Perché costruire un Museo Permanente del Design in Triennale? Quali scelte plasmeranno questa nuova istituzione, e con quali priorità? Joseph Grima, direttore del Museo, responsabile per il design in Triennale da un anno, direttore creativo alla scuola di Eindhoven, racconta l’aspetto e la sostanza di questo prossimo spazio culturale milanese, che si sposta dalla curva del primo piano a quella del piano terra del Palazzo dell’arte.
Allora Joseph, perché con Stefano Boeri avete deciso di trasformare il Triennale Design Museum, che era sostanzialmente una grande mostra annuale, in un Museo Permanente del Design?
Ma appunto perché non era comprensibile a chiunque non appartenesse al circuito ristretto del design milanese. I visitatori stranieri, o gli studenti, o un pubblico meno specialista, entravano in confusione: entrando nel Museo del design nella capitale mondiale del design si aspettavano di vedere il patrimonio locale, una collezione superba, non una mostra, o un’interpretazione personale anche di straordinaria bellezza come fu per esempio quella di Mendini, Quali cose siamo (3° edizione del TDM). Abbiamo deciso di concludere questa esperienza decennale e di costruire una spazio chiaro, leggibile, una camminata attraverso 80 anni di storia locale del design, con poche sovrastrutture teoriche o concettuali. A costo di essere criticati per avere scelto di esporre l’ovvio.
Com’è la collezione della Triennale? Grande? Piccola? Quanti pezzi sul totale saranno esposti?
Grande ma non enorme, se confrontata a quella di grandi musei internazionali del design. La sua consistenza non è molto definita, perché non c’è stata una vera e propria politica delle acquisizioni fino a ora, gli oggetti sono affluiti in modo piuttosto casuale. Uno dei nostri obbiettivi principali è stabilire un metodo rigoroso e dare nuovo impulso alle acquisizioni, non solo di oggetti, ma anche degli archivi. Stiamo cercando di mettere in piedi un’organizzazione affidabile che offra una sponda a tutti coloro che vorrebbero dare materiali a qualcuno che sia in grado di conservarli, digitalizzarli, esporli con criterio, e che ora non trovano altra soluzione che rivolgersi al CCA di Montréal o altre istituzioni estere. Stiamo progettando una governance lungimirante per arginare questa migrazione.
Avete lo spazio per farlo?
L’ampliamento è uno degli elementi fondamentali del progetto: non si sa ancora in che modo e dove, se all’interno del Palazzo dell’arte o anche in un altro luogo, ma sicuramente stiamo cercando di capire come espandere lo spazio a disposizione.
Di chi è l’allestimento del museo?
L’allestimento sarà a cura dell’ufficio tecnico della Triennale.
Davvero? Incredibile, come avete fatto?
Anche questa è una decisione che segna una grande differenza con l’era precedente. Volevamo uscire dalle dinamiche competitive che regnavano prima, che per forza di cose producevano allestimenti molto estrosi o grevi, quasi invadenti rispetto ai pezzi esposti. Tutto questo protagonismo non è necessario, vogliamo delle persone competenti che sappiano come porre correttamente in relazione gli oggetti esposti con lo spazio, le luci e la grafica. Del resto la maggior parte dei musei nel mondo ha un ufficio tecnico, è una cosa perfettamente normale.
L’ufficio tecnico si occuperà anche di allestire le altre mostre a venire?
Tendenzialmente sì, tranne in alcuni casi specifici.
Come avete pensato l’apparato delle didascalie?
Anche loro saranno secche. Alcuni oggetti però saranno accompagnati da interviste telefoniche con i loro autori. È una specie di omaggio a Magistretti, che diceva: “A me piace il concept design, quello che è talmente chiaro che puoi anche non disegnarlo. Molti dei miei progetti li ho trasmessi al telefono”. Il visitatore potrà capire dalla voce viva del designer la chiave del progetto, in una sintesi di massima efficacia.
Una sobrietà quasi francescana.
Sì, abbiamo cercato di ridurre al minimo le complessità superflue. Ma non è una resa al minimalismo. Non è una presentazione muta e pura dell’oggetto. Intorno a ogni pezzo ci saranno materiali di archivio, packaging originali, elementi in grado di aggiungere informazioni, di arricchire il dato visivo evocando il contesto originale.
Come sei riuscito a progettare e mettere in opera il museo in pochi mesi, considerando i tuoi impegni a Eindhoven e a Matera?
Be’, Matera non dipende interamente da me, ho curato e curo dei progetti e degli eventi che stanno vedendo la luce, un’installazione di Tomas Saraceno, l’Open Design School, e I-DEA, un archivio degli archivi sul territorio che coinvolge artisti come Mario Cresci, Liam Gillick, Formafantasma. Ma sono riuscito a spostare il mio studio, Space Caviar, qui a Milano, in via Marco Aurelio, e questo rimette un po’ in ordine i miei spostamenti.
Cosa fai al Salone? A parte il museo, ovviamente.
Torna Alcova, a NOLO e in una nuova sede all’Isola, a via Sassetti, poi c’è un grosso progetto per Nilufar e una mostra a Piacenza (molto fuori salone) su Gabriella Crespi, nei nuovi spazi da poco riaperti della Basilica sconsacrata di Sant’Agostino.
Contenuto pubblicato su ZeroMilano - 2019-04-01