Se non avete mai preso della cringina, troverete in questo consiglio spassionatamente medico amatoriale una soluzione incredibile per vivervela meglio. Qua la assumiamo assieme a dosi di tropeina: un’endovena pop-post-punk-synthwave tagliata con razioni di indie. Sono i Tropea: la band baluardo di Porta Venezia, locals assidui del Picchio che sanno bene come cringiarvi per farvi sentire più leggeri.
“La memetica è sempre stata un po’ alla base della nostra comunicazione, e memetica e cringe vanno abbastanza a braccetto.”
Tropea. Da dove arriva questo nome dal sapore di mare?
Claudio: Arriva da qua, dal Picchio, scelto tra una selezione di nomi tutti molto più belli. Ma non è stato tanto per Tropea in sé – l’abbiamo anche visitata, bellissima e tutto –, è che quello era un giorno di pioggia e noi avevamo voglia di sole, di ombrelloni, proprio come questi al Picchio. Volevamo un clima tropicale, e dalla voglia di tropicale è uscito Tropea. È rimasto lì un po’, è fermentato e poi l’abbiamo preso.
Domenico: Del tipo: dove adesso c’è Vini Scelti – uno di questi nuovi posti di Via Melzo che pretendono di fare competizione al Picchio – c’era Oliva, che faceva chiavi e serrature. Da lì è nato uno dei nostri primi nomi: Olive Oil. Pensa che al nostro primo concerto siamo saliti sul palco e ci hanno presentato come così. Siamo dovuti andare dal presentatore e sussurrargli che da quel momento ci saremmo chiamati Tropea.
Lorenzo: Siamo passati anche per Ecce Bombo. Ma eravamo in una fase Moretti-depressiva.
Beh, dal nome più locals-Porta Venezia che ci si possa immaginare all’isola tropicalizzata. Ma come vi siete conosciuti?
Domenico: Io e Pietro abbiamo fatto il liceo in Piazza Ascoli, e già suonavamo in una band liceale: solite cover. Così abbiamo mosso i primi passi nei centri sociali, in quella cultura alternativa del 2010-tosto-90s, con le felpe dei Nirvana. Abbiamo toccato degli apici di carriera musico-liceale quando eravamo sfruttatissimi e vendevamo prevendite dei concerti alle mamme, ai papà e ai compagni di classe, a centinaia, e finiva che ci prendevamo dieci euro a testa ed eravamo contenti. Da lì non ci siamo mai persi di vista.
Pietro: Il classico cursus sonoro, o la Via Crucis. Claudio è arrivato dopo una sequela di batteristi infinita, a partire da Marco Castello, che faceva la civica Jazz con noi. Lui era gasatissimo per suonare la batteria (ed era un trombettista), e abbiamo cominciato a provare i nostri pezzi con lui finché non è tornato in Sicilia. Per un brevissimo periodo ci fu Elia Pastori – batterista di Mahmood –, ed è stato lui che ci ha affidato alle mani del buon Claudio, che da subito è stato il papà vero e proprio della band. Al primo incontro ci ha detto: «Belli i pezzi, sì. Bello fare le prove in saletta ma è ora di fare i concerti». Al primo incontro. La svolta.
Sound scanzonato, a tratti malinconico con influenze synthwave e punk rock cringe (ci torniamo dopo), cosa siete innanzitutto?
Domenico: Penso si possa dire che siamo davvero una delle poche band indie, senza etichetta. Ma non per scelta politica, semplicemente perché per ora le cose stanno andando così vogliamo vedere fin dove arriviamo. Pensa che il primissimo materiale, di Lost in Singapore per esempio, era in realtà una serie di demo fatte in ritiro a Serole, in campagna.
Pietro: Tutto quello che abbiamo registrato l’abbiamo fatto lì, nelle Langhe, tutta autoproduzione.
Domenico: Il primo box che avevamo per provare era in Benedetto Marcello, poi ci siamo spostati in un altro box che è stato il punto di riferimento per la scena musicale delle band di Porta Venezia che è in viale Maino. Un box auto al meno cinque, dove a provare c’erano i Nobody cries for dinosaurs, che sono stati i pionieri dell’indie rock in Porta Venezia, ma anche Nava, Malkovich, Montag. Adesso abbiamo nuovo posto in affitto con Lim, Elia Pastori, la MYSS, tutti sono fruitori temporanei. È nostro, ma soprattutto è dei batteristi che colonizzano tutto lo spazio che c’è.
Quando avete iniziato a fare date a cascata?
Pietro: Montag è stato essenziale. Fece uscire un primo articolo su Rockit che parlava di noi con un titolo da clickbate: “I Tropea sono la band migliore di Milano ma non lo sanno neanche loro”. Da lì a pochi giorni ci sono piovute addosso date su date. Siamo praticamente nati quel giorno.
Domenico: Quell’articolo da un certo punto di vista ci ha creato ma ci ha pure appiccicato addosso un’etichetta. Quel “ma non lo sanno neanche loro”, ha colto nel segno una caratteristica che ci appartiene: l’essere cazzoni. L’abbiamo ritrovata questa etichetta: “la band peggio-vestita”, o “sembrano degli scappati di casa ma quando suonano è un’altra cosa”. La verità è che davvero non sapevamo nemmeno cosa fosse un comunicato stampa. Pensa che fu Montag a caricarci i brani sullo Spotify di DistroKid, al baretto dei leccesi davanti a Statale. La prima volta che lo conobbi fu in Piazza Grandi, a Calvairate, mentre suonavo per terra con un paio di amici. Si è fermato, abbiamo cantato un po’ di Paul Simon e altre robe mega-boomer e ci siamo scambiati i numeri. Insomma, per farti capire i nostri piani editoriali all’epoca, quel nostro essere “scappati di casa”: abbiamo fatto uscire Lost in Singapore appena prima del concerto al Lume. Avevo montato un videoclip con alcune riprese che facevo andando in giro per serate, tant’è che ancora adesso è un unofficial, l’unico del mio canale tra l’altro – e ho pure un infringement del copyright perché a loro pare che non abbia i permessi di usare questa canzone. C’erano anche personaggi degni di menzione tipo Lapo Vecchi: un locals che con noi ha lavorato tanto, un produttore trap e nostro socio dalle medie. Abbiamo scritto insieme OWO che è uscito da poco. E lui pure è attivo nella scena rap dal 2010, con il suo studio-cameretta come molti di noi a Benedetto Marcello.
Qui sopra il video incriminato.
E poi c’è stato anche The Afternoon Show, con Kevin Cole.
Domenico: Io stavo pensando a Radio Statale, pensa te. Eravamo al Linecheck, in attesa di suonare nella capsula, quando io e Lorenzo vediamo Kevin Cole passarci davanti. C’è stato un attimo di novabbé-io-vado. Ho pensato a come mia madre mi avrebbe preso e buttato in acqua e mi sono lanciato. Mi sono appostato per vedere che panel stesse seguendo, e quando è uscito mi sono presentato come un grande fan. Lui semplicissimo: «Hey, cosa fai qua? Ah ma suoni? Ah tra mezz’ora? Ok vengo». Mega rodato. Non ci speravo nemmeno troppo ma alla fine è arrivato.
Pietro: È stato gentilissimo, ci ha sempre propsato in radio tutte le uscite.
Domenico: Ci ha anche intervistato all’inizio della pandemia, per sapere come si stava in Italia prima che il covid arrivasse anche in America. Eravamo anche tra i primi a fare musica chiusi in lockdown, a registrare e a produrre dischi in casa, nelle camerette. In quei mesi abbiamo fatto Might delete later, che era un po’ materiale preregistrato – soprattutto le batterie – in casa in campagna, che è un altro luogo importante per noi: il nostro ritiro musicale.
Torniamo al Cringe. Che più o meno tutti oggi sanno cosa sia. E più o meno ovunque, on-line, siete etichettati come cringioni nella cornice di TikTok, soprattutto rispetto al vostro ultimo EP “Might Delete Later”. Perché i Tropea sono cringe?
Claudio: Io da boomer non sapevo nemmeno cosa fosse, e per loro tutto era cringiare.
Pietro: Ci siamo scoperti cringe rockers. Ma la memetica è sempre stata un po’ alla base della nostra comunicazione, e memetica e cringe vanno abbastanza a braccetto. C’è sempre stata un po’ questa contraddizione tra la musica che facciamo, per certi versi seria, e la comunicazione: lol, cringe… ma è stato Domenico a farci scoprire l’umorismo degli idioti dei meme.
Domenico: La prima volta che ho assimilato la parola “cringe” è stato assieme a TikTok. Era il 2018, quando ancora qui il cringe non si sapeva cosa fosse. Vedendo i TikTok ripostati nelle pagine di meme ho capito cosa fosse il cringe, e sono riuscito a dare un nome a tutta una serie di cose che sentivo dall’adolescenza ma non sapevo nominare: è quella sorta di imbarazzo-disagio che da dipendenza, che ti dà fastidio ma non riesci a smettere.
Pietro: Un po’ come i video della gente che si spreme i punti neri.
Domenico: Il nostro punto è che a volte magari, anche durante le interviste o dopo i concerti. Ci autoimbarazziamo, facciamo cringiare la gente e assimiliamo “cringina”. Io la consiglierei come risposta sociale: la cringina serve ad abbattere tutta una serie di muri. E bisogna provare a cringiarci. È un po’ come la teoria delle docce fredde, che più ne fai più abbassi una certa treshold di temperatura. Il percorso è un po’ quello. Entri in un contesto sociale che magari ti genera ansia, ma con una voglia di prenderti meno sul serio. Tant’è che prima o poi farò una serata di Open-Mind-Cringe dove il limite saranno solo le stelle. Che poi il rapporto con la memetica sarebbe un capitolo a parte, perché quando ci siamo formati non come Tropea/Olive Oil ma come nucleo, all’inizio eravamo bazzicatori di svariate pagine o sezioni commenti dove vedevi nascere meme come Pepe. Io andavo molto su 4chan, per esempio. Tant’è che il nostro primo nome era stato Rare Pepe.
Per fortuna che non l'avete usato.
Lorenzo: Ho visto il mio piccolo bambino Pepe corrotto dall’Alt Right Americana.
Domenico: Diciamo che la memetica è nata sverginata, non ha mai avuto un periodo di purezza o di ingenuità, come magari si potrebbe dire per la scienza fisica, che ha perso la verginità con la bomba atomica.
Una cringe compilation gentilmente raccolta dai Tropea
Com’è nata invece l’idea e la voglia di confrontarsi con TikTok rispetto a una produzione musicale per certi versi mirata – che sono campi che comunque, a livello di mercato almeno, non è che siano proprio sovrapponibili?
Domenico: Avevamo un po’ questo pallino qua. Tante persone fanno contenuti su TikTok, almeno fino a un paio di anni fa. Ora la musica, soprattutto quella da classifica, è stata pienamente influenzata da TikTok. Ai tempi era un’intuizione: questa roba qua cambierà un po’ di paradigmi, ci vuole il meme, ci vuole altro. Io avevo proprio fatto le mie analisi, del tipo segnarsi dopo quanti secondi cambia radicalmente la canzone nelle basi, che iniziano tutte in un modo e poi all’improvviso c’è un cambio di scena, la prosdoketon, il cambio totale del contesto, che comunque è figlio del drop.
Lorenzo: FIGLI DEL DROP, grande idea per un libro.
Domenico: Io ricordo quando facevamo le prove, che arrivava il momento dove si doveva droppare: buildi l’attenzione e poi cambi scena completamente. Insomma, la cosa che ci interessava era osservare e fotografare questa cosa. Il nostro EP per TikTok dura tre minuti, ma hanno tutti quella vibe lì.
Pietro: C’è da dire che il fatto di creare canzoni apposta per TikTok ancora non esiste. Possiamo dire di essere stati pionieri.
Domenico: Anche perché il mercato non si sostenterebbe. Bisognerebbe che ti dicano ti inserire in una certa canzone una cosa come I’m sexy and I know it, così che quella frase e il droppino che c’è dopo si possa prendere e commissionare a degli artisti tiktoker e così via… Tra l’altro poco dopo questi nostri esperimenti iniziarono a uscire una serie di artisti che devono veramente la loro fortuna a TikTok. Tipo Trevis Scott, The Weekend o Lil Nas X, credo uno degli artisti più grandi in America adesso. Quello che aveva fatto quel brano famosissimo che era Old Time Road… com’è che faceva?
[Tropea in coro]: I’m gonna take my horse to the old town road /I’m gonna ride ’til I can’t no more / I got the horses in the back / nanananana…
Domenico: Sono veramente hit di TikTok. Sono esplose lì e hanno avuto la riverberazione nella classifica billboard per quel motivo lì. Ma in ogni caso non saremo mai fruitori appieno di TikTok. Siamo una generazione Y a cavallo con la Z, e abbiamo quel retaggio boomer conscious da uomini del Novecento – che però vedono tutta questa roba.
Lorenzo: Siamo decisamente figli del drop.