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Luca Locatelli

La cultura milanese e lo swing in una cadregata tra i cristalli

quartiere Bovisa

Written by Piergiorgio Caserini il 28 March 2022
Aggiornato il 11 April 2022

Foto di Glauco Canalis

In una vecchia fabbrica milanese, le Cristallerie Livellara, si nasconde lo Spirit de Milan. È uno spirito godereccio, divertente e tendenzialmente divertito, che si accompagna con un buon Barbera, una chitarra e un canto al tavolo, e molto spesso si balla. Come se foste negli anni Trenta. O nei Settanta. Una parola rispecchia questo: “cadregata”. Quella cosa che si pensa sempre succeda soltanto al Sud e invece accadeva anche qui: stare in centomila a un tavolo a mangiare, ridere e suonare.

«Quella cultura bella, accogliente, goliardica, che fa ridere, insomma: quella cultura sana che tocca un po’ le radici di tutto il territorio.»

Spirit de Milano – ex Cristallerie Livellare @ Piercarlo Quecchia & Alessandro Saletta, DSL studio

Perché il nome "Spirit de Milan"? Qual è lo spirito di questa città?

Allora, Lo Spirit de Milan è un progetto che nasce nel 2015 a seguito di una serie di progetti specifici che furono presentati a EXPO. Era un momento in cui pensavo anche che EXPO esistesse, pensa te, poi ci si è resi conto che era più che altro una specie di club, che come dicono i nostri comici: «portava venti milioni di persone per mandarle a Pero». Detto tutto. Ma insomma, quell’anno abbiamo trovato questo luogo, e ci siamo convinti a provarci. Doveva essere un’avventura breve, giusto il tempo di EXPO, ma poi è partita una lunga storia. I presupposti del progetto erano due: lo swing ballato (avevamo già autoprodotto un festival nel 2013), che era un contenuto che volevamo trovasse un’ottima collocazione nello spazio; e l’altro era riproporre la cultura popolare milanese. Quella bella, accogliente, che fa ridere, insomma quella cultura sana che tocca un po’ le radici di tutto il territorio. L’idea era riprendere questi temi in un tempo in cui questa cultura non ha più posto. 

Ti dirò: per come la sapevo allora, pensavo che queste due cose fossero tanto lontane da essere inconciliabili. Lo Spirit del Milan, come nome, si ispira allo Spirit of Saint Louis, ovvero l’aereo che ha fatto la prima volata transoceanica da New York a Parigi; e quel volo, o meglio, il suo pilota, ha dato il nome al Lindy Hop – il salto di Lindbergh – uno stile di danza jazz che nasceva in quegli anni, nel Ventisette, a New York.

Swing americano e radicamento culturale milanese. Come si conciliano?

Queste due anime, che sembravano distanti, si sono rivelate due volti che Milano ha, soprattutto nel periodo storico che abbiamo preso a riferimento. L’edificio che abbiamo è contemporaneo a quelle date, per esempio. Questo transatlantico che è un po’ la nostra arca di Noè, con cui ci piacerebbe portare avanti tutto quello che facciamo in un futuro prossimo. Il Jazz a Milano, poi, esiste da sempre. In tempi di guerra era vietato perché si trattava di cultura americana, e tutte le canzoni venivano cambiate e camuffate con testi di canzoni che sviavano, tipo Papaveri e Papere – che si riferivano ai gerarchi di allora in maniera eversiva. Il radicamento di cui parliamo è il dialetto, le canzoni della tradizione popolare, l’osteria, la mala [la Ligera] che rubava per i poveri – per distribuire le scarpe dei campionari, per cui ti poteva capitare di vedere uscire dei tizi con due scarpe sinistre, o l’una di un tipo e l’una di un altro. Insomma, questa cultura è uno strumento per entrare in una storia che è vicinissima nel tempo ma lontanissima nell’immaginario. Una storia che è, per me, una meraviglia. Una nostra cultura locale che i nostri padrini, più vicini a quei tempi, conoscevano meglio ma che hanno faticato a trasmettere. Per quanto riguarda la canzone milanese penso a Nanni Svampa… qui c’è un gruppo che viene spesso a suonare che sono praticamente i suoi figli, il nome stesso gli è stato dato da Svampa: i du per du. Poi Patruno, che è uno studioso della storia del Jazz in Italia è legato a Marco Porro che ci fa la programmazione delle serate qua. Questo per dirti che nel corso degli anni stiamo riuscendo a mettere insieme il meglio di questi due capitoli fondanti della storia dello Spirit.

Com’è nata la passione per cultura milanese tra gli anni Trenta e Settanta? Qual è poi l’importanza di mantenerla viva, con serate, situazioni, la costruzione di reti di racconti e il recupero delle storie? – prettamente orali, poi.

Ma perché sono cose belle, fanno ridere, sono legate ai racconti dei nostri genitori, alle storie della goliardia di quegli anni, del cantare insieme… sai, c’è un’immagine chiave: la cadregata, che è il mangiare assieme e cantare allo stesso tavolo. Quelle cose che fanno parte di una cultura che in altre parti dell’Italia continua a vivere, mentre a Milano è stata segregata nel non si può, nel non si deve. Purtroppo qui nostri genitori non ci hanno trasmesso queste storie, il dialetto, e parliamo in fondo di una scelta: quella di sorpassare una certa cultura, di preferire un’idea d’oltreoceano, considerandola obsoleta. Loro, gli ultimi a viverla e che se la sono tenuta, non l’hanno consegnata. Eppure ha un potenziale importante, forse proprio perché è divertente. Pensa che nel corso del tempo siamo riusciti ad avere delle serate dove la gente mangia e canta insieme, e avere dei momenti così – al di là del concerto – non è una cosa che succede spesso; è un affermare una cultura che è nostra.

Mi viene in mente un libro e un personaggio su cui è basato: “La Ballata del Pelé”, di Roberto Farina. Certamente conoscerai il Pelé e il suo tolofono, no?

Beh, il Pelé è stato uno dei miti. Quando abbiamo cominciato mi raccontavano tutti della Briosca, di questi luoghi dove si faceva l’osteria… storie che racconti ma che poi non hai modo andartele a prendere, a vedere. Ma il contesto che abbiamo generato ha fatto attecchire: il Pelé ormai è un frequentatore, arriva, dice che stiamo rifondando sull’osteria e abbiamo pure fatto una radio durante la pandemia, lo Spiritophono, dove una delle tante trasmissioni messe in piedi è proprio sull’osteria e il Pelé è uno dei nostri ospiti fissi. Riuscire ad ascoltarle non è banale, ma è tanta roba.

 

Come hai trovato lo spazio?

È lo spazio che ha trovato noi. C’era un amico che continuava a dirmi di venirlo a vedere, e quando è successo mi sono innamorato. Il periodo era quello della crisi degli eventi, ma insomma a me pareva che ci fosse sempre stato. Io arrivo dalla moda degli anni Ottanta, ho sempre fatto eventi, e da lì in poi mi sembrava fosse soltanto un calo. Ma insomma, qui c’erano tutte condizioni perché scattasse un innamoramento, un incendio. E nessuno di noi conosceva questo campo: abbiamo dovuto imparare tutto. A fare ristorazione, la programmazione delle serate, il fonico, le luci…

Siamo in un’architettura, un complesso, che è molto connotativo. Sulla soglia del rudere, al punto che chi non conosce lo Spirit rischia di non vederlo da fuori, di scambiarlo per qualche cosa di lasciato a sé stesso. Come mai questa scelta?

È la cosa che la rende unica. Di spazi risistemati, di 400 o 1000 anni fa, non hanno tatuata sulla pelle la storia che si porta dietro. Questo posto ha cent’anni, invecchia e si vede. Cent’anni di storia, per cui tutto è delicato e vogliamo si mantenga così com’è. Siamo sotto a una tettoia che agli inizi era fatta di eternit e amianto e ovviamente non poteva rimanere, però abbiamo trattato le lastre di metallo per tenerla il più simile possibile. L’idea è tenere l’atmosfera, la sensazione dell’incontro con la storia, dell’originalità dello spazio. Che penso sia una delle caratteristiche uniche al mondo di questo posto

Poi siamo alle porte di Milano, come ci insegna Folco Orselli – un musicista con una compagnia del martedì che vive con noi da cinque anni, in pratica. Noi non siamo lontani dal centro, e siamo la prima cosa che chi arriva da Malpensa vede, la prima stazione di Milano dal mondo. A dieci minuti dal centro e a mezz’ora di passeggiata.

Per chiudere, due domande: perché lo swing? E qual è l’evento all’occhiello dello Spirit?

Beh, l’anima swing qui ha trovato la casa del proibizionismo americano degli anni Trenta. L’evento a cui sono più affezionato è il nostro festival internazionale a ottobre. Abbiamo pure una Cadillac d’epoca in cortile, i ballerini e interpreti in abiti originali, sembra una scena di un film.

E tutto questo è partito perché io ho iniziato a ballare. Per un periodo della vita mi sono ritrovato con delle compagnie con cui andavamo sempre alle balere, e questo ballo di coppia mi affascinava, mi divertiva. Poi ho incontrato lo swing, dove gli interpreti facevano in continuazione scherzi l’uno all’altra, in questa improvvisazione spontanea. È un po’ il ballo del sorriso: vedi ballare mille persone che sorridono. Si dice poi dei tre sorrisi, perché anche il contatto che hai con queste due braccia disegnano un terzo sorriso tra i due. Una dimensione bellissima, e quando si riesce a fare un festival con la comunità mondiale – perché questo è un festival ballato in tutto il mondo è crea comunità attorno – è emozionante. Un evento in testa a tutto il resto. Comunque parliamo di cinque/seimila concerti fatti in cinque anni, insomma tanta, tanta musica. E la cosa che piace è aver portato quello spirito per cui la musica è il bisogno delle persone, non lo show off per cui sali sul palco, fai il tuo e tanti saluti.