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Solid Light

Dal prossimo 19 ottobre vedrete Roma (mappata) come non mai. Vi spiegano e svelano tutto in questa intervista Valerio e Michele di Solid Light.

Written by Nicola Gerundino il 4 October 2018
Aggiornato il 12 October 2018

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Roma

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Direttori Artistici

Una rinascita e al tempo stesso un’evoluzione. Nel 2015 avevamo salutato con piacere la nascita di ROmap, festival incentrato sul concetto di “interactive light” che aveva portato nel centro di Roma, dal Circo Massimo a Piazza Navona, installazioni e mapping realizzati da artisti di caratura internazionale. Due edizioni, oltre 100.000 persone coinvolte, poi il più classico dei guazzabugli alla romana – fatto di bandi non vinti senza sapere bene perché – ne aveva quasi decretato la fine. Con il 2018 e Videocittà, Lazy, società di produzione che aveva dato vita a ROmap, ha ripreso lo slancio iniziale evolvendo il festival in un nuovo concept e format, idealmente di respiro ancora più ampio: Solid Light. Ce ne hanno parlato in questa intervista i due fondatori: Valerio Ciampicacigli e Michele Cinque. I mapping in giro per Roma? Tranquilli, ci saranno, partiranno dal 19 ottobre e saranno più spettacolari che mai!

 

Per prima cosa, mi piacerebbe introdurre e far conoscere Solid Light, che è una realtà sostanzialmente nuova, anche se con radici consolidate e riconosciute.

Solid Light è un format di Lazy, società poliedrica che si occupa di produzione artistica, e nasce dall’esperienza di
ROmap Festival. Il progetto fa tesoro del network e delle persone che hanno contribuito dal 2015 a oggi alla crescita del
primo light interactive festival della Capitale.
Noi, Valerio Ciampicacigli e Michele Cinque, soci di Lazy, condividiamo la direzione artistica e creativa. Veniamo da
background molto diversi e questa diversità è stata una delle chiavi del successo del progetto: un incontro creativo tra
cinema e design.

Quando e come è nato Solid Light?

Nasce dalla volontà di far crescere ulteriormente l’idea e l’esperienza di ROmap, che iniziavano a stare strette dentro il naming scelto anni fa. Con Solid Light guardiamo anche all’estero e abbiamo l’ambizione di arrivare anche oltre i confini europei.

Il nome Solid Light da dove viene e che significati ha per voi?

Facendo la ricerca del naming con Cappelli Identity Design, il nostro comunication partner, ci siamo accorti che la
scienza sta facendo esperimenti sullo stato solido della luce e abbiamo subito pensato che anche l’arte li sta facendo da tempo. Tanto per dirne una, sul numero di Science del febbraio 2018 si parla di una ricerca congiunta tra MIT e Harvard University che dimostrerebbe come sia possibile unire particelle (fotoni) di luce tra loro. Il mapping costruisce e decostruisce le architetture attraverso la luce: tecnicamente è il risultato di una potentissima
proiezione su una superficie architettonica, che si trasforma grazie alla luce. Anche la luce, però, nel momento in cui
incontra l’architettura si trasforma diventando solida. La luce non serve più solamente per illuminare, acquista una dimensione nuova, molto più potente.

Quando c'è stato il vostro primo incontro col mapping?

Viaggiamo molto per lavoro e ci occupiamo di immagine, arte e design. In uno di questi viaggi, a Londra, nel 2012, Michele
per caso si è trovato in un festival che esplorava le potenzialità dell’arte digitale. Da lì nasce la prima idea di fare
qualcosa sul meraviglioso tessuto urbano di Roma. Poi, come al solito, ci è voluto molto tempo prima di sviluppare un
progetto. Abbiamo indagato più a fondo andando al Signal di Praga e ad altri festival internazionali e poi ci siamo decisi
a presentare il primo progetto di arte digitale per Roma nel 2015. Diciamo che il mapping ci ha catturato perché sembra avere il potere di suscitare la stessa meraviglia del cinema di fine 1800, quando i Lumière facevano le prime proiezioni.

Quali sono gli altri festival di punta?

Se parliamo di light festival, almeno per come lo stiamo intendendo noi, i riferimenti sono tanti e oltre a al Signal di Praga spiccano la Fête des Lumières di Lione, il Light Festival di Baltimora, il Lux di Helsinki e il Mapping Festival di Ginevra. Ci sono festival con cui ci sentiamo più vicini per ricerca, altri invece per strategia. I light festival sono qualcosa di abbastanza recente, però è interessante notare come anche festival più prettamente musicali stiano includendo programmi di light interactive design. Il Sónar, per esempio, che resta il migliore esempio di festival con la F maiuscola, con la sezione Sónar+ ha aperto alle sperimentazioni digitali e alle arti performative. In futuro ci piacerebbe continuare a esplorare anche sul territorio delle contaminazioni tra musica e arte digitale.

Quali sono i primi artisti che avete imparato a conoscere e ad apprezzare?

Al Signal e ad altri festival siamo entrati in contatto con alcuni artisti che poi sono stati protagonisti di ROmap, come Onionlab e Ouchhh, e la ricerca è continuata anche per la creazione della line up di quest’anno, quando porteremo a Roma alcuni dei padri fondatori del mapping contemporaneo. Erano anni che volevamo portare a Roma nomi come Laszlo Bordos e Romain Tardy e quest’anno ci siamo finalmente riusciti.

I primi con cui avete collaborato?

I primi in assoluto sono stati gli Apparati Effimeri di Bologna, nel 2015. Con loro abbiamo realizzato il primo mapping in
stereoscopia mai fatto pubblicamente in Italia. Avevamo scelto la facciata rinascimentale della Chiesa di Nostra Signora
del Sacro Cuore a Piazza Navona. Quell’anno eravamo riusciti anche a fare un’immensa installazione del collettivo francese Coin al Circo Massimo.

Il mapping presuppone una superficie da mappare, che solitamente è quella di un edificio, che solitamente fa parte di una città. Qual è il vostro rapporto con Roma e come Roma ha accolto il mapping?

Roma è casa, ci siamo nati, ma, come molti romani, abbiamo un rapporto conflittuale con la città: da un lato ne siamo
innamorati e dall’altro abbiamo pensato spesso di andare altrove. Roma è una città meravigliosa, anarchica e aristocratica allo stesso tempo, arrivi ad amarla e odiarla ogni giorno. Non puoi essergli indifferente, mai. Il festival, ripensandoci oggi, nasce anche dalla necessità di riconciliarci con la città e con la sua bellezza, di riscoprirla, di valorizzarla. Il mapping è una forma d’arte che interviene su un tessuto pre-esistente, è un
linguaggio che non parte da una pagina bianca. In questo senso, da un punto di vista architettonico e storico-artistico quindi,
Roma offre uno dei panorami urbani più interessanti al mondo. Portare alcuni dei più importanti artisti del settore a lavorare su edifici che fanno parte della nostra storia è per noi un qualcosa di unico, che ci permette di riabitare Roma e il suo centro storico. Roma ha accolto il festival in maniera straordinaria sin dall’esordio nel 2015: in due sole edizioni abbiamo avuto oltre 100.000 spettatori.

Immagino che con ROmap si sia portato per la prima volta il mapping al centro di Roma come soggetto di un festival.

Certamente di mapping a Roma ce n’è stato anche prima di ROmap, ma non era stato mai portato nel centro storico in modo organico, se non per qualche evento commerciale che puntava alla promozione di un brand. Nessuno aveva pensato mai di trasformare il centro storico con vari interventi, dando vita a un percorso di arte digitale, una sorta di museo a cielo aperto. Per noi era e rimane oggi molto importante l’aspetto culturale del progetto, la ricerca artistica, la gratuità degli eventi. Simbolicamente è sempre stato estremamente decisivo lavorare su architetture di rilevanza storica e artistica perché troppo spesso ci scordiamo la bellezza della nostra città e lasciamo che sia appannaggio solo dei turisti.

Che ricordi avete dell'esperienza di ROmap? Qual è stata la soddisfazione più grande e quale la difficoltà maggiore?

Michele: Per me la più grande soddisfazione è stata sentire un bambino di tre anni dire alla mamma: «Che bello, sembra di essere su un’astronave!», mentre passeggiavo nel Circo Massimo invaso da un’installazione gigantesca con circa 5.000 persone. Il momento più difficile è stato quando abbiamo deciso di non fare il festival nel 2017 per mancanza di supporto delle istituzioni, dopo che l’anno prima aveva coinvolto oltre 70.000 persone, dimostrandosi uno degli eventi più importanti dell’Estate Romana.

Valerio: Vedere Roma trasformata grazie al nostro lavoro è stato emozionante e mi ha reso orgoglioso, ma è stata anche un’esperienza faticosa oltre ogni aspettativa. Ricordo sempre con molto piacere che, durante il festival del 2016, dall’account Twitter di BBC Travel invitarono ad andare a Roma per godere dello spettacolo che stavamo offrendo. Non capita spesso di attirare l’attenzione per cose positive.

Al centro di Roma ci tornerete in occasione di Videocittà. Cosa farete e cosa porterete?

Siamo molto felici di tornare con un’edizione del festival al quadrato, che sarà per l’appunto all’interno del programma di Videocittà. Abbiamo moltiplicato le location, moltiplicato i proiettori, alimentato la ricerca sulle ultime frontiere del mapping, invitando alcuni dei pionieri di quest’arte digitale. Siamo emozionati perché andremo a intervenire su architetture uniche al mondo come il Pantheon o il Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur. Per il primo anno lavoreremo anche sull’interazione tra luci motorizzate e proiezioni
per aumentare ancora di più l’effetto “Wow!”. Quest’anno ci
saranno anche due opere che utilizzeranno la tecnica del 3D anaglifico e stiamo producendo decine di migliaia di occhiali 3D da distribuire in piazza. Il percorso nel centro storico comincia dalla Basilica di Sant’Agostino, che ospiterà un’opera in stereoscopia (3D) del collettivo turco Nerdworking, continua al Pantheon che sarà animato con luci e proiezioni dallo studio spagnolo Onionlab, per poi arrivare a Santa Maria sopra Minerva, che sarà trasformata dall’opera stereoscopica “Diplopia”, e alla facciata del Tempio di Adriano su cui interverrà l’artista francese Romain Tardy. Parallelamente, in Via Delle Muratte prenderà vita un’opera originale dei NONE Collective. Tutto questo sarà visibile dal 19 al 21 Ottobre e il 25 e 26 Ottobre.

Il gran finale invece sarà qualche km più in là rispetto al Pantheon.

Esatamente. Per la fine di Videocittà e in collaborazione con Fendi (main sponsor dell’evento), trasformeremo la facciata del Palazzo della Civiltà Italiana nel più imponente mapping architettonico mai
realizzato in Italia. Per questa occasione siamo riusciti a realizzare un sogno: portare a Roma Laszlo Bordos, uno degli
inventori del mapping. Laszlo ha concepito un’opera site specific, “Lux Formae”, che amplifica la dimensione metafisica dell’edificio. Ha dichiarato di voler raggiungere l’illusione che la luce, intoccabile, eterea, immateriale, sostenga la materia del pesante edificio.

Immagino che il mapping, soprattutto a questi livelli, non si improvvisi dall'oggi al domani e che dietro un evento del genere ci sia un apparato tecnico complesso e costoso.

Il mapping è estremamente complesso e costoso! E la tecnologia si muove velocissima, per cui le possibilità si moltiplicano di anno in anno. Questa edizione di Solid Light prevede l’utilizzo di oltre 20 proiettori di nuovissima generazione e per la prima volta lavoreremo con proiettori laser a 4K. Le aziende che producono macchinari per il mapping sono poche e tutte internazionali, come Christie, Barco e Panasonic.

Dopo Pantheon e Colosseo Quadrato, che altro edificio di Roma vi piacerebbe mappare, avendo carta bianca su permessi e budget?

Ci sono moltissime architetture su cui vorremmo intervenire. Uno dei progetti che abbiamo in cantiere è uno spettacolo di mapping a 180° all’interno del Colosseo. Senza limitazioni di budget non ci dispiacerebbe confrontarci con l’Altare della Patria a Piazza Venezia, con Piazza di Spagna esplorando le possibilità di un mapping immersivo, e, perché no, anche con l’esterno del Colosseo. Poi ci sono molti archi a Roma, da quello di Giano a quello di Costantino, su cui sarebbe interessante intervenire. Diciamo che a Roma di spunti non ne mancano….