Abbiamo seguito tuttə l’esito degli accadimenti di fine settembre a Calvairate che hanno portato Macao a prendere la decisione di lasciare lo spazio storico della Borsa del Macello in viale Molise. Parliamo, come tutti sanno, di un luogo che ha fatto per davvero cultura – in città e altrove –, sperimentando formule collettive, di organizzazione e produzione artistica, culturale e di lotta. Come sempre, se deve nascere qualche cosa di nuovo in città, è soltanto dalle retrovie del panorama istituzionale che si trovano persone e scene capaci di ribaltare quella cosa che prende il nome di senso comune – che poi comune non sempre è. Le chiamiamo retrovie, ma poi sono il terreno più-che-solido su cui si formano generazioni, in cui nascono collettivi e scene artistiche, musicale, culturali e movimenti perché il terreno qui è quello del confronto e del dialogo. In altre parole, qui si disegnano altre immagini della città. E insomma, il 5 novembre, dopo nove anni e a seguito dei casini successi con le palazzine occupate a fianco, Macao lascia lo spazio che ha connotato una generazione. Ma «è un arrivederci». Siamo riusciti a fare un’intervista al collettivo, che ha risposto all’unisono, e tutto attorno a una domanda che in fondo si sono fatti tutti: cosa e dove sarà, domani, Macao?
«Milano parla troppo di sé stessa, a rischio di diventare patetica.»
Penso che tutta Milano abbia seguito con un certo sconforto gli accadimenti di fine settembre, che sono culminati nell’incursione di un gruppo di occupanti delle palazzine accanto, il 24. Ci raccontate cosa è successo?
Su non pochi giornali vi viene mossa l’accusa di aver contribuito al degrado del quartiere, da un altro lato c’è chi strumentalizza la vicenda. Sappiamo bene che si tratta di sguardi e basta, nel senso di parole pronunciate da chi, con ogni probabilità, non ha mai messo piede a un’assemblea o a Macao. Quindi vi chiediamo, com’è che si è arrivati a questo punto? Non solo al 24 settembre, ma al contesto di Calvairate che è esploso in quella situazione?
Molti giornali hanno trattato questa vicenda da fare schifo. Come anche Salvini che ha concluso in quelle palazzine la campagna elettorale del candidato Sindaco di Destra per le Comunali (ora possiamo dire che ha avuto quel che si merita). C’è sete di vedere qualcuno di origine africana che vende la droga, che vive coi topi in mezzo alla immondizia. Questa sete c’è, subliminale nelle domande di tant*, tireremmo un sospiro di sollievo se scoprissimo che ad esempio non fosse il caso delle vostre prossime domande. Il problema è che non solo giornali di destra hanno parlato di quella situazione con quei termini. Gli stessi comunicati istituzionali e alcuni comitati di quartiere parlano a tratti lo stesso linguaggio. Nelle nostre discussioni invece si è parlato di altro: da più di un anno per fare spazio al programma di c40 la Regione Lombardia ha ritirato, in piena pandemia, i servizi sanitari locali che avevano sede in quelle palazzine. In poche settimane nel giugno del 2020 si sono riversate centinaia di persone senza tetto, senza documenti, spesso lavoratori sfruttati dalla Milano dei bianchi. Un tale grado di insofferenza esistenziale, economica, igienica, si crea solo per una grave mancanza infrastrutturale che ha a che fare con il diritto alla casa, ad un lavoro degno, e a diritti di cittadinanza. Viale Molise è il sintomo di una malattia che sta a monte e parla delle gravi mancanze da parte delle politiche istituzionali fra Regione, Prefettura e Municipio. Non ce ne frega nulla di fare quelli di sinistra buonisti… Questo è un problema molto serio che dovrebbe riguardare tutt*: in qualsiasi grande città europea per non far generare situazioni di violenza e indigenza simili a questa, le amministrazioni investono soldi pubblici per dare un tetto a tutt* e un welfare efficace. Evidentemente a Milano qualcosa non funziona.
La situazione delle occupazioni delle palazzine di Viale Molise si è esacerbata durante l’ultimo anno, del contesto pandemico. In quel periodo, come istituzione di cultura inserita nelle maglie di quartiere, avete attivato degli sportelli e delle formule di appoggio e sostegno. Come vi siete mossi?
La prima azione è stata aprire una linea telefonica insieme alle brigate volontarie per l’emergenza, che raccogliesse le richieste di soccorso alimentare e per la cura della casa e della persona, oltre che di dispositivi di sicurezza sanitaria. Parliamo di beni di prima necessità che nel contesto pandemico divenivano ancora meno accessibili a una larga parte della popolazione.
Per fare questo abbiamo riorganizzato parte del nostro spazio, individuando dei magazzini per lo stoccaggio dei beni che riuscivamo a raccogliere tramite accordi, collette, autoproduzioni.
Dall’ascolto emergevano vari problemi a cui abbiamo risposto connettendo chi ci chiedeva aiuto ad altri sportelli sul territorio o ad altre linee telefoniche per il sostegno psicologico come quella della Brigata Basaglia.
Contestualmente sono nati internamente due sportelli, uno per il lavoro e uno per l’antiviolenza, l’ascolto e l’orientamento destinato alle ragazze e donne del quartiere. Quest’ultimo sportello nasce con la supervisione della Casa delle Donne di Milano. Abbiamo inoltre invitato nel nostro giardino le unità mobili di Naga, organizzazione per i diritti dei migranti, e consolidato una rete di scambio e donazioni di altri beni di prima necessità. Oltre alla distribuzione di cibo, pratica che in seconda fase abbiamo consolidato con la collaborazione di Emergency ONG, avevamo giocattoli, vestiti, libri, mobili, computer.
Quando si sono ridotte le misure di isolamento, abbiamo avviato una serie di iniziative e laboratori sia interni allo spazio che in quartiere e presso i cortili di case popolari per scongiurare la crisi della socialità: da feste a laboratori di cucito creativo, fino a momenti per bambini con spettacoli di teatro, spazio giochi e aiuto compiti.
Sicuramente abbiamo ritenuto importante portare avanti attività di solidarietà e di cura dal basso, ma sappiamo allo stesso tempo che abbiamo messo delle toppe a un grande e grave vuoto istituzionale che produce discriminazioni e sofferenza e che ci lascia sempre più indignat* e con l’amaro in bocca.
È evidente che lo stesso problema che si è posto a voi – in una veste decisamente violenta – è riscontrabile anche nei paraggi. Avevate anche promosso una giornata aperta al quartiere per confrontarvi, ma è stata rimandata. Quali questioni avreste voluto sollevare assieme al quartiere? Quale potrebbe o avrebbe potuto essere il peso di un’azione coordinata con i dintorni?
Stiamo incontrando diverse associazioni e gruppi informali del quartiere, con cui portare avanti un discorso composito per darci il tempo di approfondire una strategia a lungo termine. La questione è sempre la solita: Molise Calvairate è un quartiere senza servizi abitato da gente che fa fatica ad arrivare alla fine del mese. Se ora arrivano investimenti per riqualificare l’area, c’è il rischio che cominci un processo di espulsione dei poveri per far posto ai benestanti. E continuerà lo spettacolino di sempre, i poveri chiedono interventi, e quando finalmente arrivano i poveri sono invitati ad andarsene. Siamo in questo momento cerniera e possiamo fare la differenza solo se esplicitiamo con forza questa contraddizione.
Questa è la prima intervista che rilasciate come collettivo da un po’ di tempo. Nel mezzo ci sono anche gli eventi dello scorso mese. Come mai la scelta di questo silenzio al di fuori delle comunicazioni sui vostri social?
Che volete sapere? Abbiamo fatto molte assemblee, per noi sono stati giorni con fiumi di parole, fra di noi e con altri spazi sociali e con attivist* di vari movimenti e con persone che ci piacciono e che per noi sono intelligenti. Quando le cose si fanno dure e bisogna prendere decisioni importanti a volte c’è bisogno di un po’ di concentrazione, fare pulizia dal rumore di fondo, e fidarsi di ascoltare bene chi è davvero complice. Magari è anche un po’ passata la moda del trollaggio da social e dell’incubo del teatrino della partecipazione a tutti costi… non credete? Lo sappiamo che a Milano di Macao per lo più si pensa: hanno lasciato lo spazio perché non volevano rischiare la pelle, e poi non se ne è saputo più niente. E ci sta, dopo tutto è vero. Ma quante cose interessanti ci sono in questa dichiarazione di impotenza?
Dopo solo una settimana dalla comunicazione della situazione, e a due dall’evento, avete decretato la sospensione della permanenza di Macao nello storico stabilimento dell’Ex Macello di Viale Molise 68, puntualizzando la determinatezza a restare nell’ambito di ciò che è sempre stato Macao: un luogo aggregativo, di mutualismo e autogestione, e un’istituzione di ricerca e denuncia della precarietà del settore culturale. Non so in quanti erano rattristati dalla notizia. Ma è un arrivederci, anche perché vien da dire che ormai non c’è Milano senza Macao. Un’altra MM che sta per Milano-Macao. E allora come sarà Macao domani? Che tipo di spazi pensate di organizzare? Anche perché non è semplice pensare a un Macao senza luogo, ma anche senza gli ampi spazi dell’Ex Macello.
Milano sarà con MACAO. Adesso dobbiamo dare a MACAO quel che merita, senza alcuna esitazione. E cercare di ottenerlo davvero.
In tutto ciò, l’intera area dell’Ex Macello è parte del progetto di riqualificazione “Reinventing Cities”. Qui due domande. La prima è: come la vedete? La seconda è se in vista degli inizi dei lavori, eravate comunque già pronti a un eventuale sgombero (poi magari discutiamo del nome del progetto…). E a me viene in mente un parallelismo con l’esperienza della Stecca degli Artigiani in Isola, prima del Bosco Verticale, Piazza Gae Aulenti e compagini varie, pensando che anche voi qualche anno fa avevate appeso all’ingresso quel “New Museum” che in parte testimoniava la volontà di una continuità.
Il parallelismo è sotto gli occhi di tutt*. C’è una storiella che raccontano ormai anche nei corsi universitari di sociologia o di urbanistica: prendi un’area un po’ abbandonata che non caga nessuno, mettici uno squat artistico e aspetta che ne cominci a parlare mezzo mondo, è quello il momento in cui fai partire il master plan per la gente che ha la grana. Quando arriva il momento di dover sgomberare tutta l’area fai partire una campagna di delegittimazione iniettando paura di criminalità e mettendo in bocca a tutti un gran desiderio di sacrosanto decoro e riqualificazione. Vi viene in mente qualcosa? Vedete voi. A noi che arriviamo come hai detto tu, dall’Isola degli anni ’90 e primi anni ’10, ci sta veramente stretto fare di nuovo la parte dell’utile idiota. Del Centro Sociale che ha fatto l’underground e adesso lascia il posto all’immobiliare di turno. Anche perché Macao era nata proprio denunciando questo giochetto sulle ceneri di Garibaldi e Repubblica! Forse è per questo che volevamo andare un po’ oltre il centro sociale okkupato anni 90? Forse è per questo che invece che accendere una faida a chi sa usare meglio il coltello in una guerra fra poveri che fa solo l’interesse dell’investitore con le ruspe, abbiamo preferito uscire dallo spazio e risparmiarci il teatrino dello sgombero? Sì, forse è per questo. Il bando su quelle palazzine è andato deserto, perché costavano troppo anche per i privati con progetti profit oriented. Le palazzine sono pubbliche del Comune di Milano, e non vi è alcun progetto ufficiale. Che vogliamo farci? Macao negli anni, ha proposto di autogestirle dal basso da un’assemblea di artisti, poi ha proposto di comprarle con un azionariato popolare. Ora arrivano soldi europei del PNRR per la ricostruzione post pandemica. Non sarebbe forse sensato dare a Milano con Macao un Museo d’Arte Contemporanea e investimenti pubblici per soggetti che sanno prendersi cura del quartiere e della città?
Dicevo del nome del progetto perché “reinventare la città” mi porta per qualche ragione a pensare a Colin Ward, per cui ogni occasione, nella progettazione dei luoghi e della città, è buona per stimolare autonomia e partecipazione diretta, orizzontale. Questo per dire che per reinventare la città bisogna ripensare le istituzioni sul territorio, e qui vorrei chiedervi come descrivereste la vostra idea di istituzione fluida come nuova istituzione culturale.
Potremmo dire che abbiamo presentato nel 2018 una Guida Galattica per Nuove Istituzioni coinvolgendo Politecnico di Milano e Università Bocconi… Ma la verità, in fondo in fondo, al di là dei provincialismi se siete persone che girano il mondo, è che negli ultimi dieci anni i contenuti del sistema dell’arte contemporanea più interessanti sono venuti proprio dall’attivismo. È nei movimenti, e in tutte le pratiche artistiche, collettive ma anche individuali che hanno sperimentato mettendo in questione processi di trasformazione di questo reale di merda che sono nate le estetiche più interessanti. E non è un caso che tutti i Musei e i Festival più importanti fanno a gara a costruire programmi pubblici con questi contenuti. Per questo Macao come istituzione è prima di tutto un laboratorio indipendente in dialogo con i movimenti sociali. La risposta è in parte nella domanda. Ma le occasioni le creiamo, non le aspettiamo :)
Rispetto invece al vostro “arrivederci”, la prospettiva rimane quella di restare nel quartiere di Calvairate, portando avanti non soltanto le forme fluide di istituzioni a cui avete affidato la struttura di Macao, ma anche le pratiche di occupazione? Che Macao dobbiamo aspettarci nel futuro? Che Macao si troverà la Milano di domani?
Macao ha occupato Torre Galfa con tutta una squadra di vecchietti esperti costituzionalisti che volevano dimostrare che fosse legittimo espropriare una proprietà privata se mal gestita. Ha occupato palazzo Citterio perché una cricca dai super poteri conferiti da Berlusconi in quegli anni aveva fatto sparire 50 milioni che dovevano essere destinati al progetto del museo della Grande Brera. Ha occupato la Borsa del Macello cercando di portare a Milano una legge comunale sull’uso civico e collettivo. Promuoviamo la pratica dell’occupazione come uno degli strumenti politici di appropriazione dal basso per fare emergere argomenti altrimenti inaccessibili di utilità pubblica. Occupare è una sana azione che dovrebbero provare tutti nella vita, per sabotare le ipocrisie del presente. Detto questo non c’è solo l’occupazione. In questo momento crediamo che il divenire istituzione dei beni comuni debba entrare in una fase di consolidamento infrastrutturale, senza snaturarne lo spirito, l’indipendenza e la fluidità.
Come vi immaginate Milano nei prossimi anni, con tutti questi movimenti che continuano, con più forza, l’espansione del centro (chiamandola, però – forse – policentrica)?
Milano parla troppo di sé stessa, a rischio di diventare patetica. I movimenti veri sono il trasfemminismo, le lotte per la giustizia climatica e contro le disuguaglianze economiche dovute ai rapporti coloniali. Questi sono i veri movimenti che dobbiamo tener presente. Questi sono i nodi, i tanti centri fra cui creare connessione. Tutto il resto lo lasciamo a chi si intende di VR, rendering e greenwashing.