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Marco Baravalle

Idee per il manifesto di una Venezia fu-turistica

Written by Naadir Sanudo il 25 May 2020

Foto di Melania Pavan

Lo sappiamo fin dall’antichità: il sale sulle ferite brucia, provoca dolore. Ma disinfetta, protegge dai batteri, conserva il cibo, lo insaporisce. Quante proprietà ha il sale. Il toponimo dell’antico emporio in Punta della Dogana che ospita Sale Docks, uno dei più attivi e radicali spazi indipendenti per l’arte contemporanea, sembra offrire una coincidenza profetica. Dal 2007 questi vecchi “magazzini del sale” sono il luogo dove si sono intrecciati seminari, performance, mostre, festival, workshop, concentrando spesso, anzi quasi sempre, lo sguardo in una direzione ben precisa: le contraddizioni e i paradossi degli attuali modelli culturali. Una delle sue voci più attive è quella di Marco Baravalle, docente e ricercatore universitario (alcuni suoi lavori sono disponibili qui), attivista del comitato No Grandi Navi, del centro sociale Morion e molto altro. Parleremo con lui del ruolo ingombrante e pervasivo dell’industria turistica, dell’egemonia della rendite sul lavoro, di gentrificazione ed emergenze ambientali: sono gli stessi temi che l’esperienza di Sale Docks ha voluto sottolineare con sistematica caparbietà attraverso i suoi progetti. Oltre a rappresentare un esempio concreto e stanziale di rigenerazione nei confronti di uno spazio in disuso, quasi a rimarginare una delle tante ferite nel tessuto urbano del centro storico, finora è stato questo il luogo che ha offerto ad artisti, militanti e cittadini l’opportunità di lavorare in simbiosi declinando un ampio spettro di sfide internazionali in stretta relazione con le peculiarità del contesto veneziano. Dopo oltre dieci anni il suo futuro è in bilico, parleremo anche di quello. Al risveglio da un lockdown che ha alimentato sogni e forse anche qualche illusione, sondare il “Baravalle-pensiero” consente di conoscere, chirurgicamente, la nostra città, le sue potenzialità, le sue ipocrisie, le prospettive e, come sempre in stile Zero, i posti dove si mangia (e beve) meglio. Ingredienti? Molto “sale”, anche se brucia, un po’ di ideali e spezie varie.

   Cosa hai fatto durante questa quarantena? Sei riuscito a lavorare o tuoi progetti si sono tutti ibernati come la città?
«Il mio lavoro è aumentato, paradossalmente. Sono assegnista di ricerca al corso di laurea in Teatro e Arti Performative di IUAV e docente alla Naba di Milano (Nuova Accademia di Belle Arti) e. L’università in questo periodo è stata blindata per quanto riguarda l’attività in presenza, facendo ricerca però ho continuato a scrivere e studiare, con il team in cui lavoro siamo regolarmente stati in contatto online. Per quanto riguarda l’insegnamento al corso di arte contemporanea della Naba, ho tenuto le mie lezioni online e l’esame. Ho continuato anche la mia attività attivista, sia con il comitato no grandi navi che con Sale Docks. Pur avendo lo spazio chiusi per ovvi motivi, i nostri incontri e le nostre mobilitazioni non si sono fermate. Uno di questi appuntamenti è stato per la campagna in favore del “reddito di quarantena”, a sostegno in particolare di coloro che lavorano nel campo della cultura e dello spettacolo. Abbiamo fatto alcune piccole manifestazioni, il primo maggio, e, su un altro piano, abbiamo organizzato un webinar internazionale sulla giustizia climatica, continuando l’esperienza del “Venice Climate Camp”, organizzato al Lido nel settembre scorso. È stato il primo appuntamento e vogliamo riproporlo, alla fine della prossima estate, abbiamo provato a cogliere l’occasione dello stop per preparare il terreno. Dunque poco tempo libero, molti impegni».

   Cosa ti lega alla città di Venezia?
«Sono piemontese e vivo qui ormai da 23 anni. Sono venuto per studiare e sono riuscito a costruirmi una vita a Venezia facendo diversi lavori, come partita Iva nel campo dell’arte e della cultura, poi nell’università come assegnista di ricerca, sia per Ca’ Foscari che per Iuav. In questo momento lavoro all’interno del progetto “Incommon” che analizza il rapporto tra teatro e politica negli anni ‘60/70 in Italia. Mi considero ormai un veneziano acquisito, ho vissuto più qui che altrove. Per me è stato un amore immediato, mi sono subito trovato bene, già dal primo anno di università ho capito che questo era il luogo in cui avrei voluto vivere. Ho iniziato a Ca’ Foscari, con la triennale in Conservazione, poi mi sono laureato in Arti Visive allo Iuav. Durante gli anni dell’università ho iniziato anche il mio percorso di attivista collaborando alle attività del laboratorio Morion, poi sono arrivati il Sale Docks e il Comitato No Grandi navi».

Ab-strike, piattaforma che si è svolta nel 2015 a Venezia (Sale Docks) e Milano (Macao).

   Considerato questo tuo ampio raggio d’azione, proviamo a rispondere alla domanda che si fanno tutti: adesso che succede?
«Questo stop dovuto alla pandemia, lo voglio dire, è una tragedia: lo è per il costo in vite umane della malattia, per la sofferenza di molti ed è già una crisi grave anche in termini economici. Per quanto riguarda Venezia, vorrei partire da un assunto: sebbene non la si potesse considerare, come tanti pensano, una città morta, prima del lockdown, il modello basato sulla monocoltura turistica procedeva ormai per inerzia, come un’inarrestabile valanga, oppure un bolla speculativa che rifiutava di scoppiare. In quelle condizioni, senza un shock, uscire da quel modello socio economico, sarebbe stato difficilissimo. Ora questo shock è arrivato. La macchina si è completamente (ma solo temporaneamente) inceppata, dando il via alla partita decisiva e difficilissima della ripartenza. C’è urgente bisogno di uno spazio pubblico, politico, di discussione e azione, che immagini come ripartire senza ripetere gli schemi di un passato che metteva a dura prova la sopravvivenza sociale di Venezia. Le energie ci sono, ma questo spazio (cioè quello in cui si progetta la ripartenza), finora è monopolizzato da quel punto di vista che definirei “neoliberista-negazionista”. La tesi, sostenuta con forza dal nostro sindaco, è questa: “non sta succedendo niente, ripartiamo come prima e più di prima”. A me viene da dire: peggio di prima. Oggi è questo, in buona sostanza, il messaggio del sindaco Brugnaro e il dramma è che mi pare sia l’unico in campo. I suoi ragionamenti hanno un doppio limite: da una parte ignora che già prima fosse in atto una crisi gravissima (lo spopolamento, la città progettata a misura di turista e difficilissima da vivere), dall’altra il fatto che la crisi sanitaria abbia causato un rallentamento del turismo e che la macchina rimarrà inceppata almeno ancora per qualche mese. Anche nell’ottica (sbagliata) di un ritorno al passato, c’è un periodo di transizione che rischia di significare la rovina per molti e che sarebbe più saggio utilizzare per ripensare il modello Venezia. Adesso anche la Biennale ha rimandato le sue mostre di un anno. C’è bisogno di qualcos’altro: ripartire sì, ma in modo diverso».

   Chi lo può fare?
«Se guardo alla politica istituzionale che dovrebbe opporsi a Brugnaro e anche a parte del mondo civico, non mi pare di vedere un’azione all’altezza di questa sfida. Molti mi paiono ancora mesmerizzati dal terrore della pandemia, ed è un grave limite. È chiaro che bisogna fare le cose “a modo”, non si può negare che esistano dei rischi e dei pericoli, chi lo fa (come il nostro sindaco, in linea con Trump e Bolsonaro) sta giocando con la salute pubblica. Però non ci si può neanche richiamare al distanziamento sociale ad oltranza, perché così facendo (ed è questa la tendenza governativa) si lascia il campo libero a soluzioni vecchio stile, in continuità con un modello sbagliato. Devono essere i cittadini di Venezia, quindi, a farsi carico di rilanciare un messaggio forte: ripartire con una idea di città diversa, fuori dalla monocoltura turistica; considerare il reinserimento dei residenti come una priorità, parlare seriamente di giustizia climatica, ricordando che questa crisi è frutto anche di un modello ecologico insostenibile; differenziare nuovamente l’economia cittadina, a sostegno di un modello di turismo diverso, un’ospitalità di qualità non solo per i ricchi, una ristorazione tarata sui residenti e onesta con i turisti. Per ora questa narrazione non c’è. Ma è questa la nostra vera urgenza oggi. Se si perde l’opportunità generata da questa sospensione, ci sono poche possibilità: il momento per ripartire diversamente è adesso. Il 27 aprile 1910 fu pubblicato il celebre manifesto del futurismo “Contro Venezia passatista” firmato da Marinetti, Boccioni, Carri, Russolo. Beh, forse oggi è il caso di dire che Venezia fu-turistica e che è il momento di pensare nuove soluzioni. È con questo spirito che il Comitato No Grandi Navi, insieme a molte associazioni cittadine, ha promosso la catena umana alle Zattere del prossimo 13 giugno. Per mostrare che esiste una città che vuole una ripartenza diversa da quella auspicata dal sindaco».

C’è urgente bisogno di uno spazio pubblico, politico, di discussione e azione, che immagini come ripartire senza ripetere gli schemi del passato

   Una Venezia senza turismo rischia di essere anche una Venezia senza reddito, praticamente un’isola che non c’è?
«Reddito è la parola chiave, per tutto lo spettro di attività lavorative e in anche per il lavoro culturale, artistico e legato allo spettacolo. Non è un caso che, in città, centinaia di persone si stiano mobilitando per il reddito di quarantena, come passaggio verso un reddito di base universale. Se vogliamo trasformare gli attuali modelli economici, i lavoratori non devono essere ricattati e ricattabili. Quando si arriva alla fame ci si può ribellare, ma si rischia anche di adattarsi in una disastrosa corsa al ribasso, rimettendo così in piedi lo stesso sistema di prima. Per chi lavora nell’arte e nella cultura (e nel turismo) serve ossigeno, serve energia, ed è centrale ottenere questo reddito per poter ripensare i modelli ormai superati e dannosi che stanno consumando la città».

Manifestazione degli attivisti di Sale Docks alla Biennale.

   Cosa intendi per “nuovo modello” culturale su Venezia, cosa scriveresti in questo ideale manifesto?
«Penso sia fondamentale sganciare l’industria culturale e più in generale l’economia della cultura dal turismo: questo binomio non può più occupare l’interezza dello spettro. Bisogna ripensare l’offerta culturale non come qualcosa che va immediatamente assorbita dalla domanda turistica, ma pensarla in sinergia con la città e chi la abita».

La cultura è una risorsa, ma a Venezia questo settore è legato a doppio filo a capitali privati, all’economia dell’evento e alla rendita immobiliare. Noi dobbiamo invece recuperare un modello di produzione culturale che attiri nuovi abitanti, che arricchisca la vita sociale di chi abita in città.

   È una grande sfida: le principali istituzioni cittadine sarebbero in grado di coglierla?
«Sì, è una grande sfida, però è una sfida possibile. Quando si dice “arte” e “cultura” si rischia sempre di considerarli come degli astratti universali. Voglio essere concreto: pensiamo alla Biennale. Per me è una grande risorsa in questa città, ed è anche un’istituzione che è riuscita a non applicare le più becere ricette neoliberali viste in altri contesti negli ultimi anni. Non voglio dunque criticare a priori. Ma segnalo anche l’altra faccia della medaglia: la Biennale purtroppo è stata in questi anni anche un’occasione per aumentare le rendite immobiliari di questa città. Pensiamo alle decine di milioni di euro che vanno ai proprietari dei fondi e dei palazzi che ogni anno affittano agli eventi collaterali o altri eventi legati al “circo” della Biennale. Noi dobbiamo ripensare questo sistema, a partire da nuovi investimenti pubblici e ripensare gli impatti dell’economia della cultura sulla città. Queste grandi risorse devono produrre arricchimento sociale, devono essere utili a chi vive la città e non devono rimanere uno strumento esclusivo appannaggio di chi sfrutta delle rendite di posizione. Non mi riferisco solo alla Biennale. Pensiamo anche alle grandi fondazioni culturali che esistono sull’isola: ne sono arrivate di importanti. La collezione Pinault, la fondazione Vac alle Zattere, l’Ocean Space di Tba21 a San Lorenzo: guarda caso tutti questi soggetti hanno grandi capitali finanziari privati alle spalle. E allora certo che la cultura è una risorsa, ma a Venezia questo settore è legato a doppio filo a capitali privati, all’economia dell’evento e alla rendita immobiliare. Noi dobbiamo invece recuperare un modello di produzione culturale che attiri nuovi abitanti, che arricchisca la vita sociale di chi abita in città. Questa è sostanzialmente la vecchia sfida di trasformare Venezia da vetrina prestigiosa a luogo di produzione, di lavoro e scambio culturale: se guardiamo alla crisi del Coronavirus abbiamo davanti un’occasione inedita per andare in tale direzione. È quindi necessario e urgente innescare processi virtuosi che sgancino la produzione culturale dai grandi capitali finanziari e dalla rendita immobiliare: è evidente che per realizzare ciò serve una spinta dal basso, dai lavoratori e ci vogliono, al tempo stesso, politiche pubbliche che tocchino tutti i livelli, dal locale al nazionale, passando anche per l’Europa. Il caso Venezia è un caso emblematico per tutto il mondo: è un grande modello di questo intreccio tra capitali privati, rendita e cultura. In questa logica da “città creativa”, cultura e arte sono viste soprattutto come volano per lo sviluppo economico, ma questo abbraccio nefasto con il turismo dei grandi numeri sta privando la città delle sue forze vitali e sociali. Noi dobbiamo invertire questo parassitismo perverso che insiste sull’arte e sulla cultura. Non è semplice ma questa è la sfida».

   Ad agevolare questo genere di “riforme” di solito è il regolatore pubblico: tra le istituzioni che dovrebbero contribuire non si può ignorare il ruolo dell’amministrazione comunale, sta spingendo nella direzione “giusta”?
«Se lasciamo il campo libero a Brugnaro e al suo modo di amministrare, difficilmente si inverte la rotta. L’attuale sindaco è il simbolo della fiducia nel mercato come regolatore della vita culturale della nostra città. Io non sono uno statalista. Ma auspico dei cambiamenti a valle di una valutazione oggettiva di quello che sta avvenendo a Venezia. Qui la totale mancanza di una governance culturale risponde in realtà ad un dictat ideologico: “lasciamo che sia il mercato a decidere cos’è la cultura a Venezia e lasciamo soprattutto che sia il mercato ad avvantaggiarsi”. Il mio messaggio è chiaro: utilizziamo questo momento di sospensione per rompere il legame tra cultura, turismo e rendita. Ci devono essere più spazi indipendenti, deve essere una città non ostile nei confronti dei tanti che vorrebbero stabilirsi, attratti dalla vivacità del luogo e dall’offerta, per sviluppare i propri progetti. Ci sono decine e decine di esempi di amici, persone, che avrebbero voluto creare cultura a Venezia e dopo anni di stenti non ce l’hanno fatta, e non perché non avessero le qualità, ma perché la città e le sue istituzioni non offrono alcun sostegno. Qui passa tantissima arte, è ancora uno snodo mondiale, eppure, troppo spesso, “lavorare nella cultura” è diventato sinonimo di affittare degli spazi e gestirli».

   I temi che stai citando, per chi fruisce dei prodotti culturali, delle mostre e degli eventi che vengono promossi in città, anche nell’ultimo “circo Biennale”, sono già molto presenti: sembra che a livello globale la consapevolezza di chi opera in questo settore sia molto alta: può essere un movimento artistico a farsi portavoce di queste istanze?
«Può un movimento artistico cambiare le cose? Secondo me non da solo. Può trovare una propria via ed entrare in dialogo con un movimento sociale più vasto. Di certo a livello individuale confrontarsi con un’opera d’arte può cambiare profondamente le cose, può stravolgere il modo in cui si guarda mondo, può generare nuove idee. Sono in ballo grandi e affascinanti potenze soggettive. Difficile parlare di estetica come di un campo impolitico. Ma ormai il sistema dell’arte contemporanea è in grado di accogliere il discorso radicale e allo stesso tempo di neutralizzarlo. Tante delle mostre che vediamo a Venezia hanno contenuti radicali, hanno punti di vista molto critici sulla realtà, ma sono tutti inseriti in una logica neoliberale. Serve un risveglio complessivo della cittadinanza. Molte delle più efficaci rivendicazioni sull’arte sono avvenute negli anni ‘60 e ’70, non perché gli artisti fossero più radicali di adesso, era la società intera ad esprimere politiche e forme di vita radicali. Anche l’artista quindi era portato a mettere in questione il modello produttivo del mondo dell’arte. In assenza di movimenti sociali vasti, la cultura, l’arte e gli artisti da soli possono fare poco, sebbene l’arte non esaurisca mai il proprio potenziale politico».

   C’è margine per ridisegnare i perimetri dell’industria culturale veneziana?
«Se questa città non la riempiamo, se non torna ad essere abitata, avremo sempre più un modello che si uniforma alle logiche del capitale finanziario, della speculazione e della rendita immobiliare. Questo è ciò che prospera nel vuoto urbano. Meno c’è vita, più questi fenomeni trovano vaste praterie da colonizzare. Posso fare un esempio che mi riguarda da vicino, parlando di quella parte di città in cui si è innestata l’esperienza di Sale Docks. Lì, intorno ai Magazzini del Sale e Punta della Dogana, con lo sviluppo delle attività artistiche, trainate dall’arrivo di Francois Pinault, abbiamo assistito ad una trasformazione peggiorativa dal punto di vista sociale, dando vita di fatto ad un una piccola, ma significativa, gentrificazione. Spazi come gli altri magazzini che potevano essere adibiti ad attività connesse con la vita della città sono rimasti sguarniti. Ci sono una remiera e un circolo di sommozzatori, ma direi poco altro. Secondo il nostro punto di vista anche tutti gli altri magazzini avrebbero potuto ospitare attività produttive, sociali, culturali: adesso sono semplicemente in affitto per eventi sporadici. E dietro, tra le calli percorse dai turisti, sono cresciute gallerie d’arte di dubbio interesse culturale e negozi di lusso. Tutti esistono per soddisfare la domanda turistica, trovare un legame con il tessuto sociale della città, identificare attività e soggetti che guardino alla comunità cittadina come primo referente, è un’impresa. L’arte ha funzionato da macchina di svuotamento, in quella porzione di città “più arte” ha significato “meno vita”, meno vita sociale, meno spazi per la residenza, meno persone per strada, luoghi chiusi durante gran parte dell’anno e affittati solo per la Biennale, pochi servizi alla persona. È l’effetto sociale che dobbiamo invertire, la formula deve diventare “più arte = più vita”».

Protesta al Lido di Venezia contro le grandi navi.

   Ora immaginiamo di avere in sottofondo la cavalcata delle valchirie come su Apocalypse Now, montare su un drone, che vanno tanto di moda, e sorvolare questa Venezia devastata dal napalm del turismo mordi e fuggi. Dove sono i germogli di speranza?
«Parto dalle esperienze che conosco dall’interno. Il Morion ha messo in campo in questi mesi uno straordinario sistema di mutualismo dal basso, con ragazzi giovanissimi che si sono organizzati in autonomia, portando la spesa a casa agli anziani, promuovendo la colletta alimentare, ripetizioni telematiche per ragazzi che non potevano essere seguiti dai genitori. Il comitato “No Grandi Navi” è in prima linea non solo nella sua storica battaglia, ma anche più generale lotta per la giustizia climatica. Nel settembre scorso sono arrivati al Lido mille attivisti da tutta Europa e da tutta Italia per il Climate Camp (che vogliamo ripetere il prossimo settembre). C’è Lisc, collettivo di studenti di Ca’ Foscari, che sta lavorando attivamente per il diritto allo studio. In entrami gli atenei veneziani ci sono ragazzi che immaginano come dovrebbe essere l’università e che hanno grandi idee. C’è l’importante attività di “Non una di meno”, movimento femminista attivissimo contro la violenza di genere e non solo. Questa è una lista parziale e riguarda i movimenti. Ci sono poi ottimi esempi di imprenditoria sociale e nel campo della didattica universitaria. Faccio due esempi, la libreria Marco Polo che è diventata uno snodo di pensieri e letterature indipendenti. Se penso invece a qualcosa di nuovo nel campo universitario, mi viene in mente il corso di Teatro e arti performative dello Iuav, rinnovatosi e ora diventato uno dei poli d’eccellenza e d’avanguardia della didattica teatrale, sapendo attirare importanti artisti e docenti, non solo dall’Italia, ma da tutta Europa».

   Stando in ambito “positive”: la cosa più bella che hai visto a Venezia nell’anno appena trascorso?
«Ne ho viste tante, voglio però citare un festival alla Giudecca promosso interamente da studenti, che è stato davvero di buon livello. Il titolo forse non era granché (“Il divertimento per li regazzi” ndr), ma è stata una tre giorni davvero interessante, una boccata d’ossigeno, un esempio delle energie che questa città dovrebbe trattenere invece che espellere».

   Cosa speri per il 2020?
«Di iniziare a vivere in una Venezia Post-turistica».

   Il Sale ha futuro?
«Abbiamo intenzione di riprendere le attività in autunno. Stavamo lavorando con un gruppo di giovani agguerriti e al tempo stesso avevamo in programma la mostra di un importante fotografo italiano, Piero Marsili Libelli. Mostra che recupereremo ad ottobre. Al tempo stesso viviamo uno stato di sospensione, la concessione è scaduta. Noi paghiamo una somma annuale al Comune per l’utilizzo dello spazio e ci tengo a dire che dal 2011 non riceviamo un euro dall’amministrazione. Diciamolo chiaramente a scanso di equivoci, nessuno si arricchisce occupando o autogestendo spazi, è esattamente l’opposto. Il Sale era nato da un’occupazione nel 2007, dal 2012 al 2019 il suo uso è stato regolato in convenzione con il Comune, pagando una somma annuale, ora a convenzione è sospesa. Abbiamo già mandato richiesta di rinnovo al Comune di Venezia. Siamo in attesa. Per il futuro puntiamo a rimanere e ad utilizzare quella sede come sempre, come spazio indipendente di produzione culturale».

   Il tuo ristorante preferito?
«Vivo a Cannaregio, quindi cito posti del sestiere: Alle Due Gondolete, l’Anice Stellato, i Promessi Sposi, l’Antica Adelaide, il Timon»

   Miglior aperitivo?
«La birre del Santo Bevitore, i vini di Mezzopieno, il prosecco di Sulla luna e se si cerca un bar dalla genuina anima punk, Fifo»