana, lo sforzo è proprio quello di individuare artisti che hanno un percorso articolato e solido. Andiamo alla ricerca di personalità curiose, capaci di sperimentare e soprattutto aperte al dialogo. Non ci interessa ospitare un artista che vuole aggiungere una tappa alla sua tournée, vogliamo stabilire un dialogo profondo e continuativo. Ogni spettacolo che andiamo a programmare deve essere unico nel rispetto dell’identità del luogo e dei contenuti che vogliamo esprimere ma soprattutto ci interessa guadagnare la fiducia del nostro pubblico.
Qual è, dal suo punto di vista, l’appuntamento di questa stagione assolutamente da non perdere?
Senz’altro la Passione secondo Giovanni di Bach domenica 20 marzo alle 16 nella chiesa di San Fedele. Ci sarà l’orchestra della Civica di Milano con solisti e i Civici Cori, tutto diretto da Mario Valsecchi. La presentazione sarà a cura di padre Bartolomeo Sorge. Per quanto riguarda Inner_Spaces, ogni evento è unico ed è pensato per approfondire determinate tematiche e indurre la riflessione. Mi sento di dire che la rassegna di quest’anno va compresa e recepita nel suo complesso. Abbiamo fatto un grande sforzo per rendere anche accessibile la programmazione con biglietti davvero economici specie per gli universitari, chi avrà modo di seguirci potrà abbracciare il progetto nella sua totalità. Vogliamo offrire al pubblico la possibilità di entrare in sintonia con la musica acusmatica e tutte le finestre che tale ascolto può aprire, ma anche con figure di riferimento dell’elettronica italiana e internazionale: Francisco López, Robert Lippok, il duo milanese Bellows, Valerio Tricoli in una reinterpretazione di John Cage, il duo R/S – Peter Rehberg e Marcus Schmickler), Oren Ambarchi e Thomas Brinkmann, il collettivo Otolab e infine una serata con il massimo virtuoso dell’acusmonium, il francese Jonathan Prager.