Fulvia Monguzzi in arte MissGoff Etown è una pittrice bravissima. Da poco prima del lockdown insieme a Francesco Pizzo Russo che di lavoro fa l’architetto e al designer Roberto Aponte ha aperto (in quella che per una scelta totalmente estetico-arbitraria) mi piace definire la Nothing Hill di Casoretto aka Alfredo Catalani Street lo Spazio Martín; un atelier per il lavoro privato, ma anche uno spazio espositivo – insomma un luogo polifunzionale aperto al quartiere dove la creatività e le good vibes la fanno da padrone.
I suoi dipinti sembrano dei quadri di un Matisse 2.0 – anzi di una Matisse che ha visto più volte (e assorbito nei pigmenti) tutte le sei stagioni di Girls: Mary Jane di Marni, anziane signorine su divani a fiori con graziosi cagnolini, donne che urinano per strada – questi alcuni dei soggetti idiosincratici dei quadri di Missgof Etown. Il mio preferito è quello che raffigura Blondi, il pastore tedesco (femmina) di Adolf Hitler; più che la serva-cagna dell’uomo più cattivo del mondo, in questo dipinto Blondi la sa più lunga della storia e ci appare come una femminilità (se pur animale) in rivolta – autonoma come dire dall’identificazione determinista e patriarcale con il postulato stesso che qualcuno che realmente comandi una donna sia potuto e possa tuttora esistere.
I suoi dipinti sembrano dei quadri di un Matisse 2.0 – anzi una Matisse che ha visto più volte (e assorbito nei pigmenti) tutte le sei stagioni di Girls
Se volete conoscerla basta portare una birretta in poi in Via Antonio Catalani 35 e sedervi su una delle sdraio che dalle 18 in poi spuntano fuori lo spazio artsy più bello del Casoretto; a volte randomici si aggiungeranno al convivio dei passanti, amici di amici, le storie (e le stories) si accumuleranno… probabilmente berrete (troppo) senza cenare, ma vi sentirete dentro una serie tv molto indie prodotta dalla BBC e girata a Kreuzberg.
In che modo o in quale non modo avete vissuto questo spazio durante la quarantena?
Sì, ecco, buona la seconda. Guarda infatti più che vissuto, posso dirti lo abbiamo pensato e progettato. Eravamo molto carichi di aprirlo ma il lockdown ci ha letteralmente spiazzati. Adesso ci stiamo benissimo, abbiamo già organizzato qualche eventino come lo showcase per la presentazione del disco degli Addict Ameba e pian piano stiamo diventando un punto di ritrovo per i giovani (e non solo) del Casoretto; si sta costruendo una dimensione molto domestica e intima intorno a questo spazio che devo dire va oltre ogni aspettativa.
Da dove vieni e come sei finita a Milano a fare questo lavoro?
Allora di origine sono brianzola; mi sono spostata a Milano per studiare Scultura a Brera – poi pian piano mi sono iniziata a muovere verso il bidimensionale. Dapprima con l’illustrazione di libri per bambini e poi sono approdata alla pittura; è stato tutto molto processuale come dire.
Come mai avete aperto questo spazio in questa zona? Qui vicino c'è la Massimo de Carlo, si è trattato di una coincidenza oggettiva come direbbe il buon Carl Gustav Jung?
Non propriamente (ride). In realtà, potrà sembrare assurdo, ma in maniera abbastanza casuale e ingenua. Certo questa strada a livello estetico è deliziosa, ma non lo abbiamo aperto qui per scopi utilitaristici. Quando lo abbiamo visto ci è sembrato uno spazio molto vicino alle nostre esigenze e vicino alle rispettive case di tutti; e quindi eccoci qui! Pensa prima che arrivassimo noi c’era un negozio per i cellulari; quindi dai possiamo parlare di avere già attuato una prima piccola ma fondamentale riqualificazione urbana del quartiere.
C'è molto però del Casoretto nella tua pittura, o mi sbaglio?
Sì, diciamo che ci è entrato. Come tutti gli artisti visivi e non solo sono necessariamente stimolata e ispirata da tutto quello che mi circonda e quindi certo lavorare qui ha fatto sì che questo posto abitasse e rinfoltisse il mio immaginario. Ho iniziato infatti a dipingere gli alberghi che ci sono qui intorno, sono davvero tantissimi; hanno poche stelle, ma compongono una bella galassia estetica. Prima non mi ero mai interessata all’architettura a livello visivo, ma queste costruzioni mi hanno davvero incuriosito!
Adesso è arrivato la domanda preferita dai lettori di Zero (rullo di tamburi): qual è il tuo bar/posto preferitissimo del cuore di questo quartiere?
Ce l’ho (ride)! Sicuramente il mini-market pakistano qui dietro dove compriamo le birrette la sera per i nostri amici più o meno di passaggio!
Ultimissima domanda che di solito si fa per prima, ma vabbè; come mai ti chiami così in arte?
Perché volevo un nome un po’ archetipico che non mi facesse prendere sul serio da me stessa ma anche dagli altri nei confronti di quello che faccio.