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SOVRAPPENSIERO

L’iperuranio della progettazione tra la lentezza partenopea e una partita di basket

quartiere Bovisa

Written by Martina Larcher il 11 April 2022

Foto di Glauco Canalis

Il nome dice già tutto. Ernesto Iadevaia e Lorenzo De Rosa amano quella lentezza partenopea che, come si dice, viene dal mare; così come la veracità delle dimensioni amicali, vernacolari, della battuta col passante o delle amichevoli di basket – perché i ragazzi sono anche Bovisa Suerte: l’amatoriale bovisara del basket. Sovrappensiero, dice tutto e una cosa in più: che per essere designer bisogna guardare altrove, saper portare immagini sospese e proiettarsi al di fuori di ciò che si progetta.

«Ti trovi in presenza di due progettisti e professori che sono Presidente e Vice-Presidente della squadra di basket del quartiere: la Bovisa Suerte.»

Furnature

Innanzitutto: è lo studio ad essere vicino casa o viceversa? Perché la scelta di Bovisa per entrambi?

La scelta di Bovisa è stata in principio legata alla vicinanza con il Politecnico, dove Lorenzo frequentava la specialistica (entrambi abbiamo completato la Triennale a Marcianise: una sede distaccata dell’Università di Napoli). Inizialmente siamo stati coinquilini e lavoravamo principalmente in casa: il secondo appartamento, in particolare, lo abbiamo scelto secondo l’esigenza di avere una stanza da adibire a studio. Nel 2017 abbiamo trovato questo spazio e non ci siamo più voluti spostare, anche ora che viviamo con le nostre rispettive compagne, abbiamo casa nei pressi dello studio.

Rispetto ad altre zone di Milano, Bovisa è sempre stata una realtà più simile ad un paesino: soprattutto nel 2007 quando siamo arrivati, si aveva la percezione di abitare fuori città. Conoscere il quartiere e creare network ci ha permesso di spostarci al suo interno con consapevolezza. Da bravi meridionali abbiamo cercato immediatamente di consolidare i rapporti nati qui. Abbiamo moltissimi amici che abitano nel quartiere oltre a contatti con diversi artigiani che come noi lavorano qui e con cui collaboriamo, è una rete che esiste ed è il nostro canale principale.

Come avete vissuto la crescita del quartiere?

Il quartiere sta cambiando e vogliamo coglierne gli aspetti positivi. Nei prossimi tempi ci piacerebbe godere della varietà di nuove attività nel quartiere, continuando a trovare aperta la vecchia trattoria che frequentiamo da anni. Vorremmo continuare a vedere le serrande delle vecchie botteghe artigiane alzate. La nostra realtà stessa, così come le ragazze che lavorano al restauro del legno qui al piano di sotto e il ceramista con cui collaboriamo, la consideriamo una realtà artigianale. L’ondata di cambiamento sta portando del buono per il momento, ad esempio qui a fianco ha aperto una piccola casa editrice indipendente, e ci piace che il quartiere stia continuando ad attrarre anche piccole realtà come questa.

Il quartiere influenza la vostra creatività, o potreste trovarvi in qualsiasi parte del mondo durante il processo di progettazione?

Non è una domanda facile. Di base ci sentiamo di dire che per quanto riguarda il nostro lavoro potremmo essere in qualsiasi parte del mondo. Altresì vero, è che nel nostro mestiere ha sicuramente influito molto, perlomeno inizialmente, il fatto di avere sede a Milano. Per quanto riguarda la partecipazione ad eventi e la creazione di una nostra rete, essere qui e toccare con mano la nostra realtà, ha aiutato tanto. Questo vivere culturalmente la città ci ha influenzati e ci influenza tutt’ora. Il quartiere invece, dal canto suo, ha una lentezza che ci piace moltissimo. La tranquillità che ci dà, la riflettiamo nel nostro modo di approcciare le giornate lavorative, più che nel nostro lavoro in sé, ed è comunque molto importante. Siamo fuori dallo stress milanese che si vive in centro, ci piace conoscere le persone del quartiere che vivono serenamente le giornate fuori dal caos. Stiamo in questa nostra bolla, con il privilegio di scendere di casa e venire a piedi in studio… Poi, fortunatamente, un po’ del caos piacevole, sta arrivando anche qui.

Le idee migliori vi vengono sovrappensiero?

 

È un po’ questo il concetto: le idee brillanti non ti vengono quando sei al computer ma quando ti astrai dalla realtà. Rappresenta “da dove vengono le idee”, ma è anche per il fatto che i nostri prodotti siano spesso dei progetti narrativi, che in qualche modo ti trasportano in un sovrappensiero. Spesso è sufficiente un simbolo o un materiale a portarti a pensare ad altro rispetto a ciò che stai osservando.

 

Avete lavorato per grandi case del prodotto, ma mi interessa sapere da dove è partito tutto. Esiste un primo passo che vi ha fatto capire di essere nella giusta direzione nella realizzazione del vostro studio?

Sicuramente la nostra prima partecipazione come “Sovrappensiero Studio” al Salone del Mobile. Abbiamo esposto al Salone Satellite riservato a giovani designer emergenti. Vivevamo solo da un anno a Milano e in quell’occasione abbiamo messo il primo mattone nella costruzione del nostro studio.

Mentre adesso a cosa state lavorando?

Da tre anni lavoriamo come insegnanti in NABA, questo è un nostro progetto costante ed impegna molto del nostro tempo. Inoltre, abbiamo diversi clienti fissi in Italia e all’estero, seguiamo ad esempio la direzione artistica di un grande Brand in Asia e di un Colosso del mondo del fashion che manterremo segreto. Oltre ciò, ci sono lavori più occasionali in cui ci viene richiesto di disegnare un prodotto in particolare. Svolgiamo anche lavori di consulenza.

Come approcciate la progettazione di un prodotto, quando vi viene commissionato? Come funziona il processo di interfaccia con un cliente e quanto influisce la vostra filosofia sulle sue richieste?

Di base il cliente che ci contatta vuole qualcosa di nostro, concetto che è diventato sempre più definito nel corso degli anni, come il linguaggio visivo e narrativo. Questa è una parte fondamentale del nostro approccio: molti dei nostri lavori si raccontano molto bene attraverso la forma, altri lo fanno tramite il contenuto. Nel primo brief con il cliente, vengono stabilite le “regole”, solitamente da lì in poi abbiamo carta bianca e sta a noi fare più di una proposta e a lui valutare quale di queste portare avanti.

Da designer partiamo sempre da una narrativa ed un’estetica che piace a noi, in secondo luogo dobbiamo fare i conti con quella che è la fase produzione, i costi, lo stoccaggio, la trasportabilità, e una serie di temi che hanno un’importanza anche ambientale. Cerchiamo di rendere il progetto equilibrato tra le idee e la concretezza.

In parallelo svolgiamo dei nostri progetti di ricerca in cui sperimentiamo e ci diamo carta bianca, dove c’è spazio solo per il nostro modo di voler fare qualcosa senza alcun compromesso con l’esterno.

In quale fase del progetto si inserisce la scelta di un materiale e quale attenzione c’è oggi, da parte dei brand con cui collaborate, nei confronti della sostenibilità?

Lavoriamo con aziende che non fanno grandissimi numeri in quanto a prodotti, spesso i nostri lavori escono come serie limitate, e questi tendono a perdurare nel tempo. Qui si ritrova anche una sostanziale differenza tra il prodotto di design e quello di mass-market: il prodotto di design ha un costo maggiore che tiene conto, tra le altre cose, anche della sua durata di vita.

L’attenzione produttiva e il processo stesso di realizzazione sono più lenti, ma destinati a durare nel tempo. Come insegnanti cerchiamo di lavorare molto su questo tipo di sensibilità con i nostri studenti, che mira a fare un design più sostenibile o alla collaborazione con quelle Onlus che fanno qualcosa di altrettanto positivo per il Pianeta. Cerchiamo di dare un buon esempio continuando a lavorare un po’ come “bottega artigianale” e non come grosso studio che fa prodotti di larga scala. Quest’anno con gli studenti abbiamo tenuto un corso legato all’inquinamento dei mari attraverso una Onlus che si occupa di questo tema, sia in termini di comunicazione ed educazione delle nuove generazioni, che di progettazione. Il tema che scegliamo ogni anno per la nostra classe, è un pretesto per insegnare dei valori come quello culturale e divulgativo di un progetto.

È importante che i ragazzi avvertano la responsabilità dell’essere designer, lavoriamo molto in questa direzione. Comunque i ragazzi di oggi hanno questa sensibilità molto più sviluppata rispetto alla nostra generazione.

Come avete vissuto il periodo di pandemia: è stato un momento di creazione o di riflessione e rivalutazione del vostro approccio?

È stato un momento per riconsiderare e riconsiderarci, anche per fare un punto sulla situazione e la direzione che volevamo prendere da lì in poi. Un momento di autoanalisi, se vogliamo. In quel periodo abbiamo realizzato un progetto grafico dedicato: “Stay at home and go somewhere”, lo abbiamo messo a disposizione della collettività gratuitamente e ha avuto un buon riscontro, se abbiamo aiutato delle persone a distrarsi per qualche momento siamo riusciti nel nostro intento. Nel complesso le riflessioni che abbiamo fatto durante il lockdown sono state un momento di crescita. Se prima eravamo un po’ bulimici nel lavorare, con la paura di rifiutare un lavoro per non perdere un’occasione importante, abbiamo imparato a dire qualche no.

Quindi anche la lentezza è stata qualcosa che avete dovuto imparare?

Assolutamente! Noi arriviamo da una lentezza che ci appartiene culturalmente, non nascondiamo che quando ci siamo trasferiti e ci siamo dovuti interfacciare con la realtà turbolenta di Milano, ne siamo stati affascinati e ci siamo lasciati trasportare. A quei tempi Milano per noi era lontana, non solo metaforicamente: impiegavamo 10 ore di treno notturno per arrivarci, è stato come fare un Erasmus! Poi gradualmente abbiamo riacquistato i nostri tempi, imparandone il valore.

Avete viaggiato parecchio per lavoro, c’è un’esperienza che vi ha fatti tornare a casa vedendo il vostro operato con occhi diversi?

Siamo stati molto fortunati perché per lavoro abbiamo visto quasi mezzo mondo. Queste occasioni state naturalmente ragione di orgoglio, perché venivamo chiamati come eccellenze italiane nel nostro ambito. Siamo stati chiamati in Colombia ad insegnare ed è stato super interessante, siamo stati in Messico per fare un lavoro con degli artigiani del Chapas, una zona a sud dello Stato: una realtà che non avremmo mai conosciuto come turisti. Si tratta di un contesto artigianale autentico, in un luogo fermo da secoli, è stato molto affascinante e ci ha portato alla nostra riflessione sulla lentezza.

Poi siamo stati chiamati ad esporre a Stoccolma per l’Ambasciata Italiana; siamo andati in Cina per conto di aziende che hanno lì la propria produzione, dove abbiamo visto bellissime città all’avanguardia, ma anche aziende con ritmi disumani.

Non abbiamo mai rifiutato un viaggio, anche se ha comportato spesso grandi sacrifici per incastrare le consegne di lavori importanti con le partenze. Abbiamo lavorato le notti per conciliare il tutto, ma la ricchezza di quei viaggi valeva lo sforzo.

Insegnate alla NABA, capiamo subito…che tipo di insegnanti siete: quale è la cosa fondamentale che i nuovi designer dovrebbero avere in tasca per il loro futuro, nella prospettiva del mestiere dei prossimi vent’anni?

La distanza di età con le nostre classi si allunga sempre di più: anche se siamo giovani, loro sono sempre una classe di secondo anno di università, mentre per noi il tempo va avanti. Per i nostri studenti cerchiamo di essere un po’ come Don Matteo, vivendoli in maniera empatica: andiamo a berci i drink con i ragazzi, giochiamo a calcetto, e tutto questo ci aiuta a trovare una connessione con loro. Noi non siamo professori, ma professionisti che insegnano un metodo: ideale che condividiamo con NABA.

Oltre a ciò che ci siamo già detti sul tema ambientale, crediamo che per loro sia importante capire che oggi non si lavora più solo sul materiale, su ciò che è fisico, ma sempre più sul digitale: è una cosa che a noi boomer manca, ma fa parte del nostro mestiere in maniera sempre più profonda. Bisogna anche considerare come le guerre porteranno crisi economiche (non solo), che provocheranno un innalzamento dei costi delle materie prime. Sarà importante capire che dovremo produrre solo ciò di cui abbiamo bisogno, e non solo in termini di prodotti, ma anche e soprattutto, culturalmente.

Le nuove generazioni hanno davvero bisogno di riscoprire un po’ di lentezza perché fa parte di una grande equazione, non devono avere la fretta di arrivare subito ai risultati e al successo; è molto facile incepparsi nel meccanismo del “faccio tutto e subito”. Il nostro mestiere va costruito sul lungo termine con passione, ma anche con pazienza, dedicando il giusto spazio all’intelletto e al disegno, nel senso ampio del termine. Quello che proviamo ad insegnare è che il lavoro va costruito mattone dopo mattone, acquisendo una consapevolezza che permette di lavorare bene. Il nostro, quello di designer, non è un mestiere di facciata: è come scrivere un libro, ed è giusto prendersi il giusto tempo per farlo bene. Altrimenti il rischio è di scrivere qualcosa che non vorrà leggere nessuno… noi puntiamo a non finire mai sullo scaffale di un autogrill! Sappiamo che questa generazione ha la sensibilità giusta per fare cose importanti.

Sono le sette di sera e avete ancora i monitor accesi, quindi un po’ temo la risposta a questa domanda… quando non vi dedicate al lavoro in studio, cosa occupa il vostro tempo, oltre la famiglia?

Per farti capire quanto siamo inseriti in Bovisa, ti diciamo soltanto che ti trovi in presenza del Presidente e Vice-Presidente della squadra di basket del quartiere: la Bovisa Suerte. Come ti dicevamo, abbiamo coltivato moltissimi rapporti in quest’area di Milano che amiamo, e ci piace poter dedicare il tempo libero alle cose che preferiamo: tirare tiri a canestro e bere delle birre in compagnia dei nostri amici. Ma questa è una storia che meriterebbe un capitolo a parte.