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Michele Rossi

Park Associati: Milano e la pratica contemporanea dell’architettura

Written by Federico Godino il 18 May 2023
Aggiornato il 23 May 2023

Photo ICTM, Marta Marinotti, Federico Floriani

Michele Rossi è architetto e co-fondatore dello studio Park Associati, una delle realtà più interessanti nel panorama dell’architettura italiana contemporanea e che più sta contribuendo a ridisegnare la città di Milano – con progetti come il Nodo Bovisa e M.I.C, sull’ex hotel Michelangelo in zona Stazione Centrale.  C’è qui una concezione estremamente contemporanea della pratica e del ruolo dell’architetto, e Michele ci racconta della sua esperienza, indissolubilmente legata alla città di Milano.

«A differenza di Parigi o Londra, Milano ha una bellezza tutta sua: qui si riescono a trovare edifici che magari non sono eccezionali o omogenei, ma che hanno un dettaglio straordinario.»

Quando nasce Park, e qual è stata la sua evoluzione rispetto agli obiettivi e alle aspettative iniziali?

Park nasce nel Duemila, fondato da me e Filippo Pagliani. L’idea era quella di creare uno studio che si svincolasse da un “modo” tipicamente italiano, soprattutto rispetto alla figura del “maestro”. Secondo noi – e questi anni l’hanno dimostrato – già allora si stava andando verso un’altra direzione: progetti sempre più complessi, che necessitavano quindi del coinvolgimento di diverse persone e diverse professionalità, dove il gruppo supera l’individuo. Di fatto pensavamo a uno spazio di lavoro che fosse un “parco creativo”, un luogo di ritrovo per teste e saperi diversi, ed ecco la scelta di chiamarlo Park. Nel corso degli anni siamo andati in questa direzione, ed è andato formandosi un ambiente dove le persone si trovano a proprio agio in diversi momenti della loro vita, dove si riesce – forse meglio che altrove – a conciliare la vita privata al lavoro espressivo. Così con gli anni lo studio è andato coinvolgendo diverse discipline di progetto, da interni ad architettura fino all’urbanistica e al paesaggio.

Tra l'altro questa cosa del partire con un nome dello studio non legato a questa “filosofia del maestro” è molto contemporanea.

Lo è anche secondo me anche se ha tutta una serie di conseguenze legate alla comunicazione: è molto più facile mettere una faccia e vendere quella che comunicare il lavoro di gruppo. Devo dire che questa difficoltà si è presentata soprattutto all’inizio, mentre ora è il lavoro che parla per noi – ed è più facile.

Trovo particolarmente interessante il vostro modo di pensare a ricerca, cercando di non ripetersi e di spostare sempre l’orizzonte un po’ più avanti. Come descriveresti la logica della vostra ricerca?

Sì, questa “logica” fa parte del modo in cui lavoriamo: tendiamo a evitare la specializzazione e la ripetizione (la paura di ripetersi e di diventare noiosi è forse una specie di fobia). Abbiamo allora sempre cercato di affrontare temi diversi, lavorando con brand di moda e allo stesso tempo progettando piani urbanistici. È in questo senso che siamo bravi a imparare, ci piace. Park Plus, che è il nostro dipartimento di ricerca, è nato per questo: dal nostro desiderio di imparare, studiare, sperimentare nuove tecniche costruttive, ed è uno spazio che tutti i collaboratori hanno a disposizione. Identifichiamo i temi che desideriamo approfondire, e negli spazi tra un progetto e l’altro (a volte sono settimane altre mesi) si alimenta un sapere, si verifica un’intuizione… Poi Park Plus ci serve anche per differenziare i tempi della ricerca da quelli della committenza, ed eventualmente integrare i risultati della ricerca ai progetti in corso. A volte viene dato un mese per sviluppare un progetto “innovativo”, senza rendersi conto che in un mese al massimo si trova tempo per riciclare qualcosa.

In merito alla ricerca: quali sono i temi su cui state puntando oggi?

Io personalmente (ma penso anche tutto lo studio) ci stiamo interessando negli ultimi anni a quel che dimostra una forte relazione con la città, dallo spazio pubblico a processi che avranno un lungo tempo di ricerca e gestazione, che hanno bisogno di tentativi, di errori e spazio di manovra. Nel primo caso ti potrei parlare di “Michelangelo”, il ridisegno della piazza Luigi di Savoia, che se vuoi per noi dimostra tanto una continuità rispetto a progetti di diversi anni fa, come la “Serenissima”: un progetto di ristrutturazione in cui riuscimmo a convincere la committenza ad aprire un cortile interno e renderlo pubblico – che poi però risultò poco frequentato, perché agli occhi appariva comunque come un cortiletto privato. Per il secondo caso l’urban mining, che qui in Italia è molto difficile perché dal punto di vista legale e normativo è una gran fatica. Ma ci stiamo lavorando, a piccoli passi.

Qual è il progetto più divertente che avete fatto?

Senza dubbio i ristoranti itineranti che abbiamo fatto per Electrolux con Mastercard: una folie disposta sui tetti dei centri storici – a Milano, Stoccolma e Londra. Il divertimento era nel vedere come i centri storici delle città europee facessero non poca fatica ad accettare quel tipo di interventi, anche se temporanei: tutti a gridare allo scandalo per un diamante sul tetto.

Ecco, rispetto alla relazione con la città: con Park avete fatto un grande progetto su Bovisa e a Farini se ne prepara un altro, cosa che porterà tutta la zona a cambiare molto nei prossimi anni. Secondo te che tipo di città si sta costruendo con questi interventi?

Comincio a dirti che io sono tra quelli che tutto sommato vede il bicchiere mezzo pieno: per me Milano è migliorata. Ma è anche vero che è un tema delicato lo sviluppo prossimo della città, poiché il rischio più reale è che Milano cresca troppo – come altre città – in costi di vita e d’affitto, trasformandosi in una gabbia sterile incapace d’attrarre giovani. L’ambito principale è insomma quello della casa e della sua gestione, di Airbnb e di quel che droga il mercato dell’abitato.

Invece questa parte di città – diciamo a nord del Parco Sempione – è stata già in passato al centro di sperimentazioni, a partire dal piano Milano Verde, al QT8. Cosa hanno lasciato secondo te, rispetto a quel che è oggi quest'area?

Il QT8 mi sembra che sia stato un esperimento molto ben riuscito. Questa è una zona che è ancora vissuta ed è ancora molto verde, a differenza di altre aree che furono interessate agli interventi dell’epoca come San Siro. Trovo poi che il QT8 sia un grandissimo esempio architettonico, pensando alla capacità di costruire relazioni e comunità nello spazio urbano. Penso a persone che conosco e che abitano qui, che hanno sviluppato un rapporto strettissimo con la zona, chi è qui da generazioni e chi da qualche anni. Quando si generano questi legami è chiaro che il progetto è riuscito.

Bisogna poi dire che Corso Sempione ha un potenziale straordinario, ma rimane incompiuto: potrebbe diventare uno splendido viale alberato, un’intuizione giusta che è andata perdendosi.

Qual è il luogo legato al design e all'architettura a cui sei più affezionato a Milano?

Eh, è difficile. In generale Milano mi piace molto, credo abbia una bellezza completamente diversa da città come Parigi o Londra. Queste hanno un fascino dettato da un’uniformità, mentre Milano gioca sul dettaglio, sulla varietà, su edifici e monumenti realizzati da architetti che non hanno fatto il “grande salto” nella storia, ma comunque interessantissimi. Se dovessi però scegliere un luogo sarebbe di certo lo Studio di Achille Castiglioni – anche perché gli è appena stato notificato lo sfratto ed è un luogo che amo molto. Ho avuto la fortuna di andarci quando Castiglioni era vivo, quando ancora lavoravo con Michele De Lucchi. Ho un ricordo bellissimo di quello studio e di Castiglioni stesso, che era stato anche mio professore al Politecnico. Certo, quella è anche un’altra generazione e un altro mondo, ma ha il fascino straordinario di quel design che ha saputo creare un’identità fortissima. Per me non c’è un altro posto che abbia un fascino simile, con una storia così straordinaria.

Avendo studiato con De Lucchi sei stato in contatto con quella che è considerata a tutti gli effetti una “scuola” di design milanese. Cosa ci racconti di quegli anni, della tua formazione?

Gli anni della mia formazione erano quelli in cui gli architetti che avrebbero poi fatto la storia di Milano venivano bannati dalle istituzioni, sconsiderati… ricordo per esempio di aver litigato a un esame perché difendevo Gio Ponti. Pensa te. Oltretutto io ho sempre amato molto alcuni progettisti del dopoguerra, come i Soncini (che hanno progettato la Serenissima, l’edificio che ti raccontavo prima), Magistretti o per l’appunto Ponti, tutti architetti che non godevano di grande popolarità all’epoca – specialmente al Politecnico. Posso dire che sono stati questi a convincermi a studiare architettura, non venendo da una famiglia di architetti.

Cosa ci racconti invece di Sempione, da architetto?

Io abito in una casa dei fratelli Latis, che è una casa un po’ particolare rispetto alla zona perché è stata realizzata tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta, e forse per questo è considerata dai più come la casa più brutta del quartiere – perché non ha lo stile del classico palazzo di inizio Novecento che caratterizza tutto il quartiere. Diciamo che è un po’ una casa da architetti, ecco. Giusto gli architetti l’apprezzano. Ma al di là di casa mia, nel quartiere mi sembrano coesistere diverse anime, una popolare, una residenziale e ricca, e quel che per me è il lusso impagabile della zona: il Parco Sempione.

Il momento migliore per stare a Corso Sempione?

Al mattino nei giorni feriali, magari alle dieci per prendere un caffè.